Partito di Alternativa Comunista

IL VERO SIGNIFICATO DELLA VITTORIA DI OBAMA

IL VERO SIGNIFICATO
DELLA VITTORIA DI OBAMA
 
Correo Internacional - pubblicazione del Segretariato della Lit - Quarta Internazionale
 
 

La vittoria di Barack Hussein Obama su McCain ha avuto un significato storico per come erano connotate queste elezioni. Ha generato, tra le masse statunitensi e nel resto del mondo, grandi aspettative e speranze che possa esservi un vero cambiamento. George Bush è giunto sino al punto di essere il presidente più disistimato da che si realizzano sondaggi: la sconfitta che sta subendo in Iraq e la crisi economica che è scoppiata alla fine del suo mandato hanno segnato queste elezioni.
 
 
obama1

Il nuovo presidente Usa in visita alle truppe imperialiste in Afghanistan
(contingente che ha annunciato di voler raddoppiare)
 
 
 
La candidatura di McCain, per quanto egli abbia tentato durante tutta la campagna elettorale di differenziarsi da Bush, appariva per gli elettori statunitensi come la continuità con il governo in carica.
Nonostante Obama, non abbia agitato il problema del razzismo nella sua campagna, ha ottenuto il 95% dei voti dei neri, oltre ad aver avuto un ampio appoggio della comunità latinoamericana.
Tradizionalmente, i latinoamericani votano per i democratici. Hillary Clinton ha anche tentato di sfruttare il razzismo contro i neri per vincere le primarie con l’appoggio latino. La sua sconfitta alle primarie, però, ha fatto correre il rischio di un passaggio nel campo dei repubblicani. Tuttavia, le dichiarazioni di McCain, fatte sulla base del programma del suo partito che in pratica considera gli immigranti come delinquenti, ha aiutato Obama, che per giunta è figlio di un immigrato keniano. Ricordiamo che milioni di migranti latinoamericani si sono mobilitati lo scorso 1° Maggio rivendicando la legalizzazione.
Anche la maggioranza dei giovani e dei lavoratori con bassi salari ha votato per Obama. La crisi ipotecaria ha fatto sì che oltre un milione di famiglie abbia perso la casa ed altri quattro milioni stiano per perderla. I licenziamenti stanno aumentando giorno per giorno, con un aumento della disoccupazione fino a 1.200.000 disoccupati in più rispetto ad un anno fa; e più della metà di questa cifra si è prodotta negli ultimi tre mesi. Grandi imprese come la General Motors, la Ford o la Chrysler sono sull’orlo del fallimento e stanno già mettendo sulla strada migliaia di lavoratori. La convinzione che né la politica economica di Bush né quella del suo successore McCain avrebbero risolto i problemi che il primo aveva creato ha prodotto il rovesciamento elettorale.
 
 
Un cambiamento nella coscienza delle masse
Il voto per Obama riflette pertanto, in forma distorta, un avanzamento nelle coscienze nordamericane: da una parte, per l’opposizione delle masse all’occupazione dell’Iraq e la politica guerrafondaia di Bush, per le mobilitazioni degli immigrati illegali, per l’avvio delle lotte di alcuni settori dei lavoratori (quelli della Boeing hanno ottenuto un’importante vittoria nel mese di ottobre) che hanno iniziato a scontrarsi con i tagli ed i licenziamenti. Dall’altra, perché è lo specchio della sconfitta che gli Usa stanno subendo in Iraq e la resistenza ogni giorno più forte in Afghanistan.
Astraendo da ciò che significa per la borghesia, è certo che la vittoria di Obama riflette una svolta a sinistra senza precedenti negli Usa. Le grandi celebrazioni, le lacrime di felicità delle masse di colore, stanno a dimostrare che avevano votato per qualcosa di più di un candidato democratico. Per le masse nordamericane è tutto un trionfo mandare Obama alla Casa Bianca. In questo senso, la sua ascesa alla presidenza è paragonabile a quella dei governi di fronte popolare, come Evo Morales in Bolivia o Lula da Silva in Brasile, quando per la prima volta un operaio metallurgico accedeva alla presidenza del suo Paese.
 
