Partito di Alternativa Comunista

Figli strappati: storie di bambini rubati agli immigrati

Figli strappati: storie di bambini rubati agli immigrati

Le adozioni sospette nel Comune di Verona

 

Reportage e interviste a cura di Patrizia Cammarata

(da Progetto Comunista, estate 2011)


Le testimonianze che seguono sono state raccolte a Verona nella sede del Coordinamento Migranti. Abbiamo sostituito i nomi dei lavoratori che raccontano la propria storia, con nomi di fantasia. La realtà nascosta degli immigrati è fatta di tante storie, spesso tristissime.

Quelle che presentiamo ci parlano d’affetti strappati, di bambini tolti ai loro genitori da istituzioni che, anziché scegliere di aiutare la famiglia in difficoltà, danno l’impressione di scegliere a tavolino la via della rottura, l’allontanamento dei bambini. A Verona, quello che sta facendo nascere dubbi e sospetti sull'operato di queste istituzioni è soprattutto il modo con cui si arriva alle adozioni definitive. Il sospetto è alimentato dalla consapevolezza della forte richiesta di bambini da adottare, da parte di coppie italiane che non riescono a procreare, e dal senso d’inferiorità in cui cadono spesso le persone in difficoltà in una realtà ostile per gli immigrati, gestita da un sindaco leghista. Una realtà in cui troppo facile è raccontare "mezze verità", sfruttare la difficoltà di linguaggio, la non conoscenza di tutti i diritti, la mancanza di contatti che suggeriscano a chi affidarsi per farsi tutelare. E il sospetto è alimentato dal numero di casi che, anche per il forte dramma personale che rappresentano, non sempre sono denunciati o socializzati e quindi messi in correlazione ad altri.

A queste situazioni, delle quali presentiamo il caso emblematico di Ire e Rami, si aggiungono quelle nelle quali l’arroganza delle istituzioni umiliano gli immigrati quando questi si illudono di trovare un sostegno e una rassicurazione, come nel caso di Kaddour.

 

Storia di Ire, nigeriana, lavoratrice nelle imprese di pulizie

Ire racconta la sua storia: “ Ho tre figli: C. di quindici anni, F. di quattordici e il piccolo D. di quattro. I primi due figli sono in Nigeria, frequentano una scuola situata in una struttura nella quale vivono mentre durante le vacanze abitano con mio fratello. Telefono loro quasi tutti i giorni e ogni anno vado in Nigeria per incontrarli. Sono arrivata in Italia nel 1999 e ho subito iniziato a lavorare. Quando sono rimasta incinta di D. il padre voleva che abortissi mentre io desideravo questo bambino. Ero in difficoltà, non sapevo decidermi, e così sono tornata in Africa per parlare con mia madre e, dopo essermi consigliata con lei, ho deciso che avrei fatto nascere il bambino. Quando è nato l’ ho chiamato D., come mio padre.

A Verona, durante la gravidanza, mi ero recata ai Servizi sociali per capire se potevo avere una casa del Comune. Quando è nato il bambino mi hanno proposto il Ce.R.R.I.S. (Centro Riabilitativo di Ricerca e Intervento Sociale n.d.r.), ho firmato per stare lì tre mesi ma poi ho fatto domanda per una casa del Comune ma c’erano in graduatoria 100 persone prima di me.

Lavoravo a V. (una città in provincia di Bolzano), facevo le pulizie in una caserma e avevo difficoltà per arrivare al lavoro. Partivo da Verona alle h 5,30 del mattino, arrivavo a V. alle h 9 circa e lavoravo fino alle h 15. Poi con il treno tornavo a casa alla fine della giornata. Guadagnavo circa € 1.100,00 che mi servivano per mantenere i miei figli. Anziché trovare un aiuto che mi permettesse di lavorare a Verona o nelle vicinanze per seguire il mio bambino, mi hanno mandata a lavorare in un’altra città, a P. (città in Friuli Venezia Giulia) e in questo nuovo posto di lavoro lavoravo meno, e quindi guadagnavo meno, ma in compenso il viaggio era più lungo. Nel frattempo D. viveva nella struttura del Ce.R.R.I.S. Quando mio padre, nel 2008, è morto ho chiesto di andare in Africa con D. (per me era molto importante) ma al Ce.R.R.I.S. non hanno voluto. Ho firmato una carta d’accordo perché non volevo che potessero dire che lo abbandonavo. Tornata dall’Africa ho continuato a lavorare a P. ma ad un certo punto mi hanno detto che mi avrebbero abbassato l’orario di lavoro a tre ore. Non era più possibile affrontare un viaggio così lungo per solo tre ore di lavoro! Ho firmato, quindi, l’accordo di lasciare il lavoro. Dopo due settimane è arrivata la carta del Tribunale che mi accusava di pensare sempre all’Africa, ai soldi, al lavoro, e che mio figlio con me era agitato.

