Partito di Alternativa Comunista

IL PANTANO IRACHENO

IL PANTANO IRACHENO
La crisi del capitalismo e le prospettive delle masse popolari
 
 
di Susanna Sedusi
 
Il mandato Onu per la “forza multinazionale” presente in Iraq dal 2003 scade il 31 dicembre 2008. E’ poco probabile che venga riconvocato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il rinnovo di questo mandato. Ciò che invece si prospetta è un accordo tra il governo Usa e quello iracheno sulla durata della permanenza delle truppe americane e sulle condizioni della loro presenza sul territorio iracheno.
 
Mentre le truppe inglesi sono state invitate a ritirarsi proprio in questi giorni (dichiarazioni del premier Al-Maliki al Time) in quanto non più necessarie a garantire la sicurezza; non solo, vengono anche velatamente criticate in quanto hanno favorito, negli ultimi mesi, con il loro ridispiegamento, il rafforzamento delle milizie “ribelli”, leggi l’esercito del Mahdi di Muktada al-Sadr, nel sud dell’Iraq.
E’ stato messo a punto - dopo mesi di discussioni - un documento elaborato dal governo Usa e presentato al premier Al-Maliki che prevede il ritiro delle truppe dalle città entro fine giugno 2009 e il definitivo ritiro dal Paese entro dicembre 2011. I punti cruciali dell’accordo riguardano il calendario del ritiro delle truppe, l’immunità dei militari e dei civili americani e la gestione dei prigionieri iracheni.
Ma mentre il premier Al Maliki discuteva la bozza dell’accordo nel Consiglio di presidenza per sottoporla successivamente al Consiglio politico per la sicurezza nazionale, le strade del quartiere sciita di Baghdad si riempivano di iracheni che, guidati da Moqtada al Sadr, leader sciita capo dell’esercito del Mahdi (passato all’opposizione circa un anno fa), protestavano contro il piano Usa di continuare l’occupazione del Paese. Secondo alcune stime 50.000 persone hanno partecipato alla manifestazione autorizzata dal governo e sottoposta ad eccezionali misure di sicurezza (perquisizioni e controlli a tappeto dei manifestanti, presenza massiccia di polizia e dell’esercito) gridando slogan contro le forze occupanti, per la restituzione della sovranità nazionale, contro la svendita della nazione e lanciando un appello al parlamento affinché respinga la bozza di accordo.
L’opposizione alla bozza di accordo è sostenuta non solamente da forze dell’opposizione ma anche da parte del Consiglio supremo islamico (partito di governo) il cui leader sciita Aboul Aziz al-Hakim si è espresso poco in pubblico prendendo in questo modo le distanze dal premier e annunciando la richiesta di “chiarimenti” durante la prossima riunione dei leader del parlamento. Hanno annunciato riserve sull’accordo anche alcuni esponenti della coalizione sciita di maggioranza come Sami al-Askari e Ali al Adib esprimendo critiche sulla questione della legittimità dei tribunali iracheni a giudicare i reati commessi dai soldati americani solo dopo il parere di appositi comitati. Solo i partiti curdi Unione Patriottica e Partito Democratico sembrano non avere dubbi sull’accordo con gli Stati Uniti e sulle sue condizioni.
Quale che sia l’accordo che i due governi raggiungeranno è evidente che dovrà essere rivisto alla luce del cambio di amministrazione imminente negli Stati Uniti ma non solo. La pesante crisi finanziaria ed economica che spinge i mercati mondiali verso la recessione avrà sicure ripercussioni sull’impegno militare occidentale nelle aree di conflitto. Perché parliamo di pantano iracheno? Proprio perché gli Stati Uniti, pressati dalla crescente crisi economica alleggerirebbero volentieri l’impegno militare in Iraq, anche a causa del peggioramento della situazione politica e militare in Afghanistan. Ma non possono ritirarsi completamente in questa fase, senza aver cioè ottenuto vantaggi significativi in termini di acquisizioni di contratti per lo sfruttamento delle immense risorse petrolifere e di gas iracheno. Era questa la vera contropartita che di fronte all’opinione pubblica americana poteva giustificare le ingenti somme di capitali stanziate dal congresso come finanziamento alla missione irachena e le perdite di vite umane tra i soldati in Iraq. Le truppe americane, sebbene confinate all’interno delle numerose basi militari, non solo continuerebbero ad avere una funzione di controllo parziale del territorio ma svolgerebbero anche una funzione di forte pressione nei confronti del governo iracheno e delle sue scelte del dopoguerra.
Ad oggi in Iraq sembra configurarsi una situazione di relativa stabilità politica raggiunta dopo che la zona a nord (province di Mossul e Kyrkuk) ricca di giacimenti e strategicamente importante per il trasporto delle risorse petrolifere è stata “bonificata” dalla presenza massiccia di miliziani di Al Qaeda che ha subito pesanti sconfitte in seguito all’operazione Surge del 2007  organizzata dagli Stati Uniti con l’appoggio di milizie volontarie sunnite al soldo degli americani, “i figli dell’Iraq”. Nel sud invece, la provincia di Bassora, anch’essa strategicamente importante per le risorse naturali, gas e petrolio, è ora controllata dal governo centrale dopo l’accordo raggiunto con Muktaka al Sadr e il suo esercito del Mahdi, anch’esso ridimensionato militarmente e ricondotto ad assumere un ruolo di opposizione politica. Ed è probabile che il governo di Al-Maliki, forte di un esercito completamente riorganizzato, finanziato e addestrato dagli occupanti americani riesca a garantire la stabilità sufficiente al rientro in grande stile delle grandi multinazionali Usa ed europee interessate a sfruttare i giacimenti di gas e petrolio e a fornire infrastrutture e tecnologie per ricostruire il tessuto economico iracheno.
Il disegno di legge elaborato dal governo iracheno e mai presentato al parlamento per la discussione e approvazione prevede nuovi Psa (Production Sharing Agreement) che favoriscono le compagnie straniere nello sfruttamento delle risorse naturali (gas e petrolio). Al-Maliki ha incaricato il ministro del petrolio Hussein al-Shahristani di condurre trattative con l’olandese Shell per una joint-venture con la Compagnia petrolifera del Sud Iraq per lo sfruttamento dei giacimenti della provincia di Bassora dove l’Iraq avrà il controllo del 51%. L’accordo è stato stipulato durante un incontro avvenuto a settembre nella zona verde a Bagdad e prevede lo sfruttamento di giacimenti di gas per il consumo nazionale e per l’esportazione. E’ il secondo maggior accordo stipulato dopo l’invasione americana, il primo fu quello firmato con la Cina per lo sfruttamento dei pozzi petroliferi di Ahdab nel sud dell’Iraq. Una serie di nuovi contratti saranno firmati dopo gli incontri avvenuti a Londra il 13 ottobre tra il ministro del petrolio iracheno e i rappresentanti delle maggiori compagnie petrolifere. In quell’occasione sono stati illustrati da Al-Shahristani i nuovi contratti e le informazioni richieste dalla gara a cui parteciperanno le compagnie con le loro offerte. Si tratta di contratti ventennali, i vincitori saranno comunicati a giugno 2009. Le favorite sono Shell, British Petroleum, Exxon Mobil Corp, Chevron Corp e Total. E’ presente anche l’italiana Edison con un progetto di estrazione e trasporto di gas nonché un progetto di centrale a ciclo combinato (gas e vapore) per la produzione di energia elettrica di cui è leader sui mercati mondiali.
irakottobre