 
Alcune elezioni con ripercussione mondiale
Va rimarcato che queste elezioni americane sono state seguite come nessun’altra nella storia. La possibilità (in seguito confermata) che vincesse Obama, con un linguaggio diverso rispetto a quanto si è udito negli ultimi 8 anni, ha prodotto un’onda di appoggio mondiale al candidato democratico. È curioso che nei sondaggi realizzati in tutto il mondo, solo in quelli israeliani McCain appariva come il favorito. Ricordiamo che, quando Obama era ancora solo un candidato, per la sua visita a Berlino una moltitudine di 200.000 persone si è mobilitata per riceverlo ed ascoltarlo.
Siamo passati da un presidente che era accolto da manifestazioni di ripudio della sua presenza ad uno che suscita entusiasmo in tutto il pianeta. Probabilmente, nei suoi primi viaggi all’esterno troverà un ricevimento simile a quello per il Generale Eisenhower sul finire della Seconda Guerra Mondiale, quando appariva come il liberatore che, insieme all’Urss, aveva sconfitto Hitler.
L’elezione di Obama ha riflesso la situazione mondiale che definiamo come rivoluzionaria; la sconfitta che sta subendo l’imperialismo in Iraq e l’ascesa delle masse in Medio Oriente ed in America latina hanno spinto quelle nordamericane a votare per Obama. È significativo che la nuova “first lady” Michelle abbia dichiarato che solo ora si sentiva fiera di essere americana (come gli statunitensi si definiscono) senza che, nonostante lo scandalo menato nel partito repubblicano per una critica siffatta, le intenzioni di voto non siano cambiate: il che sta a significare che nella coscienza di molti milioni di statunitensi è radicato il non sentirsi orgogliosi del Paese nel quale vivono.
I governi dell’Iran e di Mosca hanno dichiarato che si attendono una nuova era di relazioni con gli Usa. I Paesi arabi in generale hanno guardato con favore alla vittoria di Obama, figlio di un musulmano e che si chiama Hussein. Il negoziatore palestinese degli accordi di pace con Israele, Saeb Erekat, ha sostenuto: “Con la leadership di Obama diventerà realtà il progetto di due Stati per due popoli”. I governi di questi Paesi sperano che gli Usa possano finalmente non essere più considerati come il nemico del mondo arabo; e viceversa.
 
 
Chi ha appoggiato Obama?
Oltre a convincere milioni di lavoratori, Obama è stata la migliore opzione per settori molto importanti della borghesia statunitense. È stato il candidato non di un partito operaio bensì del Partito Democratico, uno dei due partiti borghesi che si spartiscono il potere negli Usa. Ad eccezione della borghesia dei gusanos di Miami, fedele ai repubblicani e alla loro strategia di embargo a Cuba, e in misura minore di settori dell’industria del petrolio e del gas che hanno appoggiato apertamente McCain, altri settori borghesi hanno appoggiato o equamente entrambi i candidati oppure direttamente Obama (1).
Se ciò è accaduto è perché l’imperialismo comprendeva che doveva urgentemente cambiare la visione delle masse verso gli Usa. La crisi economica mondiale che incomincia a colpire l’intero pianeta aveva, fino all’elezione di Obama, un chiaro nemico, un colpevole delle guerre ed ora anche l’origine e causa della crisi mondiale che sta lasciando senza impiego milioni di lavoratori ed aumentando la miseria in tutto il pianeta.
La borghesia ha utilizzato negli ultimi anni, frutto della crisi che vive per la situazione rivoluzionaria mondiale, governi che possano servirle per frenare l’ascesa delle masse. Ha dovuto ricorrere ai settori più rappresentativi degli oppressi e sfruttati. Così sono sorti governi di fronte popolare, di collaborazione di classe, in cui organizzazioni operaie partecipano ai governi borghesi, fino a porvi alla testa operai come in Brasile, donne, come Bachelet o Cristina Fernández (in Cile ed Argentina), indigeni come Evo Morales, socialdemocratici che devono rispondere ad alcune aspettativa delle masse, come ha fatto Zapatero con il ritiro delle truppe dell’Iraq, o governi con retorica populista come quello di Chávez. Governi che, al di là del fatto per cui alcuno di essi ha dovuto prendere qualche misura progressiva, sono serviti a frenare, deviare o controllare l’ascesa delle masse, permettendo ai capitalisti di continuare a sfruttare i lavoratori. Il fatto nuovo è che questo è dovuto accadere negli stessi Usa. Così, l’elezione di Obama dà un respiro al capitalismo mondiale, e principalmente alla sua potenza egemonica gli Stati Uniti.
 
