Israele: Netanyahu in difficoltà
di Alejandro Iturbe
Il mese scorso, migliaia di israeliani si sono mobilitati in varie città del Paese contro il governo di Benjamin Netanyahu. A Tel Aviv, capitale di Israele, c'è stata una repressione quando i manifestanti hanno cercato di sfondare una barriera della polizia. A questa mobilitazione si sono aggiunte due richieste, una delle quali è stata avanzata dalle famiglie degli israeliani trattenuti da Hamas a Gaza dopo l'azione del 7 ottobre. Questi parenti si erano già organizzati e sistemati in un luogo nel centro di Tel Aviv, che è diventato noto come «piazza degli ostaggi», ricevendo di giorno in giorno sempre più sostegno. La prima richiesta al governo Netanyahu è di «riportarli a casa».
La feroce offensiva di Israele sulla Striscia di Gaza (con i suoi metodi genocidi) è in stallo e Netanyahu non è riuscito a liberare gli ostaggi. Peggio ancora, un'azione di salvataggio dell'esercito israeliano ha ucciso «per errore» tre di questi ostaggi, generando grande indignazione tra la popolazione israeliana. In questo contesto, un settore ha iniziato a «chiedere un cessate il fuoco di qualsiasi tipo (temporaneo o permanente), come proposto da Hamas, per la restituzione dei loro cari». Un tale accordo sarebbe una grande sconfitta per Netanyahu.
La seconda richiesta è più radicale: chiedono le immediate dimissioni di Netanyahu e del suo governo, l'immediata indizione delle elezioni e la formazione di un nuovo governo su una base politica molto più ampia di quella attuale, come richiesto da Eyal Gur, leader dell'organizzazione Shared Home (casa condivisa, ndt).
Un'offensiva in stallo
La situazione è che l'azione militare israeliana a Gaza è in stallo, nonostante i quasi 30.000 morti che ha causato, la distruzione di infrastrutture e servizi e lo sfollamento forzato di metà della popolazione palestinese a sud di questo piccolo territorio.
Questa è la valutazione dei più lucidi analisti sionisti, come Mario Sznajder, professore di scienze politiche all'Università Ebraica di Gerusalemme: «Netanyahu, in effetti, in quattro mesi non ha raggiunto nessuno dei due obiettivi che giustificavano la pesantissima offensiva militare a Gaza: né l'annientamento di Hamas né il rilascio degli ostaggi».
Sznajder non fa riferimento all'altro obiettivo di Netanyahu: conquistare il nord della Striscia di Gaza (dove si trova la sua città principale). A tal fine, ha forzato lo spostamento di oltre un milione di palestinesi verso sud, in direzione del valico di Rafah (che collega all'Egitto). Lì sopravvivono in una situazione disperata.
Nonostante ciò, l'esercito israeliano non è nemmeno riuscito a controllare completamente il nord del territorio o Gaza City (già quasi distrutta). A questo proposito, Sznajder osserva che «non appena le truppe si ritirano da un luogo presumibilmente pulito, i "terroristi" ricompaiono dai tunnel sotterranei che dicono esserci a Gaza».
Si riaprono le divisioni nella società israeliana
Così, ora in un nuovo contesto, sembra riaprirsi una forte contraddizione nella società israeliana che si era manifestata lo scorso anno con le mobilitazioni contro la riforma giudiziaria che il governo di Netanyahu voleva attuare.
Israele è un'enclave imperialista costruita artificialmente con una popolazione trapiantata (ebrei provenienti dall'Europa e da altri Paesi) in un territorio sottratto al popolo palestinese e sulla base dell'espulsione violenta dei palestinesi dalle loro case e proprietà. Questa è l'essenza dello Stato sionista e della sua popolazione e ne segna le dinamiche politiche perché, consapevole di vivere sulla base di questa espropriazione, è pronta a difendere Israele dal «nemico palestinese» che vuole solo recuperare il suo territorio.
In questo contesto, negli ultimi decenni si sono verificati profondi cambiamenti nell'economia israeliana e si sono sviluppate molte aziende private, soprattutto nel settore delle tecnologie di sicurezza, dei software e dei sistemi in generale, ma anche in settori come quello farmaceutico, degli alimenti e delle bevande. Le esportazioni di queste aziende contribuiscono oggi in modo determinante all'economia israeliana.
È emerso un nuovo settore della popolazione (padroni e lavoratori) che difende l'usurpazione originaria alla base della creazione di Israele, ma che, allo stesso tempo, aspira a trasformarlo in un piccolo Paese imperialista europeo (prospero, democratico e senza conflitti).