 
Quali prospettive per la classe operaia e le masse popolari irachene?
La condizione dei lavoratori e delle masse popolari è disastrosa. Le vittime del conflitto sono state valutate in oltre un milione di morti. La resistenza irachena è diretta da organizzazioni e partiti borghesi, piccolo-borghesi, nazionalisti, molti dei quali di ispirazione islamica. Poco conosciute sono le organizzazioni sindacali che pure esistono e sono forti specialmente tra i lavoratori del settore petrolifero. Non hanno vita facile perché il governo sostenuto dagli Usa ha mantenuto la legislazione in vigore ai tempi di Saddam Hussein: il decreto 150 che, parificando la situazione degli operai a quella dei lavoratori pubblici, scioglieva tutti i sindacati esistenti facendoli confluire nell’unico sindacato statale controllato dal regime di allora. Esistono anche altre leggi promulgate da P. Bremer, proconsole Usa in Iraq, sui limiti salariali. Uno degli obiettivi delle lotte dei lavoratori petroliferi è contro la privatizzazione che consentirebbe facili profitti alle compagnie straniere. La federazione dei sindacati dei lavoratori del settore petrolifero iracheno ha denunciato recentemente trasferimenti e rappresaglie contro i sindacalisti più attivi nelle mobilitazioni contro le privatizzazioni.
L’occupazione militare Usa e il carattere reazionario, confessionale e subalterno all’imperialismo dell’attuale governo iracheno, non lasciano spazio alla riorganizzazione della classe operaia irachena, vessata ancora oggi dalle leggi liberticide imposte dall’occupante. Lo sviluppo della resistenza armata radicata nella popolazione ha contrastato il disegno imperialista di una rapida sottomissione della nazione e impedito un allargamento del conflitto all’Iran e alla Siria. Ma all’interno di un fronte unico contro l’occupazione militare statunitense egemonizzato da forze piccolo-borghesi, nazionaliste e fondamentaliste (che è la situazione di oggi in Iraq) è possibile un’alleanza solamente difensiva mentre è necessario e indispensabile sviluppare l’indipendenza politica delle forze proletarie e dei contadini poveri con la costruzione di un partito comunista rivoluzionario, l’unico che può difendere i loro interessi di classe contro le forze politiche borghesi internazionali e nazionali, cioè contro le forze imperialiste occupanti e il governo fantoccio da loro sostenuto, e contro i partiti borghesi nazionalisti sciiti e sunniti. Questa è l’unica garanzia per uno sviluppo socialista della lotta attuale.
La lotta per un’altra direzione politica è altresì l’unico modo per arginare l’influenza del fondamentalismo islamico (che oggi è egemone dopo la crisi delle direzioni piccolo-borghesi e staliniste) tra le masse irachene. La mancanza di una forza coerentemente rivoluzionaria alla testa delle lotte rischia di tradursi in un appoggio acritico a regimi antimperialisti ma reazionari come insegna l’esperienza “rivoluzionaria” iraniana. Il nostro impegno come Lega Internazionale dei Lavoratori è la ricostruzione di un partito comunista rivoluzionario mondiale, la IV internazionale, che attraverso una lotta per l’egemonia politica nel movimento operaio determini una svolta rivoluzionaria anche in quest’area.
 
 

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