 
Possono gli Usa smettere di essere imperialisti con l’avvento di Obama?
La stampa mondiale ha recuperato con Obama il potere di parlare bene degli Usa senza arrossire. Tornano i discorsi su quanto sia buona la democrazia degli Stati Uniti e sulla capacità che ha la società nordamericana di cambiare la rotta del suo governo, e soprattutto, come diceva un titolo del giornale spagnolo El País, “La vittoria di Obama distrugge le barriere razziali e conferma gli Usa come modello universale”.
Durante la campagna elettorale, McCain accusava Obama di essere socialista. Altri ritengono possibile che Obama possa finirla con l’imperialismo, costruire una nuova Onu (ora sì democratica), un mondo multilaterale; e pensano infine che è bellissimo che un Paese in cui fino a quaranta anni fa c’era segregazione razziale abbia ora un presidente di colore. Ci vogliono vendere l’idea che la Democrazia (borghese) possa vincere sull’Imperialismo e che un governo, anzi, un presidente può riuscirci nonostante le difficoltà.
Dovremmo domandare a chi pensa questo se Barack Obama andrà a proporre all’Iran, in cambio della fine del suo programma di energia nucleare, lo smantellamento di tutti gli arsenali nucleari sparsi per il mondo, a partire da quello degli Usa, il più grande di tutti. Se esigerà da Israele la distruzione delle sue 200 testate nucleari. Domandiamoci se le multinazionali statunitensi, a partire da ora, smetteranno di saccheggiare i Paesi semicoloniali, se le basi militari che gli Stati Uniti hanno in tutto il pianeta si chiuderanno…
L’imperialismo non cambia la sua natura nonostante cambi il colore la pelle del suo presidente. Noi pensiamo che il modello che ci viene spacciato come esempio è quello della democrazia imperialista che continuerà ad opprimere i lavoratori del suo stesso Paese e quelli del resto del mondo. Il presidente eletto può giungere a fare qualche concessione, come dovette fare con i piani di opere pubbliche Roosevelt negli anni Trenta per far uscire l’economia dalla crisi del 1929, frenando così l’ascesa operaia che produsse le grandi organizzazioni sindacali negli Usa. Ma è certo che, come ogni governo capitalista, tenterà irrimediabilmente di scaricare la crisi economica sulle spalle dei lavoratori.
I governi dei Paesi capitalisti hanno la funzione di amministrare gli affari della borghesia. Perché Barack Obama possa (e non ne ha l’intenzione) cambiare il ruolo degli Usa nel mondo e porre fine allo sfruttamento dei lavoratori o alla discriminazione razziale ed all’oppressione della donna, dovrebbe distruggere lo Stato borghese, cioè, finirla col capitalismo.
Le guerre, invasioni ed aggressioni dell’imperialismo continueranno finché esisterà l’imperialismo. Diceva Clausewitz che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. E l’imperialismo non può mantenersi senza imporsi militarmente. Gli Usa sono stati fino ad ora il gendarme mondiale del capitalismo: il fatto che Obama voglia avere l’appoggio degli altri Paesi imperialisti del mondo non muta l’evidenza che lo vuole perché il sistema continui ad esistere.
Obama non distruggerà il sistema ma lo dirigerà affinché possa durare. In questo senso, il suo governo ha un carattere preventivo di fronte alla possibilità, per la crisi economica, di una forte ascesa delle lotte. Per finirla con questo sistema, non bastano gli Obama nel governo; è necessario che siano i lavoratori stessi a prendere direttamente il potere con la rivoluzione socialista distruggendo lo stato capitalista. Questa, che è la conclusione di Marx – oggi citato dagli economisti e giornalisti di tutto il mondo per la crisi economica – non è stato mai smentita dalla storia.
 
