Lo stesso menù di guerra
La politica estera del nuovo governo
di Fabiana Stefanoni
I ministri degli Esteri e della Difesa del quarto governo Berlusconi si sono seduti a un tavolo ben apparecchiato dal precedente governo. Non solo, infatti, Prodi in due anni ha aumentato - col voto a favore della cosiddetta sinistra radicale - le spese militari del 23%, facendo balzare l'Italia al sesto posto nel mondo tra i Paesi con la spesa pro capite più alta in investimenti militari.
Soprattutto - sempre col sostegno dei partiti della sinistra governista - ha aumentato il numero dei soldati italiani impegnati nella missione coloniale in Afghanistan (il 6 dicembre ai 2350 militari già impegnati se ne sono aggiunti altri 250), stanziando, solo nell'ultima Finanziaria, ingenti somme per F35, fregate da combattimento, satelliti spia, Eurofighters e, naturalmente, per il raddoppio della base Usa a Vicenza. Oggi, a Frattini e La Russa spetta l'onore di invitare a cena i principali rappresentanti dell'imperialismo internazionale, offrendo loro le portate preparate con cura, nei mesi scorsi, da Prodi, Ferrero e Bertinotti.
Briganti imbarazzati
L'arrivo di Bush in Italia ha probabilmente imbarazzato Frattini e La Russa. Ben poco hanno da esibire, come biglietto da visita del nuovo governo, dopo che i più preziosi regali all'imperialismo Usa sono arrivati dai "principali rappresentanti dello schieramento avverso". Al di là degli stanziamenti in Finanziaria, sarà compito arduo per Frattini dimostrarsi generoso al pari del predecessore D'Alema. E' stato proprio quest'ultimo, infatti, ad avallare, per conto dell'Italia, lo scippo, da parte degli Usa, della leadership della missione Isaf in Afghanistan, inizialmente di competenza dell'Onu. E' stato sempre D'Alema, nelle vesti di primo ministro in occasione della guerra nei Balcani, che ha accettato nel 1999 di trasformare anche formalmente la Nato in organizzazione offensiva, non solo difensiva (come era almeno sulla carta).
Non ci stupiamo quindi che, lapsus calami, l'ufficio stampa del presidente Bush abbia distribuito a Lubjana una cartellina in cui si ricordavano il "presidente del consiglio Prodi" e il "ministro degli esteri D'Alema": come dimenticarsi di cotanto generosi alleati? L'imbarazzo di Frattini e La Russa sta proprio qui: se hanno già fatto tutto i predecessori di centrosinistra, cosa portare in dote al presidente statunitense? L'offerta dà l'impressione della spruzzata di panna sulla torta: Frattini si è detto disponibile a rivedere le regole d'ingaggio in Afghanistan e i caveat: sostanzialmente, verrà ridotto da 76 a 6 ore il tempo entro cui il comando italiano deve rispondere alle richieste statunitensi, in modo da garantire una maggiore "flessibilità geografica" del contingente italiano di stanza ad Herat, nell'ovest del Paese. Inizialmente, Frattini l'aveva sparata più grossa, esibendo la disponibilità di spostare le truppe nelle regioni meridionali, dove lo scontro coi talebani è all'ordine del giorno. Ma a Usa, Gran Bretagna e Germania l'uscita è parsa un po' inopportuna: l'Italia in Afghanistan può aspirare solo ad un ruolo gregario, tanto che - nonostante l'impegno a mandare altri 40 carabinieri per addestrare la polizia afgana e qualche cacciabombardiere - già si ventila la possibilità di una riduzione del contingente italiano a partire dal prossimo settembre. Al ministro della difesa La Russa non è rimasta che l'offerta della base di Sigonella come sito di riferimento del nuovo sistema Nato di sorveglianza Ags (Alliance Ground Surveillance), una sorta di sistema "integrato" per la sorveglianza dei territori dei Paesi membri della Nato.
La guerra all'Iran: la nuova posta in gioco
Ma lo smacco più fastidioso che il ministro Frattini ha dovuto subire riguarda l'altra posta in gioco dell'imperialismo: l'Iran. Frattini ha chiesto che l'Italia entrasse a far parte del "5 + 1", il gruppo - costituito dai cinque membri del consiglio di sicurezza dell'Onu (Usa, Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia) più la Germania - che ha il compito di trattare con l'Iran. Si dice che lo scopo sia quello di dissuadere Ahmadinejad dal programma nucleare: in realtà, si tratta di una definizione preventiva dei ruoli ai fini della spartizione coloniale. L'insistenza della Germania per l'esclusione dell'Italia è indice del fatto che il processo di costituzione di un polo imperialista europeo procede in modo contraddittorio e, comunque, vede l'Italia in posizione subordinata rispetto alle potenze francese e tedesca.
