Come il padronato si sta riprendendo

E' solo in virtù di quelle lotte che nacque lo Statuto dei lavoratori. Non si trattò, come qualcuno vuole farci credere - in un coro pressoché unanime, a destra come a sinistra, di distorsioni storiche - del frutto spontaneo del sistema capitalistico in un contesto di crescita economica: fu il risultato di due anni di durissimo scontro di classe, in cui gli attivisti politici dell'estrema sinistra, formatisi nelle mobilitazioni del Sessantotto, giocarono un ruolo centrale di direzione. La grande borghesia, nonostante le rimostranze di alcuni settori - che, piuttosto che cedere al "ricatto" operaio, avrebbero preferito una svolta autoritaria, come dimostra il tentativo di golpe Borghese proprio nel 1970 - accettò di fare alcune concessioni al nemico di classe in cambio della conservazione del proprio potere politico ed economico. Quelle concessioni che si sta a poco a poco riprendendo.
E' un accordo (presumibilmente destinato a tramutarsi in legge se non verrà respinto con la mobilitazione) che espelle dalla rappresentanza sindacale e dalla contrattazione tutti i sindacati che non ne accettano i contenuti, e cancella la libertà di sciopero per chi invece lo firma. Lo scopo è quello di indebolire il sindacato conflittuale nelle fabbriche, trasformare i sindacati in meri erogatori di servizi, al fine di favorire l'imposizione di misure di austerity funzionali ad aumentare i profitti dei capitalisti.
Anche qui, è interessante fare un passo indietro di qualche decennio, se non altro per rendersi conto che i precedenti tentativi di congelare tramite accordi siglati a tavolino il conflitto di classe sono miseramente falliti, restando delle scatole vuote. I padroni e le burocrazie ci provarono già nel '61 a imporre, di concerto tra loro, pesanti restrizioni al diritto di sciopero ("clausole di tregua"). La proposta, allora, prevedeva qualcosa di simile ai recenti accordi: si introducevano norme restrittive della possibilità di azione sindacale dopo la firma dei contratti. Un accordo che la base dei sindacati si rifiutò di applicare e che fu letteralmente spazzato via con le mobilitazioni della fine degli anni Sessanta, quando i lavoratori in lotta si diedero le proprie forme di rappresentanza (dai consigli operai alle assemblee autoconvocate), riuscendo, almeno in parte, a imporne il riconoscimento nei contratti collettivi.
Oggi l'accordo della vergogna rappresenta l'ultima tappa di un percorso che, passando per la legge 146 del '90 (che ha ridotto drasticamente il diritto di sciopero nel Pubblico impiego e nei cosiddetti "servizi essenziali") e gli accordi di luglio '93 (che hanno dato un duro colpo alla rappresentanza dei sindacati di base nel privato), ha progressivamente permesso al padronato di riprendersi tutto quello che era stato costretto a concedere. E, non casualmente, la reconquista è iniziata in Fiat: là dove le lotte operaie, prima che altrove, avevano imposto il riconoscimento dei delegati di reparto e dei consigli di fabbrica; là dove, dal Sessantotto alla metà degli anni Settanta, gli operai, riuniti in assemblee, si erano fatti beffe degli accordi siglati dai loro dirigenti sindacali, rilanciando ogni volta azioni di sciopero, di lotta, occupazioni.
Noi non pensiamo che sia così, e le numerose lotte di cui la classe lavoratrice è stata protagonista in questi ultimi anni ce lo dimostrano. Nonostante il contesto economico e sociale sia molto differente da quello di quarant'anni fa, con una crisi economica di dimensioni enormi, paragonabile solo a quella del '29, la classe operaia non ha perso la sua combattività. Quando è stata chiamata allo sciopero e alla lotta lo ha fatto con determinazione. I picchetti degli operai immigrati della logistica, che discutono in assemblee autoconvocate le iniziative di lotta, hanno la stessa radicalità dei picchetti operai degli anni Settanta.
Ciò che è diverso da allora - pur essendo un sottoprodotto proprio di quella straordinaria stagione di lotte, che non ha paragoni quanto a intensità e durata in altri Paesi d'Europa (1) - è la capacità di controllo da parte degli apparati sindacali (Cgil e Fiom in primis) della classe lavoratrice. Quando gli operai sono stati chiamati dalla Camusso e da Landini alla lotta contro il Jobs Act non hanno mancato di far sentire la loro presenza massiccia nelle piazze: ne è un esempio l'oceanica manifestazione del 25 ottobre a Roma. Eppure, la direzione della Cgil e della Fiom non hanno nessuna intenzione di portare alle ovvie conseguenze quella lotta: proseguirla e intensificarla fino a respingere l'attacco. Oggi quel potenziale conflittuale è stato rimandato a cuccia, senza nemmeno un piccolo contentino da offrire in pasto al cane bastonato.
Tutto ciò avviene mentre stanno per essere sfornati il decreto sulla "Buona scuola", che intende smantellare definitivamente quel poco che ancora sopravviveva di scuola pubblica, e il decreto Madia sul Pubblico impiego, che inasprirà ulteriormente la condizione dei lavoratori statali, introducendo i licenziamenti facili e un pesante sistema disciplinare. E' inoltre sempre più probabile un intervento militare in Libia - con la scusa dell'Isis e con l'obiettivo del petrolio - in ossequio agli interessi dell'Eni.
Ma quel potenziale di lotta che ha animato, nel corso dell'autunno, le piazze sia del sindacalismo di base e della Fiom (come in occasione dello sciopero del 14 novembre) che della Cgil (dal 25 ottobre al 12 dicembre) non si è dissolto. E' ancora lì, pronto a esplodere da un momento all'altro, e forse a rompere, a breve, la camicia di forza del controllo burocratico dei sindacati concertativi. E il governo mostra di sapere bene che sta camminando su una polveriera: non è un caso che, con la scusa dell'antiterrorismo, sia stato varato un decreto che rafforza la presenza dei militari nelle principali città con oltre 1800 soldati in più, 600 solo per l'Expo a Milano! E' facile prevedere che ci ritroveremo i militari a presidiare i quartieri delle grandi metropoli, dove l'emergenza casa - soprattutto dopo il decreto Lupi e la stretta sugli sfratti - ha già innescato una miccia in grado di scatenare l'incendio.
Non solo: il nuovo contesto economico e sociale, caratterizzato da una profonda crisi economica, non lascia spazi a nuove ipotesi di compromesso: la guerra di classe è destinata a inasprirsi, ci possono solo essere vittorie definitive o clamorose sconfitte. Qui sta la necessità di costruire una direzione politica alle lotte, quella direzione rivoluzionaria internazionale che possa garantire al proletariato, questa volta, la vittoria definitiva, cioè l'imposizione per via rivoluzionaria del suo potere. E' il processo a cui il Pdac, sezione italiana della Lega Internazionale dei Lavoratori - Quarta Internazionale, cerca di portare il proprio contributo.