 
Il programma di Obama
Il carattere di Stato difeso da Barack Obama si riflette nel programma col quale si è presentato alle elezioni e nelle misure che, dopo il trionfo, ha detto che prenderà quando comincerà a governare. I ministri di cui si sta circondando ed i nomi che sono nell’aria per il suo prossimo governo sono personaggi noti, molti dei quali hanno fatto parte dei governi di Bush, Clinton o perfino Ronald Reagan. “Sui temi dell’economia, i principali ministri di Obama sono Paul Volcker e Robert Rubin. Volcker è stato presidente della Fed (Federal Reserve), la banca centrale degli Usa, tra il 1979 ed il 1987, nei tempi di Ronald Reagan. È stato uno dei padri del neoliberalismo ed ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo della 'globalizzazione capitalista'. In quell’epoca, il suo motto era: 'Le famiglie nordamericane devono diminuire il loro livello di vita'. Evidentemente, le famiglie alle quali si riferiva non erano quelle ricche. Altri consiglieri di Obama sono Lawrence Summers, ex Banca Mondiale ed anche segretario del Tesoro di Clinton; Jamie Dimon, attuale presidente della Banca di Investimenti JP Morgan, e Timothy Geithner, ex direttore del Fmi” (ripreso dall’articolo “Gli uomini del presidente”, pubblicato da Opinião Socialista, organo del Pstu brasiliano). Tra i suoi consiglieri economici si trova anche l’uomo più ricco del mondo, Warren Buffet. Colin Powell, che diresse la prima guerra dell’Iraq e membro del partito repubblicano, rientra come membro del nuovo governo; così come la stessa Hillary Clinton, che ha accettato essere segretaria di Stato con Obama …
In un governo che sembra di unità nazionale, come quello di Angela Merkel con la Spd in Germania, Barack Obama conta sull’appoggio del suo concorrente McCain in questa tappa. Con essi Obama vuole “una nuova alba di leadership statunitense”.
 