Mi sono anche rivolta alla Cgil per fare pressione per ottenere una casa, poi quando l’ho ottenuta i Servizi Sociali mi hanno detto: “vai a stare da sola e non con il bambino”. Io ho litigato e loro hanno chiamato la polizia, loro risolvevano i problemi così, chiamando continuamente la polizia.

Io li ho sentiti sempre contro. Quando, ad esempio, lavoravo in provincia di Verona mi hanno assegnato il giorno di lunedì dalle ore 10 alle 11 per vedere il bambino. Ma io non potevo perché in quell’orario lavoravo, non potevo andarmene in quell’orario, avrei perso il lavoro, ma loro mi trattavano come se non m’importasse di D. e mi dicevano che pensavo solo a lavorare! Ho chiesto di vedere il mio bambino quando non lavoravo ma loro me lo negavano! Li ho sentiti sempre contro. Quelli del Ce.R.R.I.S sono persone ricche, io sono povera. Loro conoscono giudici, conoscono tutti!

Non mi hanno mai compresa, la lettera che ha scritto dalla Nigeria mio fratello, in mio appoggio, non è stata presa in considerazione né da loro né dagli avvocati. Il Ce.R.R.I.S è una struttura privata. Il Comune paga al Ce.R.R.I.S, credo 100 euro al giorno per ospite. Ora non vedo più il mio bambino, nemmeno poche ore, sono disperata. Passo le notti a piangere ma non voglio arrendermi. Con il Coordinamento Migranti abbiamo fatto delle manifestazioni, a Verona abbiamo reso pubblica la mia storia. Mi rivolgerò ancora all’Ambasciata, voglio resistere in cassazione contro la sentenza. Se non sarà sufficiente lotterò ancora in tutti i modi. Intanto chiedo a tutti di lottare con me. Voglio che tutto il mondo conosca la mia storia”.

 

Storia di Rami, tunisino, muratore

Rami racconta la sua storia: “Sono arrivato in Italia il 13 maggio 1991. La prima città dove mi sono fermato è stata Napoli. Ci sono rimasto per quasi 8 anni, ho lavorato duramente raccogliendo verdura nelle campagne ed ero pagato quasi sempre “in nero”. Nel 1998 sono arrivato a Verona. Nel 2000 ho conosciuto una ragazza, Maria, e sono andato ad abitare con lei. Sua madre ci ha ospitati nella sua casa. Lavoravo come muratore e in vent’anni di permanenza in Italia non avevo mai avuto problemi con la giustizia. Ho aiutato economicamente la mia compagna che aveva difficoltà negli studi, sostenendola in una scuola privata.

Quando sono andato ad abitare con Maria dopo poco è nato H., che ora ha nove anni. La madre di Maria aveva due cani, un maschio e una femmina, e nel corso degli anni i cani si sono accoppiati fino ad arrivare ad un numero di otto. Io chiedevo che fossero allontanati perché disturbavano e perché non c’era posto in casa per noi e anche per tutti quei cani. Poi è nato Y., che ora ha sei anni. Ho cominciato a cercare un appartamento per andare a vivere con la mia famiglia ma la mia compagna non ha voluto lasciare sua madre. I cani nel frattempo sono aumentati fino ad arrivare al numero di dodici. Per me la situazione era diventata insostenibile ed un giorno nell’inverno del 2008 ho fatto un discorso alla madre. Abbiamo discusso animatamente. Lei mi ha risposto che a casa sua poteva fare quello che voleva. Io mi sono arrabbiato. In quel periodo ero molto teso perché la ditta dove lavoravo era in crisi e la mia situazione economica andava male.

I discorsi sono diventati pesanti e sono andati oltre. Ho fatto allora un grosso errore: ho chiamato i carabinieri. Nella mia vita non mi sono mai rivolto né alla Caritas né alle istituzioni. Quella sera, per la prima volta, ho chiamato. Così mi hanno rovinato. I carabinieri sono arrivati, mia suocera non voleva aprire la porta. Li avevo chiamati perché non sopportavo più che la mia famiglia vivesse in quelle condizioni igieniche non adeguate; dormivamo, la mia compagna ed io, con i bambini in un’unica stanza. Mia suocera dormiva in cucina perché aveva rinunciato alla sua camera per lasciarla ai cani. Pensavo che i carabinieri portassero via i cani invece hanno portato via i bambini. Sono rimasto senza bambini e senza casa, su una strada. Ho perso tutto. I carabinieri hanno fatto il loro verbale evidenziando che dormivamo in un’unica stanza in una situazione disagiata. Mi sono rivolto ad un avvocato che mi ha consigliato di andare all’A.g.e.c. (Azienda gestione edifici comunali) ma l’assistente mi ha descritto come un mostro, come un alcolizzato, e bloccato la domanda all’A.g.e.c.

