A settant'anni dal 1945
La Resistenza
operaia:
una rivoluzione tradita dallo
stalinismo

In genere la
crisi del fascismo viene presentata come il prodotto della sconfitta militare
inferta dagli Alleati e della crisi interna del regime. Effettivamente dal
luglio 1943 gli anglo-americani conquistano la Sicilia e iniziano a risalire
lentamente la penisola; e il 25 luglio il Gran consiglio dei fascismo approva a
maggioranza l'ordine del giorno Bottai-Grandi- Ciano che liquida Mussolini,
arrestato poche ore dopo per ordine del re che lo sostituisce con Badoglio. E'
il tentativo di salvare il regime usando Mussolini come capro espiatorio. Un
tentativo sostenuto non solo dalla monarchia e dalle gerarchie militari e dal
Vaticano ma anche e soprattutto da quei padroni (Agnelli, Pirelli, ecc.) che,
dopo aver fatto profitti giganteschi grazie al regime fascista, cercano di
cambiare cavallo in corsa. Badoglio, già distintosi come sterminatore durante
l'aggressione coloniale all'Abissinia, comandante delle bande fasciste in
Spagna, sostituisce Mussolini.
Questo primo governo Badoglio dura 45 giorni e
cerca di riverniciare la vecchia struttura fascista (di cui sono conservati la
gran parte dei dirigenti, nonostante il Partito nazionale fascista venga
formalmente disciolto) mantenendone inalterato il carattere anti-operaio
(reprime nel sangue le manifestazioni per la caduta di Mussolini: morti e
centinaia di feriti ovunque). Il nuovo governo, mentre proclama la fedeltà ai
nazisti, inizia le trattative con gli Alleati che porteranno alla firma
dell'armistizio (il 3 settembre, ma reso pubblico l'8) e alla precipitosa fuga
del governo e del re in Puglia, lasciando sgretolare l'intero apparato statale e
le forze armate davanti alle truppe tedesche che occupano il Paese mentre i
generali o scappano o preferiscono cedere le armi agli invasori piuttosto che
agli operai. Quegli operai che organizzano la prima barriera e che cercano di
difendere varie città, da Roma a Piombino (che resiste vari giorni infliggendo
600 morti ai tedeschi) fino a Napoli, dove il proletariato dà vita alle "quattro
giornate" - dal 27 settembre - che liberano la città prima dell'arrivo
delle truppe dell'imperialismo anglo-americano.
Ma la storiografia prevalente
tende a sminuire il peso che invece ebbero gli scioperi operai e che fu in
realtà determinante nella caduta del governo di Mussolini (tanto di quello
regio, intendiamo, come di quello repubblichino).
Ci riferiamo agli scioperi
(intermittenti) che iniziano il 5 marzo del 1943 alla Fiat di Torino. A
Mirafiori, dove sono concentrati 21 mila operai, parte il primo sciopero contro
il carovita e per la pace. Due settimane dopo lo sciopero si estende a Milano
(Falck e Pirelli) e ai principali centri operai del Nord.
Il regime cerca
prima di smorzare la lotta con una dura repressione (800 operai arrestati,
pestaggi) poi, non riuscendovi, governo e padronato concedono aumenti salariali,
nella speranza di far rifluire la lotta. Ma gli scioperi proseguiranno nel
novembre '43 e di nuovo nel marzo '44 quando, dall'1 all'8 del mese, è sciopero
generale in tutta l'Italia occupata dai tedeschi.
Sono gli scioperi della
primavera '43 a suonare la prima campana a morto per il regime; e saranno gli
scioperi dell'autunno '43 e del '44 a rafforzare la Resistenza e a preparare
l'insurrezione dell'aprile '45.
Non furono scioperi "spontanei" (a differenza
di quanto spesso si legge e come dimostra il fatto che la polizia fascista già
tre settimane prima fosse in allerta per volantini clandestini che giravano in
fabbrica): in essi ebbero un ruolo di primo piano i quadri del Pci che, dal '42,
andava ricostruendosi nella gran parte delle provincie del Paese (dal luglio '42
riprendeva la pubblicazione dell'Unità) e che soprattutto
riorganizzava i nuclei operai nelle fabbriche: nerbo dello sciopero furono gli
80 militanti che il Pci aveva a Mirafiori. Mentre il sostegno di massa agli
scioperi era la risposta della classe operaia non solo a Mussolini, e al suo
regime anti-operaio e anti-comunista, ma anche a quella grande borghesia che nel
corso del Ventennio aveva visto moltiplicare i propri profitti mentre i salari
avevano perso oltre il 20% del potere d'acquisto.