 
Misure economiche
Nel suo discorso come vincitore delle elezioni, ha avvertito i nordamericani che dovranno sacrificarsi e che le ristrettezze saranno molto marcate. Frenare i licenziamenti o garantire nuovi posti di lavoro mediante nuove opere pubbliche sarà più difficile da concretare per la mancanza di denaro con cui la sua amministrazione – che inizia già segnata, col suo accordo, dalla necessità di salvare i profitti della borghesia statunitense – si troverà a che fare. Da un lato, l’aumento delle tasse alle famiglie più ricche (che Bush aveva abbassato) e che non arriva neppure a quello imposto dal presidente repubblicano Eisenhower negli anni ’50; e, dall’altro, la diminuzione della tassazione ai salari più bassi sono le sue promesse più progressive. Il denaro che Bush, alla fine del suo mandato, sta iniettando nel sistema per frenare la débacle finanziaria, Obama dovrà tirarlo fuori dai lavoratori, tanto del suo stesso Paese come del resto del mondo, come fino ad ora ha fatto quell’aspirapolvere di capitali che è l’economia statunitense.
Il neoeletto presidente ha cominciato a mostrare le sue vere intenzioni già prima delle elezioni. Il piano di riscatto di 700 miliardi di dollari alle banche presentato da Bush è stato approvato da entrambi i candidati. Quest’enorme partita di denaro sarà usata per attenuare la caduta del sistema finanziario. Le proteste contro questa misura sono arrivate fino alle porte di Wall Street, dove l'mmagine di Karl Marx incombeva sulle denunce contro i broker di borsa. È probabile che il cambiamento dell’ultima ora nel piano di riscatto proposto dal governo Bush, che destina i fondi in aiuti ai crediti non bancari ed a rifinanziare le ipoteche per le quali stanno per scattare i pignoramenti, abbia contato sull’appoggio o sia addirittura partito della stessa squadra di Obama. Ciò che questi provvedimenti prevedono è che i lavoratori nordamericani debbano continuare a pagare le loro ipoteche ed i mutui. Si preferisce riscuotere qualcosa in meno mensilmente che non riscuotere niente e trovarsi con milioni di abitazioni che nessuno può comprare. Il denaro che possono destinare a questo non serve per garantire ai 10 milioni a rischio di pignoramenti nei prossimi due anni le loro abitazioni. Inoltre queste misure non restituiscono le case a coloro i quali le hanno già perse, né garantisce che possano conservarle quelli che stanno perdendo i loro impieghi.
Già dopo la sua vittoria, Barack Obama ha chiesto a Bush di aiutare urgentemente il settore dell’automobile, minacciato di chiusura. Le misure che ha negoziato servono all’industria per adeguare i suoi impianti alla fabbricazione di modelli più efficienti ed adattati alla riduzione di vendite per la crisi economica. Cioè, servono per nuovi impianti che necessiteranno di meno manodopera: ciò che Obama vuole garantire sono i profitti delle imprese ma non i posti di lavoro che si perderanno, grazie a questi provvedimenti, in ragione di decine di migliaia.
Il contrasto relativo all’appoggio al settore dell’automobile in cambio del voto favorevole dei democratici al Tlc (2) con la Colombia mostra le divergenze tra i settori imperialisti dell’attuale governo e del prossimo. Obama ha criticato l’amministrazione Bush per essersi impegnata, nella riunione del G20, a non adottare provvedimenti protezionistici. Barack Obama considera necessario il protezionismo per salvare i profitti dell’industria dell’automobile negli Usa. Nel settore dell’agricoltura, violando gli accordi del commercio internazionale, che gli stessi Usa sostengono a loro profitto, hanno mantenuto aiuti milionari che possono essere estesi ad altri settori con Obama.
Inoltre bisogna ricordare che Obama appoggia i piani della sanità privata, dalla quale ha ricevuto 414.863 dollari per la sua campagna elettorale.
 
