Partito di Alternativa Comunista

Il Sessantotto in Italia: eredit

Il Sessantotto in Italia: eredità di una rivoluzione mancata

I gruppi di estrema sinistra e il ruolo del Pci nel biennio che sconvolse l’Europa

 

Ruggero Mantovani

 

Il Sessantotto ha rappresentato una straordinaria esperienza rivoluzionaria nata nel cuore dell’Europa capitalista. La coraggiosa rivolta studentesca del maggio francese, di lì a poco, assunse una tendenza internazionale che aprì la strada ad imponenti scioperi generali e ad una radicalizzazione delle lotte operaie che produssero, anche in Italia, una crisi rivoluzionaria di enormi proporzioni.

Il Sessantotto mostrò, in definitiva, dopo la lotta di resistenza partigiana, la prova del fuoco della rivoluzione in occidente e, al contempo, la verifica, sul terreno dell’esperienza pratica, del tradimento delle burocrazie riformiste e staliniste e dell’impotenza delle impostazioni movimentiste che si svilupparono nell’estrema sinistra.

 

L'Italia nel contesto internazionale

 

Gli avvenimenti che maturarono tra il 1968 ed il 1969 non possono in alcun modo essere ricondotti alle specificità nazionali dei paesi ove si svilupparono, ma si inserirono in una tendenza più generalmente europea ed internazionale. In particolare in Francia, fin dal 1967, una nuova generazione di studenti viveva da un lato le contraddizioni della scolarizzazione di massa e dall’altro un clima politico che in quegli anni si nutriva di esperienze (la lotta e la morte del Che in Bolivia, la resistenza del Vietnam contro l’imperialismo, ma anche le lotte studentesche in Germania e in Italia) che, seppur semplificate e talvolta distorte, rappresentarono un efficace fertilizzante del conflitto contro il potere gollista.

Lungi dalle specificità delle condizioni in cui nacque il Sessantotto italiano, il suo contenuto è da iscrivere in una tendenza internazionale che, seppur si manifesterà con tratti e dinamiche distinti, al fondo fece emergere una nuova generazione studentesca ed operaia che, con le sue lotte radicali, mise in discussione l’imperialismo come sistema di dominio mondiale.

In questo contesto maturava anche in Italia il Sessantotto: una tumultuosa ascesa del movimento studentesco che vide tra il novembre 1967 e il giugno 1968 circa 102 occupazioni di sedi e facoltà universitarie, tra cui (solo per citare le più conosciute) Valle Giulia a Roma, la Cattolica a Milano, la Sapienza a Pisa e la facoltà di architettura a Venezia, che contribuirono al nascere delle mobilitazioni nelle scuole medie in molte parti del Paese.

La repressione del movimento studentesco, che negli avvenimenti sopra riportati fu grave e molto violenta, impresse una rapida politicizzazione degli studenti che fece da innesco alla ripresa delle lotte operaie che si protrassero fino al cosiddetto “autunno caldo” del 1969. Lotte esemplari di contenuto generale (per le pensioni e l’eliminazione delle “gabbie salariali”) e aziendali come, ad esempio, per ricordare le più significative, la Fiat a Torino, la Pirelli a Milano, la Fatma a Roma, il Petrolchimico a Porto Marghera.

Un crescendo di mobilitazioni che si acutizzerà nel luglio del 1969 in occasione del rinnovo del contratto dei metalmeccanici, che vide a Torino, in Corso Traiano, un duro scontro di piazza tra la polizia e il corteo organizzato dagli operai della Fiat e dal movimento studentesco. Lotte radicali che fecero emergere una difficoltà del Pci e della Cgil a controllare questo movimento sempre più influenzato dalle organizzazioni di estrema sinistra, dai comitati di base, ma anche da ampi settori operai che cominciarono a farsi portatori degli interessi generali dei lavoratori.

 

Le rivolte studentesche e la “primavera di Praga”

Il Sessantotto ha intrecciato la lotta antimperialista del Vietnam, il maggio francese, le lotte studentesche in Italia e in altri importanti paesi occidentali, alla splendida “primavera di Praga”. Le vaste mobilitazioni che esplosero in Cecoslovacchia misero in evidenza la crisi del regime burocratico imposto dallo stalinismo. Un vigoroso movimento nasceva nei paesi del “patto di Varsavia”, dopo le rivolte del 1956 in Ungheria ed in Polonia, che fecero emergere l’acutizzarsi della crisi di egemonia politica delle burocrazie moscovite. Una crisi che a Praga si espresse in una molteplicità di forme: rivendicazione degli intellettuali della “libertà di creazione artistica e culturale” come elementare diritto di una società che si definiva socialista; lotta della classe operaia contro la burocrazia per l’elezione diretta dei dirigenti sindacali; mobilitazioni di solidarietà internazionalista degli studenti cecoslovacchi con il Vietnam. Ma la reazione della burocrazia stalinista non si fece attendere: come negli anni Cinquanta, per contrastare il dissenso popolare, avviò un vasto intervento repressivo le cui tragiche immagini contribuirono a scavare la crisi dello stalinismo con ripercussioni sulla burocrazia italiana. L’atteggiamento del Pci rispetto alla questione cecoslovacca, in effetti, non andò oltre l’appoggio della tendenza burocratica espressa da Dubcek e non potendo operare (per questioni internazionali e nazionali) una rottura con il sistema burocratico del Cremlino, dopo la sostituzione di Dubcek con Husak prevalse nel Pci una linea prudente e di accettazione della repressione moscovita. Lo stalinismo italiano per molti decenni impedì, anche con metodi repressivi, l’evolversi di nuove formazioni politiche a sinistra, ma il terremoto del Sessantotto e l’impetuoso movimento di massa impose una parziale modificazione di questa impostazione.