Il fascismo era
stato - esattamente come lo analizzò e definì Trotsky - un movimento
di massa della piccola borghesia impoverita dalla crisi (dunque non una
invenzione a tavolino della grande borghesia) che, in assenza di una egemonia
proletaria, veniva utilizzato dalla grande borghesia (che vi faceva ricorso come
un ammalato di denti fa ricorso al dentista) come ariete contro le
organizzazioni del movimento operaio, sovrapponendo al programma confuso (o
meglio, inesistente) del fascismo il programma degli Agnelli e dei Pirelli in
Italia, dei Krupp e delle grandi famiglie del capitalismo tedesco in
Germania.
Così, quando il 9 settembre si costituisce la Repubblica di Salò,
un protettorato tedesco guidato da Mussolini (liberato il 12 settembre dalle
Ss), che comprende tutto il Nord e inizialmente include fino al Lazio e al Nord
della Campania, nascono le prime bande partigiane.
Le prime scarse centinaia
che prendono il fucile sono in gran parte operai. Le diverse brigate (Garibaldi,
dirette dal Pci; Matteotti, dirette dal Psi; Giustizia e libertà, dirette dagli
azionisti -1) arriveranno a comprendere, complessivamente, circa 250 mila
militanti. La stragrande maggioranza è composta da operai (ma con una robusta
presenza anche di braccianti salariati); tra loro una netta maggioranza è
composta dai comunisti (includendo non solo i militanti del Pci ma anche
militanti di altre organizzazioni o simpatizzanti) e la quasi totalità (se si fa
eccezione per le scarse brigate legate a partiti borghesi) si riconosce nei
partiti della sinistra e più in generale (con vari gradi di confusione,
chiaramente) crede nel socialismo.
Sono insomma gli operai - ecco il
senso di questa nostra introduzione - la spina dorsale della cosiddetta
Liberazione. Sono i comunisti (non solo quelli del Pci, come vedremo in seguito)
e più in generale i lavoratori che lottano per il socialismo a scrivere la
storia del Paese dal 1943 al 25 aprile; e poi ancora dal '45 al '48. E la gran
parte di questi combattenti è convinta, in un modo o nell'altro, che la
Resistenza sia solo l'inizio della rivoluzione.
2. La "svolta di Salerno" fu ideata a Mosca
Si può dire
che l'impalcatura di tutta la storiografia di marca Pci giri attorno alla
"svolta di Salerno". Gli stessi eredi di quella scuola storica di falsificazione
hanno continuato (anche quando, abbandonati i panni riformisti, sono trasmigrati
nel Pd) a sostenere la presunta "originalità" della "svolta" di Togliatti.
Capita così che oggi uno storico stalinista non pentito, come Luciano Canfora, e
uno storico ex stalinista approdato al Pd, come Giuseppe Vacca, convergano nel
cercare di difendere ancora il mito di una rottura innovativa del togliattismo
rispetto allo stalinismo.
I trotskisti hanno per decenni sostenuto che non di
"svolta" si poteva parlare ma dello sviluppo della politica stalinista in
Italia. Il togliattismo fu non solo interprete (magari astuto, come vorrebbero i
vari Canfora che salutano in Togliatti chi attenuò, con realismo, la politica di
Stalin e persino la contrastò) ma artefice dello stalinismo in Italia. La
politica seguita dal Pci - abbiamo argomentato per anni - era la logica
continuazione della politica dei "fronti popolari" e, più in generale,
dell'incessante e gigantesco lavoro che lo stalinismo fece per impedire la
rivoluzione in altri Paesi.
L'elemento di novità, dopo il crollo dello
stalinismo e l'apertura degli Archivi di Mosca, sono stati i quintali di
documenti che hanno provato che i fatti storici davano ragione ai trotskisti (il
che, inutile dirlo, non significa che gli storici stalinisti o ex stalinisti non
continuino a scrivere come se niente fosse, fingendo di non essersene
accorti).