 
Politica internazionale
Obama, prima di diventare senatore, si era opposto alla seconda guerra in Iraq ed era per il ritiro delle truppe. Tuttavia, il suo discorso si è fatto via via più moderato durante lo svolgimento della sua campagna e nel percorso della candidatura, fino a sostenere che il ritiro delle truppe si realizzerà in modo scaglionato durante 16 mesi e che verrà mantenuta una forza d’appoggio di 60.000 soldati per lottare contro il “terrorismo”! Il ritiro di truppe, pertanto parziale, servirebbe a destinarle a “vincere” la guerra in Afghanistan, entrando anche in Pakistan. Obama vuole raddoppiare il numero di soldati in Afghanistan, secondo lui per catturare o uccidere Bin Laden. La cosa certa è che assisteremo, col suo piano, ad una recrudescenza dell’aggressione imperialista in Afghanistan. Obama ha anche avvisato che potrebbe attaccare l’Iran, che considera un pericolo mondiale, se continua con l’arricchimento dell’uranio: ed in ciò non si differenzia dal suo predecessore.
È significativo anche che abbia scelto come capo di Gabinetto (che, tra l’altro, ha il compito di decidere l’agenda del presidente) Rahm Emanuel, un sionista dichiarato, figlio di un militante dell’organizzazione terroristica Irgún che nel 1946 realizzò attentati sanguinosi contro la popolazione palestinese, per erigere lo Stato d’Israele. Questo personaggio, conosciuto nel congresso come Rambo per le sue maniere di dirigere il Partito Democratico, rappresenta la constatazione che, benché ci siano negoziazioni con Hamas nella striscia di Gaza, il governo entrante continuerà ad essere un garante dello Stato d’Israele.
La chiusura della base militare di Guantanamo, nella quale continuano ad essere rinchiusi senza giudizio centinaia di prigionieri della guerra in Iraq, ha rappresentato una rivendicazione mondiale fatta propria dallo stesso Barack Obama. La chiusura è stata ratificata, con il trasporto dei 600 prigionieri sul territorio degli Stati Uniti per processarli quando egli sarà stato immesso nelle sue funzioni presidenziali. Questo gesto, che non gli dà grandi problemi, sarà utilizzato da Obama per accrescere il proprio prestigio, come fece Zapatero ritirando le truppe spagnole in Iraq all’inizio del suo primo mandato.
Intendiamo sottolineare l’appoggio che riceverà da Zapatero: appoggio che si concreta nell’aiutarlo in America Latina e con il mondo arabo. In America latina, la Spagna è stata la piattaforma per la sua ricolonizzazione. La penetrazione dei capitali europei e nordamericani è stata maggiormente agevolata attraverso le imprese spagnole. I summit ibero-americani, col re Juan Carlos in testa, hanno avuto come unica preoccupazione negli ultimi 25 anni che gli Stati privatizzassero tutte le imprese redditizie, al pari delle loro risorse naturali.
In Medio Oriente, Zapatero sarà l’alleato col quale Obama cercherà di ritornare all’offensiva. Le truppe spagnole sono presenti con cospicui contingenti sia nel Libano che in Afghanistan. Il discorso di Zapatero è che gli interventi militari devono essere dispiegati con l’appoggio degli organismi internazionali come l’Onu, o della comunità internazionale. L’Onu è lo schermo che ha utilizzato l’imperialismo per giustificare aggressioni ed occupazioni come nel caso della Bosnia, dell’Afghanistan o del Libano. La cosiddetta "comunità internazionale" è quella dei Paesi imperialisti e dei suoi alleati dei Paesi dipendenti.
 
 
La “sinistra” e Obama
Che la borghesia cerchi di festeggiare i suoi modelli e difendere i suoi interessi è normale. Il problema è che, in questo compito, trova sempre l’aiuto di personaggi che appaiono agli occhi di milioni di lavoratori come di sinistra. Zapatero si dichiara amico e alleato fedele. Lula, Bachelet e Tabaré Vázquez lo festeggiano e gli chiedono stringere ancora più le relazioni con gli Usa. Amorim, il ministro degli Esteri brasiliano ha affermato: “non neghiamo che il governo brasiliano abbia avuto una buona relazione con quello di (George) Bush, di pragmatismo e rispetto. Ma ora la relazione può essere di affinità e speriamo, di cooperazione col nuovo governo nordamericano”.
Le stelle di Hollywood, cantanti come Bruce Springsteen o il documentarista anti-Bush Michael Moore, sono entusiasti seguaci di Obama.
Gran parte degli intellettuali di sinistra come Tarik Ali o Galeano espongono i loro dubbi e le loro speranze, gli propongono cosa dovrebbe fare e su cosa soffermarsi per governare meglio e chiedono di aspettare prima di criticare Obama, bisogna dargli respiro perché deve affrontare molti problemi ed almeno bisogna attendere fino a gennaio per vedere cosa fa, concedendogli così una tregua molto più lunga di quella di cui poterono godere Jimmy Carter o Kennedy (due presidenti del Partito Democratico che ebbero un alto appoggio popolare) nella loro epoca.
 