Per questo motivo, vedono la necessità di aprire i negoziati con i palestinesi e persino di avanzare verso la creazione di «due Stati» che darebbero ai palestinesi un «mini-stato» a Gaza e in Cisgiordania, raggiungendo così una «pace permanente».
Queste aspirazioni si scontrano con la politica di «guerra permanente» di Netanyahu e del suo governo, che getta sempre più discredito su Israele nel mondo e rafforza la campagna Bds (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), danneggiando le esportazioni israeliane e ostacolando i potenziali investimenti esteri ricercati da queste aziende. Tale scontro che si era già espresso nelle mobilitazioni dello scorso luglio.
Netanyahu ha approfittato dell'impatto dell'azione di Hamas dello scorso ottobre e ha lanciato la sua nuova offensiva su Gaza. Inizialmente ha neutralizzato questo processo, poiché ha ottenuto il sostegno della maggioranza della popolazione israeliana e alcune delle organizzazioni politiche mobilitate si sono unite al suo governo.
Ora che l'offensiva si è arenata (anzi, come abbiamo visto, alcuni analisti sionisti ritengono che abbia già fallito i suoi obiettivi), non restano che una grande indignazione internazionale per l’azione di Israele e un crescente isolamento. Ecco perché la frattura si è riaperta, come dimostrano le recenti manifestazioni.
Sempre più isolato
Anche a livello internazionale la situazione del governo Netanyahu sta peggiorando. Ciò è conseguenza del fatto che la sua azione a Gaza ha generato una grande opposizione da parte delle masse di tutto il mondo e una forte crescita della solidarietà e del sostegno ai palestinesi, espressa in mobilitazioni massicce e molto partecipate in molti Paesi, compresi gli Stati Uniti (di fatto, il grande finanziatore di Israele). Ciò ha costretto il governo di Joe Biden a proporre la negoziazione di un «cessate il fuoco» che, come abbiamo visto, Netanyahu rifiuta categoricamente.
In Gran Bretagna c'è stata un'espressione specifica di questo processo. George Galloway, il principale leader del Workers Party (un'organizzazione della sinistra radicale) è stato eletto deputato alle elezioni supplettive per la circoscrizione di Rochdale con una «vittoria schiacciante» sul candidato laburista (il tradizionale vincitore in quella circoscrizione) e sul candidato conservatore. La campagna di Galloway è stata incentrata sul rifiuto dell'azione israeliana a Gaza, sul sostegno alla lotta del popolo palestinese e sulla critica ai partiti tradizionali per il loro sostegno a Israele.
Questo risultato ha avuto un tale impatto nazionale che il primo ministro Rishi Sunak ha trasmesso un messaggio televisivo in cui affermava che la democrazia britannica era minacciata, esortando all'unità nazionale e invitando i manifestanti che sono scesi in piazza ogni sabato nelle principali città del regno «a non farsi attrarre da elementi estremisti».
Un altro esempio sono le dichiarazioni che Lula, presidente del Brasile, tradizionale alleato e sostenitore di Israele, è stato costretto a fare: in una conferenza stampa ha paragonato l'azione israeliana a Gaza al «genocidio nazista» degli ebrei europei. Allo stesso tempo, Lula si è allineato con Biden nel chiedere un «cessate il fuoco». Anche questo è un'espressione di ciò che stiamo dicendo poiché le sue dichiarazioni hanno generato una forte crisi diplomatica tra Israele e Brasile.
Alcune conclusioni
Noi affermiamo che l'«essenza» dello Stato israeliano non può essere cambiata «dall'interno» per le caratteristiche della popolazione israeliana nel suo complesso, come abbiamo analizzato anche in altri scritti. In questo quadro è però molto positivo che si verifichino divisioni e crisi politiche all’interno di Israele perché, nel contesto della sua offensiva impantanata a Gaza, ciò lo indebolisce ancora di più.
Allo stesso tempo, il grande processo di opposizione internazionale di massa verso Israele e le massicce mobilitazioni a sostegno dei palestinesi sono qualcosa di straordinario. In questo quadro, oggi è più che mai necessario mantenere e approfondire queste grandi mobilitazioni di massa.
Inoltre, riaffermiamo la proposta che l'unica soluzione fondamentale alla situazione in Palestina è la costruzione di una Palestina unita, democratica e non razzista in tutto il territorio di quello che era il Mandato britannico della Palestina (dal fiume [Giordano] al Mar [Mediterraneo], come dicono i palestinesi). Ciò implica la sconfitta militare di Israele e la distruzione dello Stato sionista.