Tra il tanto materiale pubblicato in lingua italiana ci limitiamo a
rimandare alla lettura di Togliatti e Stalin della
Aga Rossi e di Zaslavsky e di Dagli archivi di Mosca,
curato da Pons e Gori (2). Il primo ha una impostazione reazionaria, il secondo
è curato da dirigenti dell'Istituto Gramsci (prima diretto dal Pci, ora dal Pd):
ma di là dalla diversa impostazione e lettura dei fatti, entrambi presentano
decine di documenti recuperati negli archivi russi che provano ormai senza ombra
di dubbio che la "svolta di Salerno" fu una invenzione propagandistica di
Stalin.
Già dal dicembre 1941, nell'incontro tra Stalin e il ministro degli
Esteri britannico Eden, si decide che nel dopoguerra l'Italia rimarrà sotto la
sfera di influenza occidentale. Questa collocazione del Paese fu confermata
nelle più note conferenze di Teheran (novembre-dicembre '43), Yalta (febbraio
'45) e Potsdam (luglio-agosto '45). Per anni gli stalinisti hanno negato, contro
ogni evidenza, che in questi incontri si fosse spartito il mondo in zone di
influenza.
Eppure quando nell'ottobre del '44 si incontrano Stalin e
Churchill, quest'ultimo chiede rassicurazioni sull'orientamento del Pci. Stalin
risponde di non temere: Togliatti "è un uomo prudente, non un estremista" e per
questo, continuano le note stenografiche della segretaria che assistette al
colloquio, "non si sarebbe imbarcato in un'avventura" (3).
Di più, oggi
sappiamo con esattezza che la linea della cosiddetta "svolta" fu definita nei
minimi dettagli da Stalin stesso. E' Pons a riconoscerlo (4): "Il passo decisivo
della 'svolta' venne compiuto non soltanto con il consenso di Stalin (...) ma
tramite il suo intervento." Pons si riferisce al fatto che Togliatti, pur
condividendo tutta l'impostazione generale (su questo torneremo tra poco), aveva
inizialmente articolato la linea con qualche differenza: non pensava di spingere
il suo partito fino a sostenere Badoglio e la monarchia; pensava di imporre
l'abdicazione del re e la sostituzione di Badoglio con una figura borghese meno
compromessa col fascismo. Questa era la linea che sottopose con un testo a
Dimitrov (segretario del Comintern) e che quest'ultimo fece vedere a Molotov
(vicepremier). Poi nella notte tra il 3 e il 4 marzo 1944 Stalin dà udienza a
Togliatti, alla presenza di Molotov, ed è lì che cade la pregiudiziale
antimonarchica. La bozza scritta da Togliatti è cestinata e si concorda una
diversa strutturazione della medesima linea di compromesso di classe con la
borghesia. Una linea che, nella sua articolazione (sostegno a Badoglio e rinvio
della questione istituzionale relativa alla monarchia) mise inizialmente in
difficoltà gli stessi dirigenti in Italia del Pci, che furono costretti a una
precipitosa modifica dell'atteggiamento fin lì seguito.
3. Svolte e controsvolte dello stalinismo
E'
interessante notare come documenti e prove su quell'incontro notturno in Russia,
tra Togliatti, Stalin e Molotov, rendano inutilizzabili, ripetiamolo, centinaia
di libri scritti da storici di area Pci per decenni, facendo a pezzi il mito di
un Togliatti ideatore della "via italiana al socialismo", ispirato da Gramsci,
ecc.
Come i trotskisti hanno sempre sostenuto, viceversa, l'origine della
politica del Pci in Italia (ma lo stesso potrebbe dirsi per il Pcf francese,
ecc. -5) va ricercata parecchi anni prima, nel 1935, al VII Congresso
dell'Internazionale comunista, ormai docile strumento di Stalin.