 
Chávez e Castro
È anche normale che i lavoratori nordamericani e di tutto il mondo nutrano aspettative ed illusioni in Obama, perché è di colore, figlio di un immigrato ed inoltre non è milionario né grande possidente. La cosa certa è che per qualche tempo, probabilmente fino a che continueranno le aggressioni militari sotto il suo stesso mandato, la coscienza antimperialista sarà diluita per le aspettative in Obama. Ma vogliamo rimarcare l’alluvione di appoggi e congratulazioni che ha ricevuto dai governi e dai dirigenti sedicenti “rivoluzionari”.
Chávez ha detto: “L’elezione storica di un discendente africano alla testa della nazione più poderosa del mondo, è il sintomo che il cambiamento d’epoca che si è sviluppato dal sud dell’America potrebbe stare bussando alle porte degli Stati Uniti. Dalla patria di Simón Bolívar, siamo convinti che è arrivata l’ora di stabilire nuove relazioni tra i nostri Paesi e con la nostra regione, sulla base dei principi del rispetto della sovranità, dell’uguaglianza e della cooperazione vera”. Inoltre, prima delle elezioni, ha chiesto ad Obama che, in caso di vittoria, la finisse con l’imperialismo.
Evo Morales, ha paragonato l’elezione di Obama con la sua, essendo uno nero e l’altro indigeno, ed ha aggiunto: “Nutriamo molte speranze che possano migliorare le relazioni diplomatiche, di commercio e di investimenti con il nostro Paese. Nutriamo molte speranze e siamo ottimisti”.
Dal canto suo, Fidel Castro ha scritto nel Granma “Al popolo statunitense interessa più l’economia che la guerra in Iraq. McCain è vecchio, bellicoso, ignorante, poco intelligente e senza salute. A Lula ho detto: “Se i miei calcoli fossero sbagliati, il razzismo si imponesse in tutti i casi ed il candidato repubblicano ottenesse la Presidenza, il pericolo di guerra aumenterebbe e le opportunità di una via d’uscita per i popoli diminuirebbero”.
Questi capi di governo sanno perfettamente quali interessi rappresenta Barack Obama e ciò non ha impedito loro di appoggiarlo. A loro torna molto utile questo volto nuovo dell’imperialismo per continuare, o ancor meglio, per approfondire la capitolazione all’imperialismo che portano avanti da anni, e cioè che l’imperialismo possa saccheggiare le economie dei loro Paesi. Accettano che l’imperialismo continui a dominare il mondo e non rompono con esso. Si attendono da Obama che li accetti come suoi intermediari. Chávez ed i fratelli Castro insistono, perciò, sulla richiesta di mutuo rispetto.
Tutti coloro che appoggiano Obama da “sinistra” sembrano aver dimenticato che appoggiarlo significa appoggiare il presidente degli Usa, cioè, il capo del Paese imperialista più importante del mondo, il “gendarme mondiale” del capitalismo. La retorica di Hugo Chávez ha favorito da anni questa situazione. Quando il presidente venezuelano parlava di imperialismo si riferiva solo agli Usa e negli ultimi anni in particolare soltanto a George Bush. Per il presidente venezuelano Bush era il diavolo. L’imperialismo Europeo non esisteva, il presidente spagnolo Zapatero era considerato da Chávez un rivoluzionario.
La burocrazia cubana è da tempo che perdona tutto ai leader del Partito Democratico degli Usa. Ora Fidel Castro presenta Kennedy, il presidente che autorizzò l’invasione di Baia dei Porci, come un uomo che fu spinto dal suo bellicoso vicepresidente a tentare quell’avventura militare. È certo che anche Fidel dubita che Obama possa cambiare profondamente gli Usa, ma non per questo smette di elogiarlo.
Con la sparizione di Bush dallo scenario politico sparisce “l’antimperialismo” (per meglio dire l’antiamericanismo) del castrochavismo. Il più grande progresso che c’è stato nella coscienza latinoamericana negli ultimi decenni è stato l’antimperialismo, anche se era rivolto principalmente contro gli Usa: ed ora questo sentimento può indebolirsi per colpa delle lodi sperticate ad Obama da parte di questi personaggi. Questo è il ruolo sinistro che essi svolgono.
 