Da tutte le analisi ospedaliere alle quali mi sono sottoposto, in seguito, nel tentativo di riavere i miei bambini è risultato che non ho nessun problema legato né ad alcool né a droghe. Tutti gli esami sono negativi. Nel frattempo la mamma dei miei figli ha firmato il consenso per lasciarli in una struttura pubblica, è tornata da sua madre ed ora ha un altro compagno.

Nel frattempo io ho affittato un appartamento arredato di 100 mq, con giardino, e mi sono messo nella situazione per accogliere i miei figli. Il bambino più piccolo ha dei problemi, è piccolo di statura, forse si tratta di un virus. Poi è successo che hanno voluto trasferire i bambini in una scuola diversa da quella dove erano abituati. L’avvocato mi ha consigliato di firmare l’assenso al trasferimento. Così mi hanno tolto la patria potestà e hanno dato i miei figli ad una signora che ha fatto la richiesta al Giudice di dare i miei bambini in adozione, ad un’altra famiglia.

Lo sappiamo tutti che su queste cose c’è chi ci guadagna! Mi sono sottoposto alle prove di capacità genitoriale. I primi due incontri sono andati bene, la psicologa mi trattava bene e mi dava speranza. Improvvisamente, al terzo incontro, qualcosa è cambiato e mi sono sentito trattare bruscamente e alla fine mi ha detto che non ho capacità genitoriale. Qui è tutto una minaccia. Io non ho mai picchiato, non sono mai stato violento. Ho paura perché sento che mi stanno spingendo a fare qualcosa di male per avere poi la scusa per togliermi i figli. Ho il dubbio che qui a Verona su queste situazioni ci sia qualcosa di brutto. Non sono il solo ad avere questo dubbio, ne parlano in molti. Se perdo i miei bambini io perdo tutto, la mia gioventù, la mia vita. Adesso me li lasciano vedere solo un’ora la settimana, in visite protette. E’ difficile avere un rapporto così, noto che si stanno allontanando, non posso insegnare loro nulla, non posso educarli, stare loro vicino come vorrei. Ho paura e sono disperato.

 

Storia di Kaddour: il maresciallo, l’avvocato e l’illusione di essere protetti dalla legge

Kaddour, algerino, racconta che nel 2008 è andato dai carabinieri di un paese della provincia di Verona per denunciare che, dopo alcuni mesi durante i quali non pagava l’affitto poiché aveva perso il lavoro, aveva trovato la porta di casa sfondata. Il mese successivo a questo fatto due uomini e una donna sono arrivati davanti alla sua casa, hanno suonato il campanello e poi sono spariti. Kaddour, spaventato, è tornato dai carabinieri per segnalare l’accaduto. Il Maresciallo prende i suoi documenti, li sbatte sulla scrivania e ordina gridando a un altro collega presente : “Sbattilo fuori dai miei coglioni”.

Kaddour si fa assistere da un avvocato sia per il fatto della porta sfondata da ignoti ma anche, e soprattutto perché vuole giustizia nei confronti del maresciallo che lo aveva offeso. “Perché il Maresciallo mi ha buttato fuori dal suo ufficio? Perché mi ha offeso in quel modo?”, continua a chiedersi. Dopo tre anni d’attesa, ha scoperto che il Pubblico Ministero ha richiesto l’archiviazione del procedimento contro ignoti per la porta sfondata per impossibilità di addivenire all’identificazione degli autori ma, con sua amara sorpresa , scopre anche che l’avvocato non si è mai attivata per quanto riguarda la denuncia nei confronti del Maresciallo.

Kaddour continua a dire che quelle parole pronunciate dal Maresciallo non riesce a dimenticarle, non accetta che l’avvocato abbia fatto scadere i termini della prescrizione senza aver portato avanti la denuncia, come da lui richiesto, nei confronti del Maresciallo. Ha sporto denuncia nei confronti dell’avvocato, si sente solo e l’offesa ricevuta (due volte: dalle parole del Maresciallo e dall’avvocato da cui si è sentito preso in giro) continua a tormentarlo.

 

La redazione di Progetto Comunista è al fianco di questi lavoratori immigrati, vittime di ignobili ingiustizie. Speriamo che la pubblicazione di queste drammatiche storie possa servire – insieme all’impegno attivo dei militanti della sezione veronese del PdAC e dei compagni del Coordinamento Migranti – a rendere giustizia a questi lavoratori.

 

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