Dopo la
politica del "socialfascismo", che aprì le porte a Hitler, come aveva detto per
tempo Trotsky, politica che consisteva nel porre sotto lo stesso segno
socialdemocrazia e fascismo e dunque nel rifiutare ogni fronte difensivo con i
socialisti contro i fascisti, lo stalinismo sperimentava il più brusco e
decisivo dei suoi zig-zag. Appunto in quel congresso dell'Internazionale
comunista, la relazione Dimitrov capovolgeva la linea e, fingendo di ritornare
al "fronte unico" di leniniana memoria (che tuttavia era una tattica di fronte
di classe, volta a smascherare i riformisti), lo "estendeva" includendo per la
prima volta la possibilità che i comunisti sostenessero governi borghesi. Si
trattava, come è ovvio, non di una "correzione" ma dell'esatto rovesciamento
delle posizioni leniniane e anzi la negazione dello stesso fondamento marxista
dell'indipendenza di classe del proletariato dalla borghesia e dai suoi governi
quale pre-requisito di qualsivoglia politica rivoluzionaria. Dimitrov si scaglia
contro "i due opportunismi": quello definito "di destra" che aveva la pretesa di
governare sempre con la borghesia; e... quello "di sinistra", cioè di coloro che
ritengono che i comunisti possano andare al governo solo dopo la rivoluzione e
la presa del potere. Per... contrastare questi due opportunismi (il primo era in
realtà coincidente col riformismo che, in ogni epoca, predica la collaborazione
di governo con la borghesia; il secondo era semplicemente la descrizione... del
leninismo), Dimitrov (e Stalin) teorizzano l'avvio dei "fronti popolari": che
altro non sarebbero stati, appunto, che la consacrazione dello stalinismo come
agente della reintroduzione del riformismo e del menscevismo nel movimento
operaio. Per i Paesi europei si riesumano le posizioni mensceviche della
rivoluzione a tappe: prima la rivoluzione "democratica", poi, in un imprecisato
futuro, la "tappa" socialista.
La linea del VII Congresso costituì l'asse di
fondo di tutta la politica stalinista (e dunque anche togliattiana) degli anni
seguenti, pur nelle svolte e controsvolte imposte, in superficie, dallo
stalinismo, per le sue esigenze immediate. La linea della collaborazione di
classe presidiava infatti tanto il periodo (dal '35 al '38) in cui l'Urss di
Stalin identificava il nemico principale nell'imperialismo tedesco; tanto il
periodo (dall'agosto '39 al '41) in cui stringeva con Hitler il patto
Molotov-Ribbentropp e identificava in Francia e Gran Bretagna i principali
nemici. Così pure la linea di fondo non mutava quando, dopo l'aggressione di
Hitler alla Russia, si decideva l'alleanza con "le potenze democratiche amanti
della pace" (Gran Bretagna e Usa) per dare vita alla "coalizione dei popoli
liberi" in lotta non più contro il capitalismo e la borghesia ma solo contro il
fascismo.
Fino ad arrivare, nel maggio 1943, dopo aver utilizzato
l'Internazionale come strumento per imporre ai Pc di tutto il mondo questa linea
di capitolazione, a scioglierla in segno di pacificazione con l'imperialismo
"democratico".
Subito dopo il VII Congresso iniziarono i Processi di Mosca,
in cui lo stalinismo cercava di farla finita con quanto restava del gruppo
dirigente bolscevico e in particolare con il pericolo più temuto perché
riconosciuto come unica potenziale alternativa: il bolscevismo di quei giorni
incarnato in Trotsky e nella corrente internazionale da lui diretta.
Pubblico
ministero in quei processi era Vyšinskij, ex menscevico, autore dell'ordine di
cattura per Lenin voluto dal governo provvisorio nel 1917, poi passato con i
bolscevichi vincitori e quindi arrivato ai massimi vertici del ministero degli
Esteri col compito particolare di seguire proprio lo sviluppo del
Pci.
4. Che cosa fu la "svolta" di Salerno
Rientrato in
Italia (il 27 marzo 1944) Togliatti deve riorientare il partito: un po' come
Lenin quando rientrò in Russia dalla Svizzera nella primavera 1917. Ma mentre
Lenin, con le "Tesi di Aprile", riaffermava la piena indipendenza di classe dei
bolscevichi dalla borghesia e dunque l'opposizione al governo borghese "di
sinistra", Togliatti, al contrario, schierava il partito a difesa del governo
borghese dell'ex avanzo fascista Badoglio. Peraltro questo governo aveva già
ricevuto il riconoscimento dalla Russia (primo Paese a farlo) il 13 marzo 1944,
in logica continuità con quanto deciso nell'incontro notturno tra Togliatti e i
dirigenti russi di cui abbiamo parlato sopra.
Ecco così che il 24 aprile 1944
il Pci entrava nel secondo governo Badoglio (che governava il cosiddetto Regno
del Sud col sostegno di Pci, Psi, azionisti, Dc e liberali), dopo che già
sull'Unità
Togliatti aveva così riassunto la linea: "(...) non possiamo oggi ispirarci ad
un sedicente interesse ristretto di partito, o ad un sedicente interesse
ristretto di classe (...). E' il Pc, è la classe operaia che deve impugnare la
bandiera degli interessi nazionali che il fascismo e i gruppi che gli dettero il
potere hanno tradito." (6).