 
Il movimento operaio rispetto ad Obama e la costruzione del partito rivoluzionario
La popolazione statunitense ripone grandi speranze nel governo di Obama. Ma queste speranze, in un governo non guerrafondaio e che risolva i problemi economici, possono dare luogo ad una delusione senza precedenti. Lula e Zapatero hanno potuto contare su una congiuntura economica favorevole durante questi anni e sull’appoggio incondizionato della burocrazia sindacale della Cut e del Pt a Lula, o della “sinistra” riformista di Izquierda Unida e delle direzioni sindacali delle Ccoo ed Ugt in Spagna, per governare finora senza soprassalti. Benché anche Obama abbia l’appoggio delle organizzazioni sindacali, si trova a che fare con la maggiore crisi economica da quella del 1929. Il ritiro delle truppe senza la vittoria militare in Iraq può provocare una maggiore destabilizzazione in Medio Oriente e l’apertura di nuovi fronti in Pakistan o Iran.
Le masse nere sperano che, col primo presidente nero degli Usa, finisca il razzismo e la discriminazione lavorativa, sociale ed educativa che subiscono. Tuttavia, già oggi la situazione di questo settore della popolazione è peggiorata e continuerà a peggiorare con la crisi economica. Gli immigrati hanno anch’essi queste aspettative, ma come i neri, saranno i primi a perdere il posto di lavoro.
I lavoratori, giovani ed oppressi nordamericani hanno sbattuto il pugno sul tavolo con l’elezione di Obama, per la prima volta sentono che hanno eletto il loro candidato e hanno dimostrato che possono andare oltre ciò che ci si aspettava di essi. È necessario che negli Usa si incominci a dare una risposta di classe alla crisi ed ai provvedimenti che il nuovo governo continuerà ad sostenere, agitando un programma contro la disoccupazione, il problema della casa e per l’accesso alla sanità ed all’educazione pubbliche e di qualità. L’urgenza di questo compito sta anche nel fatto che, non avanzando su questo terreno, l’estrema destra può riorganizzarsi e prendere il peggio dell’era Bush come proprio percorso.
Il movimento operaio degli Usa, che è stato protagonista di grandi lotte nel passato e che non ha mai subito una sconfitta storica, può incominciare a svegliarsi. La crisi economica minaccia milioni di lavoratori con la disoccupazione. Essi avranno di fronte a tutto l’armamentario burocratico che i sindacati hanno costruito per frenare le loro lotte. La burocrazia sindacale costituisce un fermo appoggio del Partito Democratico ed ha speso milioni di dollari nella campagna elettorale. Ora che la classe operaia si avvia a fare la propria esperienza con il massimo che può offrirle la borghesia nordamericana, si apre la possibilità di cominciare ad affrontare alla burocrazia sindacale ed in questa lotta a costruire un’organizzazione socialista nella culla dell’imperialismo.
La Quarta Internazionale ebbe alle sue origini il suo partito più forte negli Usa. Il vecchio partito di James P. Cannon, l’Swp, fu parte negli anni Trenta della riorganizzazione del movimento operaio nordamericano. Recuperare il meglio della tradizione operaia rivoluzionaria è un compito necessario per costruire un partito della Quarta Internazionale ed iniziare a superare la crisi di direzione rivoluzionaria. Necessario per finirla col sistema dello sfruttamento e costruire il socialismo.
 
 
(Traduzione di Valerio Torre dall'originale in spagnolo)
 
Note

1 Si veda l’articolo “I partiti borghesi di fronte alla crisi” di Andrés Bárcenas, pubblicato nel periodico Voz de los Trabajadores, organo del gruppo di militanti della Lit-Ci negli Usa: http://www.litci.org/MateriaES.aspx?MAT_ID=1419
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