 

L'estrema sinistra

 

Già precedentemente al Sessantotto si segnalavano, tra le tendenze filocinesi, il Partito Comunista d’Italia riconosciuto sia da Pechino e sia da Tirana e il gruppo dei Quaderni Rossi di Panzieri, di minore importanza, che si trasformò in un gruppo maoista ideologico. Dopo la fine del gruppo Classe Operaia in diverse città del Paese aveva acquistato una certa influenza Potere Operaio.

Dal versante sindacale l’emergere dei comitati di fabbrica, nati al di fuori del quadro sindacale ufficiale, rappresentò la necessità di rompere con gli orientamenti burocratici del sindacato confederale, costituirono importanti momenti di mobilitazione di settori operai non organizzati. Il Sessantotto rappresentò un terremoto anche all’interno del Pci in cui per molti anni vi era la maggioranza dei settori politicizzati della classe operaia. Ha smentire le teorie spontaneiste sono i fatti, poiché la maggioranza dei quadri che all’origine animarono le mobilitazione del movimento studentesco, provenivano dal Pci e solo in minima parte, dal Psiup e dal Psi . Tra gli esponenti più noti dell’estrema sinistra ricordiamo: Adriano Sofri leader di Lotta continua (gruppo politico caratterizzato da impostazioni spontaneiste tendenti a contrastare i consigli di fabbrica con la parola d’ordine “siamo tutti delegati”. Le posizioni assunte da questa organizzazione erano di carattere impressionistiche ed estremiste, prive di una chiara prospettiva strategica; ad esempio nel 1971 si ricorda la campagna contro il cosiddetto “fanfascismo” ritenendo cha la presidenza della repubblica a Fanfani avrebbe determinato un nuovo regime autoritario); Franco Piperno di Potere Operaio (un’organizzazione che spesso alternava impostazioni piccoli borghesi come ad esempio la parola d’ordine “rifiuto del lavoro”, ad un concetto di violenza proletaria che spesso confondeva la rabbia con la coscienza di classe); Luigi Vinci di Avanguardia Operaia (organizzazione segnata da un forte eclettismo ideologico: combinava concezioni maoiste con teorie trotskiste deformate, ispirazioni provenienti dalla tradizione dei Quaderni rossi, come ad esempio la visione di un capitalismo razionalizzato che produceva crisi nel momento in cui ne aveva bisogno, combinata ad alcune pratiche settarie che tendevano a trasformare i comitati in cellule della propria organizzazione: il caso della prima Cub egemonizzata da militanti dei Avanguardia Operaia.); Pintor, Magri, Rossanda, Parlato e altri del gruppo del Manifesto (il Manifesto aveva conosciuto le vicende dell’espulsione dei suoi collaboratori dal Pci. Subito dopo questo gruppo presentò un “progetto di tesi” per la costruzione di una nuova formazione politica, privilegiando in particolar modo i rapporti con Potere operaio. Il gruppo del Manifesto si sforzò di rinsaldare i rapporti con le tendenze spontaneistiche più consistenti del movimento ed allo stesso tempo di mantenere la concezione maoista sul piano internazionale, combinando, di fatto, una pratica e una impostazione settaria ed estremistica); Mario Capanna uno degli esponenti a Milano del Movimento della Statale (questo movimento pur partendo da un corretto uso politico dell’Università, aderiva ad una visione del cosiddetto marxismo-leninismo espresso da Mao in cui la critica all’Urss sarebbe cominciata solo nel ‘56).

 

La risposta del Pci

 

La risposta del Pci all’imprevista nascita del movimento studentesco arrivò nel 1969 in occasione del XII congresso del partito. L’assise non mutò il disegno strategico varato con la “via italiana al socialismo”, con l’unica differenza di far rientrare in questo disegno le forze sociali e politiche che emersero dal Sessantotto. In definitiva l’apparato del Pci operò da un lato a cavalcare le spinte del conflitto di classe maturate tra il ‘68 e il ‘69 e dall’altro a contenerne le enormi potenzialità: subordinò la nascita dei consigli di fabbrica al nuovo patto interconfederale del 1972; avviò l’attacco frontale nei confronti della sinistra extraparlamentare.

D'altronde, facendo un passo indietro, tutta l’intera linea politica del Pci durante la resistenza si ispirò al blocco strategico con la borghesia liberale, dapprima con l’alleanza paritetica nel Cnl e poi, dal ‘45 al ’47, entrando dentro i governi di unità nazionale con la Dc. Nei successivi trent’anni di opposizione, tutta la politica dell’apparato del Pci fu finalizzata a riaprire il varco di quella collaborazione governista.

L’integrazione profonda nella società, nell’economia e nello stato, aveva reso il Pci molto simile alla base materiale della socialdemocrazia, ma con un tratto distintivo: il legame con l’Urss (sicuramente più tenue che nei decenni passati, ma assolutamente reale). Il Pci era ben consapevole che, come nel primo dopoguerra, l’ascesa delle masse e la crisi della borghesia erano fattori che avrebbero obbligato ad un nuovo compromesso storico: compromesso che Bellinguer siglò dieci anni dopo.

 

In conclusione…

 

Malgrado nel Sessantotto maturò un quadro sociale fertile per lo sviluppo di lotte rivoluzionarie, accanto al ruolo di contenimento espresso dal Pci, l’autosufficienza dei settori di estrema sinistra, sindacali e politici, non rese possibile la costruzione della direzione strategica delle lotte: non rese possibile la costruzione di quel partito bolscevico che avrebbe potuto dirigere il movimento di massa alla trasformazione radicale della società capitalista.

 

 

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