Ex libris
a cura di Fabiana Stefanoni
L'ultimo libro di Bertinotti
Il mestiere del parolaio
Nell'immondezzaio dell'editoria italiana, ci sono libri che non dicono nulla, libri scritti per compiacersi, libri scritti per compiacere altri, libri scritti per far soldi. L'ultimo libro di Bertinotti, La città degli uomini (Mondadori, 2007) - che raccoglie le interviste rilasciate dall'attuale Presidente della Camera a Radio3 Rai dal 2002 al 2006 - è tutte e quattro le cose insieme.
Non dice nulla. I titoli dei cinque capitoli sono tanto altisonanti ("la globalizzazione", "la guerra", "etica e mediazione della politica" ecc) quanto privi di sostanza. Nella prima parte, Bertinotti snocciola in maniera sommaria le già mille volte sentite banalità sul presunto "profondo mutamento" introdotto da globalizzazione e pensiero unico. Il Novecento è finito, insieme a tutte le sue utopie e le sue contraddizioni. Basta lotta di classe, basta prese del palazzo d'Inverno! Signori, è arrivato il tempo di occuparsi in modo nuovo del problema dei problemi del nuovo millennio: l'a-democrazia (scopriremo alla fine del libro che l'unica via d'uscita è il "compromesso programmatico e politico fra opzioni diverse", cioè il governo Prodi). Non vale nemmeno la pena di citare quei paragrafi scandalosi nei quali il Presidente si sofferma sulle "derive" che stanno "modificando alla radice" l'Europa, cioè "la bassissima natalità e un'immigrazione di massa" che comportano, tra l'altro, "alcuni problemi di tenuta dei sistemi assistenziali" (p. 19). Non vale la pena di restare disgustati leggendo che per contrastare la "colonizzazione" statunitense "bisogna riscoprire le radici dell'Europa", il cui libro, la Bibbia, è "il libro dell'apertura", come ricorda anche il cardinal Martini... (pp. 23 e 24). Tutto lo scritto non è altro che un modo di giustificare il fatto che, nonostante tutti i cataclismi dell'epoca contemporanea, globalizzata e postmoderna, esattamente come un secolo fa va sempre a finire che gli zelanti socialdemocratici, solo a parole difensori degli sfruttati, finiscono seduti vicino agli sfruttatori. Chi più in alto, chi un po' più in basso, chi con la campanella (che fa pendant con la erre moscia) per richiamare all'ordine i deputati e chi con qualche ministero di secondaria importanza.
È scritto per compiacersi. È quasi imbarazzante vedere come, dal primo al secondo capitolo, si passi con leggerezza dalla storia del mondo e dell'umanità alla... storia di Bertinotti. Similmente agli individui cosmicostorici di Hegel, Bertinotti presenta se stesso come uno dei grandi personaggi della storia il cui percorso individuale anticipa e rappresenta le svolte epocali. E ce lo immaginiamo facilmente mentre, tronfio, parla di se stesso come simbolo di una generazione, la generazione degli anni Sessanta, "delle magliette a strisce"; mentre spiega al povero intervistatore della radio che in lui, come per lo Spirito del mondo, ci fu un periodo di "accumulazione dispersiva" che ad un certo punto diventò passaggio "da potenza ad atto" per intervento di una "precipitazione politica" (sic). Ossequi, Bertinotti.
È scritto per compiacere altri. Nel selezionare i brani dell'intervista, Bertinotti avrà pensato a Prodi. Si sarà figurato la gioia del Presidente del Consiglio nello scoprire che, nelle 25 pagine del capitolo titolato "La guerra, il problema centrale", Bertinotti riesce a parlare di questa "tragedia della storia umana" senza far nessun riferimento al ritiro delle truppe. Il più citato, in questo capitolo, è, ovviamente, Giovanni Paolo II, un "grande pontefice". Sarà stato contento Prodi di leggere la bertinottiana teoria sull'origine della guerra: "Sono convinto che la guerra abbia luogo quando una potenza pensa che la storia debba andare da una parte mentre invece sta andando da un'altra" (p. 74). Americani birbaccioni! Ma, soprattutto, Prodi avrà gradito quello che Bertinotti scrive della Democrazia Cristiana: "in Italia la tanto giustamente criticata Democrazia Cristiana ha espresso comunque un'idea e una pratica ispirata al compromesso sociale, certo per l'eredità della dottrina sociale cattolica ma, secondo me, soprattutto per la dialettica col movimento operaio, col partito socialista, col partito comunista, con i grandi sindacati, con i movimenti di massa" (p. 84). Finalmente! avrà pensato Prodi sfogliando il quarto capitolo del libro. Sicuramente, pensiamo noi, la gravità dell'attacco alle masse popolari portata avanti dal governo Prodi non ha nulla da invidiare a quarant'anni di politiche democristiane, anzi. Ma chissà dov'era Bertinotti mentre i governi della Dc mandavano in piazza i blindati per reprimere le proteste studentesche; chissà se ha mai sentito parlare di stragi di Stato, di leggi speciali, di lotte operaie e studentesche stroncate nel sangue. Del resto, se si riesce a parlare di pace e votare la guerra, si può anche parlare della Dc come di un partito attento alle esigenze delle masse popolari.
È un libro scritto per far soldi (ma non solo). Anche se Bertinotti non ne ha bisogno, sicuramente arrotonderà il suo stipendio con la vendita di questo libro vuoto e inutile. Allo stesso tempo, le cinque riflessioni in un mondo che cambia, come recita il sottotitolo, sono utili a giustificare più che altro il cambiamento che è in corso in Rifondazione comunista. Con la prospettiva di entrare a far parte di un nuovo partito socialdemocratico (che nascerà, probabilmente, dalla scissione dei Ds), è utile cominciare a preparare il terreno per abbandonare, magari anche nel nome, qualsiasi riferimento al comunismo. Meglio parlare di Giovanni Paolo II e preparare l'elettorato ad una svolta necessaria in un'epoca che ha tolto di mezzo il problema del superamento del sistema capitalistico e altri vezzi di gioventù: la definitiva dissoluzione di Rifondazione comunista.