Usa, sconfitta elettorale di Obama:
“È l’economia, stupido”
di Alejandro Iturbe (*)
Lunedì 8 novembre 2010
Il risultato delle recenti elezioni negli Usa (denominate di “medio termine” perché si svolgono a metà del mandato presidenziale) ha confermato i pronostici che indicavano una seria sconfitta per il governo Obama e il Partito Democratico.
Effettivamente, hanno perso 50 deputati (ora sono rimasti in minoranza alla Camera Bassa), i governi di dieci degli Stati che dominavano (benché abbiano vinto in California) e sono riusciti a mantenere solo un’esigua maggioranza al Senato. La causa principale di questa sconfitta è stata riconosciuta dallo stesso Obama: la debolezza del cammino dell’economia del paese e, soprattutto, la persistente disoccupazione.
Le cose non vanno bene
L’economia statunitense non riesce a riprendersi dall’impatto della crisi
iniziata nell’agosto del 2007, dopo l’esplosione della bolla speculativa nel
mercato immobiliare, e approfonditasi, nel settembre del 2008, con la caduta di
Lehman Brothers. La banca statunitense fu sull’orlo del fallimento e ci furono
forti cadute del Pil nazionale nel quarto trimestre del 2008 e nel primo del 2009.
Fu il momento peggiore dell’economia statunitense da vari decenni, equivalente
all’arretramento vissuto nei mesi successivi al crack del 1929.
Il gigantesco pacchetto di aiuti alle banche e le speculazioni messi in
campo, prima da Bush e poi da Obama, da una parte hanno salvato le banche evitando
il fallimento del sistema finanziario statunitense; dall’altra, hanno frenato
la caduta in picchiata dell’economia e sostenuto una certa ripresa, il cui picco
si è registrato nel primo trimestre del 2010 (una crescita annualizzata del Pil
del 3,7%).
Ma si è trattato di una ripresa fragile, sospinta dagli aiuti e dalla spesa
statale e non da una nutrita crescita degli investimenti privati (la borghesia
non aveva recuperato ancora la propria “fiducia investitrice”). Nel successivo
trimestre, l’economia ha cominciato di nuovo a rallentare, con una crescita di
appena l’1,6%. Economisti borghesi, come Paul Krugman e Nouriel Roubini, hanno
iniziato a parlare di una possibile “nuova recessione” o, nel migliore dei
casi, di una “crescita anemica”.
Le conseguenze per la gente
All’impatto della stessa crisi si sono sommate le politiche delle imprese
(licenziamenti) e del governo (salvare le banche tagliando però i bilanci nei
settori sociali, come istruzione e sanità) per scaricare il costo della crisi sulle
spalle dei lavoratori e delle loro famiglie.
La conseguenza più grave è la disoccupazione, che si mantiene inchiodata intorno
al 10%, una cifra molto alta per gli Usa. Secondo Krugman, è necessario un
tasso annuale di crescita del 2,5% per evitare l’aumento della disoccupazione. Al
di sotto di questa soglia, questa continuerà a crescere.
Nel capitalismo, la disoccupazione è, al tempo stesso, una conseguenza
della crisi e un requisito affinché i padroni tornino ad investire. Le imprese ne
approfittano per imporre quanto più possibile le maggiori diminuzioni salariali
e l’arretramento delle condizioni lavorative. Così aumentano al massimo sia lo
sfruttamento dei lavoratori che conservano il loro impiego, sia il plusvalore
estratto, cercando un recupero del saggio di profitto che giustifichi una nuova
ondata di investimenti.
Secondo un studio dell’Economic Policy Institute (Epi), dal quarto
trimestre del 2007 (momento di inizio della crisi) fino al primo trimestre del
2010 (picco del recupero) i profitti delle imprese sono cresciuti del 5,7%.
Nello stesso periodo, la forza lavoro è diminuita del 5%. Ciò si aggiunge alle
pressioni degli imprenditori sui salari che, nel caso della General Motors ed
altre imprese, sono arrivate al punto di esigerne la riduzione alla metà, sotto
la minaccia di licenziare i lavoratori in servizio ed assumerne altri.