Concretamente la svolta comportava un preciso
orientamento rispetto alla Resistenza che si andava strutturando nella parte del
Paese occupata dai nazisti e sottoposta al governo mussoliniano di Salò. Le
direttive che Togliatti invia alle formazioni del Pci nell'estate del 1944 non
lasciano spazio a dubbi: la lotta partigiana non ha lo scopo "di imporre
trasformazioni sociali e politiche in senso socialista e comunista, ma ha come
scopo la liberazione nazionale e la distruzione del fascismo" (7).
Non si
trattava, come vedremo, di una linea facile da imporre: perché la Resistenza si
andava orientando in ben altra direzione.
5. Deviare la Resistenza per preservare gli interessi della burocrazia
Ma perché lo
stalinismo aveva necessità di imporre questa linea di capitolazione?
Forse,
come è stato spesso detto, in ossequio alla "teoria" della rivoluzione in un
Paese solo, da molti presentata come "più realistica" di fronte a presunte
utopie di rivoluzione mondiale di Trotsky? Non è questa la sede per approfondire
l'argomento. Ci basti qui dire che quella cosiddetta "teoria" (di cui lo stesso
Stalin, insieme a tutto il gruppo dirigente bolscevico, avrebbe riso fino a
qualche mese prima di proclamarla, essendo in termini marxisti una bestialità)
fu piuttosto la copertura teorica degli interessi della casta burocratica
cresciuta in Russia nel periodo del riflusso della rivoluzione. Quella casta (di
cui Stalin fu in definitiva solo l'interprete) legava i propri privilegi
materiali all'isolamento della rivoluzione russa. Di quell'isolamento non era
inizialmente colpevole: era stato determinato dal tradimento operato dalla
socialdemocrazia che aveva fatto fallire le rivoluzioni in Italia (nel "biennio
rosso") e in Germania (nel '18 e nei primi anni Venti). Di quell'isolamento si
fece poi fautrice attiva perché, nata nell'isolamento, solo nell'isolamento la
burocrazia parassita poteva proliferare. E' da qui (e non da qualche errore o da
un presunto "realismo") che nacque la successiva politica della Russia e
dell'Internazionale dominata dallo stalinismo: tutta mirata a demolire ogni
processo rivoluzionario per preservare gli interessi anti-operai di caste
burocratiche che trovavano il loro alimento nello Stato burocratizzato russo e
che via via troveranno, per quanto riguarda i partiti comunisti stalinisti del
resto del mondo, il loro alimento nella preservazione dello Stato borghese dei
rispettivi Paesi.
La burocrazia del Pci (così come degli altri partiti
stalinisti) agì in stretta solidarietà d'interessi, in una prima fase, con la
burocrazia moscovita. Togliatti, tra i massimi dirigenti stalinisti europei
(nonché dirigente a Mosca della propaganda sui Processi di Mosca, ispiratore
della politica stalinista di massacro del Poum in Spagna, responsabile talvolta
diretto talvolta indiretto dell'uccisione dei migliori quadri rivoluzionari del
mondo, e tra loro di Pietro Tresso) faceva parte di quel bubbone burocratico. A
partire dagli anni della ricostruzione dello Stato borghese in Italia, poi, la
burocrazia del Pci crebbe alimentando interessi propri strettamente legati a
quelli del capitalismo italiano. Più crescevano quegli interessi, indipendenti
dalla Russia, più si allontanava dallo stalinismo russo fino a partecipare al
processo di progressiva socialdemocratizzazione del Pci (peraltro avviato, come
abbiamo visto, già dalla metà degli anni Trenta con l'accettazione della
collaborazione di classe e di governo con la borghesia). Processo di
socialdemocratizzazione che divenne poi, dopo il crollo dell'Urss stalinista,
evoluzione verso l'approdo di un partito pienamente liberale e borghese (il Pd),
una volta tagliate le radici operaie.
Ecco perché per imporre la linea di
collaborazione di classe decisa dallo stalinismo per mantenere l'isolamento
della rivoluzione russa e così preservare la burocrazia dall'ondata di altre
rivoluzioni che l'avrebbero spazzata via, il Pci doveva deviare il treno della
Resistenza verso un binario morto. Lo fece usando anche l'autorità e il
prestigio dell'Urss.