Per quanto riguarda l'Iran, è ormai evidente che l'intenzione dell'imperialismo statunitense, in salsa conservatrice o democratica, è quella di arrivare al più presto a un'aggressione militare a danno del regime di Teheran. L'amministrazione Bush non brilla per originalità: come per l'Iraq, si paventa la presenza di armi di distruzione di massa, in particolare si accusa l'Iran di stare costruendo un arsenale nucleare. Israele, fedele al ruolo di avamposto dell'imperialismo Usa in Medio Oriente, minaccia attacchi militari diretti ai "siti sospetti". Alla roulette, quando si scopre che il croupier imbroglia, difficilmente gli si lascia la conduzione del gioco. Diversamente, nella roulette dell'imperialismo, all'imbroglione Bush è concesso di raccontare per due volte la stessa menzogna, senza essere smentito. Per ammissione dello stesso Scott Ritter, l'ex ispettore delle Nazioni Unite in Iraq, l'amministrazione Bush sta ripetendo la medesima messinscena truffaldina utilizzata per attaccare Saddam Hussein. Ma la posta in gioco è troppo importante per soffermarsi sui particolari: insieme a Iraq, Afghanistan e Libano, l'Iran rappresenta una zona strategica per il controllo delle risorse energetiche, ai fini in particolare della costruzione di gasdotti e oleodotti in grado di collegare i Paesi più ricchi di petrolio e gas naturale (i territori del mar Caspio) con le coste pakistane da un lato, con Israele dall'altro. Tanto più in una fase di profonda recessione dell'economia Usa, la necessità di ridurre la dipendenza energetica dai Paesi del Medio Oriente diventa centrale nella definizione della politica estera statunitense.
Come testimonia la vicenda del 5 + 1, all'Italia spetterà un ruolo solo di secondo piano nella questione iraniana: l'imperialismo di casa nostra dovrà sottostare a briganti più potenti, intenti, per ora, a spartirsi fette di Medio Oriente, nell'attesa di un sempre più probabile conflitto intercapitalistico. La grande borghesia italiana non trarrà vantaggi immediati dall'inasprimento dei rapporti con l'Iran dettato in primo luogo dall'agenda statunitense. Anzi, oggi l'Italia è uno dei partner commerciali principali dell'Iran: su circa 24 miliardi di euro che riguardano gli scambi con l'Europa, l'Italia ha un posto d'onore con ben 6 miliardi di euro, 4 dei quali riguardano le importazioni di idrocarburi. L'Eni ha una radicata presenza in Iran ed eventuali sanzioni al regime di Teheran sottrarrebbero denari all'azienda petrolifera italiana. Ma la politica estera del berlusconismo, tendenzialmente inserita nell'asse anglo-americano, questo può offrire. Certo, D'Alema, ancora una volta, aveva fatto regali più preziosi alla grande borghesia italiana: l'invio di truppe in Libano, con un ruolo di primo piano per l'Italia nella gestione della missione, era ben più funzionale agli interessi dell'Eni, che è tra i principali azionisti dell'oleodotto che collega il mar Caspio al mediterraneo occidentale. Tenere sotto controllo la situazione in Libano, prendendo come pretesto l'aggressione israeliana e la presenza di Hezbollah, ha significato vegliare sull'oleodotto stesso, favorendo lo sbocco in Israele.
Sostenere la resistenza, costruire un grande movimento contro la guerra
Ieri come oggi, l'unica strada che permette la sconfitta degli aggressori passa per la vittoria degli aggrediti. Il progetto di colonizzazione del Medio Oriente - area strategica per l'imperialismo anglo-statunitense e franco-tedesco, non solo per gli idrocarburi ma anche per il posizionamento strategico nei confronti di Cina e Russia - ha trovato un grosso ostacolo nella resistenza irachena. Solo la vittoria della resistenza permetterà di fermare l'aggressione di popoli inermi per i profitti del grande capitale: è per questo che sosteniamo la resistenza e ci auguriamo che possa sconfiggere l'imperialismo, indipendentemente dalle attuali direzioni politiche. La sconfitta dell'imperialismo in Iraq e Afghanistan favorirebbe la riscossa delle masse arabe in tutta la regione, con l'avvio di un processo di decolonizzazione. Contemporaneamente, è necessario costruire in tutti i Paesi imperialisti un grande movimento contro la guerra, per il ritiro immediato delle truppe da tutti gli scenari di guerra.
La manifestazione dell'11 giugno a Roma - che ha visto la presenza di qualche migliaio di manifestanti e a cui anche Alternativa Comunista ha partecipato - se, da un lato, ha rappresentato un momento importante per riannodare il filo dell'opposizione alle politiche di guerra, dall'altro lato ha evidenziato la necessità di una svolta. Al di là della presenza ipocrita di dirigenti del Prc e del PdCI che per due anni hanno votato le missioni militari, gli stessi organizzatori della giornata (il "Patto contro la guerra") hanno inteso costruirla più come un evento mediatico, per dare spazio e visibilità a questo o quel leader, che come momento iniziale di un percorso politico per costruire un largo fronte di opposizione alla guerra.
Ciò che occorre è la costruzione fin da subito di comitati in tutte le città, democraticamente strutturati e cioè aperti al coinvolgimento reale di ogni attivista disponibile (e non semplici intergruppi di "vertice", come già ne esistono), che sappiano coniugare l'opposizione al governo Berlusconi con il no alla guerra. Serve la massima unità sul terreno delle lotte, tentando di coinvolgere tutte le organizzazioni del movimento operaio, allo stesso tempo è necessaria la chiarezza degli obiettivi politici: dire no alla guerra significa dire no ai governi che vogliono la guerra, cioè a tutti i governi del capitalismo. La recente esperienza del governo Prodi ha insegnato che non è possibile condizionare dall'interno le politiche della grande borghesia italiana. Se anche il movimento contro la guerra oggi conosce un arretramento è soprattutto per colpa di quei partiti che, in nome della pace e dell'arcobaleno, hanno sostenuto un governo guerrafondaio. Ben vengano, quindi, i fischi ai responsabili, ma non basta. Occorre ricostruire su basi di classe un reale movimento di massa contro la guerra, nella consapevolezza che solo l'abbattimento del capitalismo può sottrarre l'umanità dalla spirale di guerre e miseria in cui è trascinata.