Tutto ciò aggrava la caduta del livello di vita del popolo americano (per
lo meno dal governo di Ronald Reagan), il che si esprime nella crescita della
povertà. Un recente studio dell’Ufficio del Censimento ha dimostrato che, nel
2009, l’indice totale di povertà ha raggiunto il 14,3%. Quasi 44 milioni di
statunitensi, la cifra più alta nei 51 anni da quando questo studio viene effettuato.
Nel paese più ricco della terra, una persona ogni sette è povera! La situazione
si aggrava se ci riferiamo alla popolazione nera e latina (ne è colpita la
quarta parte), specialmente per quanto riguarda l’infanzia: quasi il 36% dei
bambini neri e il 33% percento di quelli latini sono poveri.
Voto‑punizione
Negli anni ’90, l’ex presidente democratico Bill Clinton popolarizzò la
frase “È l’economia, stupido” per riassumere quale sarebbe stato l’asse della
sua campagna elettorale per sconfiggere Bush padre e per poi assicurarsi la
rielezione.
Ora questa frase potrebbe calzare a pennello rispetto alla domanda sul
perché Obama abbia perso. È stato, in larga misura, il risultato dell’irritazione
di un settore del popolo statunitense di fronte a un presidente che aveva promesso
di “cambiare radicalmente la politica”, ma che in breve tempo ha dimostrato che
non governava per i poveri e i diseredati, bensì per Wall Street.
Si rafforza la destra?
Sebbene l’esito elettorale abbia premiato i candidati del partito
repubblicano, non è stata la tradizionale struttura di questo partito (sommerso
dalla sua stessa “ricostruzione” dopo il fallimento del progetto Bush) ad uscirne
realmente rafforzata.
Non essendoci alcuna alternativa per la sinistra, è stato il Tea Party (dopo
aver guadagnato numerose candidature e le elezioni interne del partito
repubblicano a fronte di figure tradizionali) a capitalizzare elettoralmente lo
scontento, fondamentalmente facendo presa sulla classe media impoverita e su
settori operai bianchi disoccupati.
Questa organizzazione, la cui principale figura è Sarah Palin, si fonda su
un’ideologia di estrema destra che mescola “americanismo”, razzismo e “antistatalismo”
estremo. Come le formazioni di estrema destra d’Europa, utilizza il razzismo e scarica
le colpe sugli immigrati per nascondere i veri responsabili delle crisi.
Così, di fronte al logoramento di Obama, non sorgendo nessuna alternativa di
sinistra, il Tea Party ha utilizzato il suo discorso “alternativo” rispetto
alla “vecchia politica”, guadagnando un grande spazio. In altri termini, si
tratta di una manifestazione molto distorta della crisi economica e del suo
riflesso sul sistema politico statunitense.
Ma non è l’unica: quantunque ad uno stadio ancora iniziale, cominciano a sorgere
lotte operaie e popolari, nel settore degli insegnanti contro i tagli ai
bilanci e le loro conseguenze, con epicentro in California, nella sanità, per
ragioni simili, in alcune industrie contro le diminuzioni di salario e gli attacchi
ad altre conquiste. Come abbiamo detto, sono lotte ancora acerbe, ma, nella
misura in cui la situazione economica e gli attacchi si aggraveranno, ed aumenterà
lo scetticismo della popolazione rispetto alle risposte politiche del sistema,
possono rappresentare l’annuncio dell’inizio di un processo più grande.
Alcune prospettive
La sconfitta elettorale di Obama e la perdita della maggioranza parlamentare democratica mettono il sistema politico statunitense di fronte a una situazione molto complessa. Il governo si è trasformato in quella che gli statunitensi chiamano una “anatra zoppa” (lame duck), obbligato cioè a cogovernare con un parlamento oppositore. Una situazione che può approfondire la svolta a destra che già il governo sta imboccando (basti vedere la sua politica di espulsione di immigrati “illegali” o i tagli di bilancio per l’istruzione e i servizi pubblici). Al contempo, questa sconfitta lascia il governo degli Usa molto più debole per affrontare la situazione internazionale e un aggravamento della situazione economica nel paese.
* Alejandro Iturbe è direttore della rivista della Lit-Ci, Correo Internacional.
(Traduzione dall’originale in spagnolo di Valerio Torre)