Bisognava in primo luogo imbrigliare la Resistenza,
cercando in ogni modo di smussarne il carattere di classe. E data la assoluta
prevalenza di sentimenti comunisti tra i partigiani si arriva persino ad
attenuare la simbologia delle brigate: precise direttive invitano ad usare meno
fazzoletti rossi, meno stelle rosse, a non usare nomi che si rifacciano alla
tradizione comunista, a non salutarsi col pugno chiuso. Le stesse brigate
Garibaldi si chiamano così perché il riferimento al Risorgimento è più consono
all'orientamento che si vuole imporre: non si potrebbe certo chiamarle brigate
Marx o brigate Lenin.
Su Rinascita (che comincia le
sue pubblicazioni nel giugno del 1944) si "arricchiscono" gli insegnamenti dei
"maestri", e cioè di Marx-Engels-Lenin-Stalin (sic), con richiami al
Risorgimento italiano: da Garibaldi a Pisacane. Per legittimare la politica di
collaborazione di classe con i cattolici della Dc, il "partito nuovo" di
Togliatti rivaluta la cultura cattolica (8).
Ovviamente il lavoro da fare
non è però solo sui simboli e sugli aspetti culturali: bisogna paradossalmente
liberarsi da un ruolo "eccessivo" che il partito si è guadagnato sul campo nella
Resistenza: per questo è il Pci a pretendere che la direzione dei Cln (che, in
votazioni proporzionali, avrebbe guadagnato quasi ovunque) sia distribuita in
forma paritetica tra tutti i partiti, comprese le formazioni borghesi,
praticamente inesistenti sul campo.
6. Le opposizioni alla linea togliattiana
La
collaborazione di classe, che il Pci già praticava, come abbiamo visto, da ben
prima della "svolta di Salerno", aveva già dalla fine del '43 stimolato la
nascita di vari gruppi di opposizione.
La più clamorosa opposizione è quella
che nasce a Napoli nell'ottobre 1943 quando la federazione napoletana si spacca
in due e una parte consistente del partito costituisce una federazione
contrapposta a quella ufficiale: la federazione di Montesanto (dal nome della
zona in cui prende sede) su posizioni genericamente classiste, per quanto
confuse. La rottura durerà solo due mesi e già a dicembre la gran parte degli
scissionisti farà rientro nel Pci: pur lasciando traccia in settori di militanti
che in seguito si organizzeranno diversamente.
Qualcosa di analogo succede a
Torino dove duemila militanti (poco meno della metà della federazione del Pci),
in gran parte operai della Fiat (dove Stella rossa arriverà ad organizzare ben
500 operai), rompono col partito nel maggio '44 e danno vita a Stella rossa che
si caratterizza per un rifiuto del fronte interclassista voluto dal partito e
consacrato dalla "svolta di Salerno" di poche settimane prima. Si chiede una
linea che faccia i conti non solo col fascismo e con l'occupante tedesco ma
anche con quella borghesia che aveva usato il fascismo come pugno di ferro
contro gli operai. Non credano i borghesi, si scrive sul giornale Stella rossa, di
ingannarci parlando di patria e di concordia nazionale; sappiamo che vogliono
solo continuare lo sfruttamento di classe. Anche questa scissione sarà
riassorbita poco dopo (agli inizi del '45, qualche mese dopo l'uccisione -
con ogni probabilità per mano stalinista - di Vaccarella, il principale
dirigente).
Tra i tanti gruppi che rompono dal Pci o che si formano alla sua
sinistra, il più interessante è sicuramente il Movimento comunista d'Italia
(McdI) o Bandiera rossa, dall'organo che pubblica. Bandiera rossa nasce a Roma e
arriva a raggruppare nella capitale circa 2500 attivisti, cioè quanti la
federazione del Pci (nel '45 si estenderà a tutto il Sud, aprendo sezioni anche
nel Centro-Nord e arrivando ad organizzare alcune migliaia di
attivisti).
Bandiera rossa, organizzazione composita, con gruppi provenienti
dal Pci, dall'anarchismo, dal socialismo, sostiene posizioni di classe e intende
la Resistenza come inizio della rivoluzione. Alla Resistenza partecipa in prima
fila: basti dire che durante l'occupazione nazista di Roma lascerà sul campo
circa 200 morti (cioè tre volte quelli sofferti dal Pci nella capitale); e che
dei 335 massacrati alle Fosse Ardeatine, 52 appartenevano a questo movimento. La
maggioranza dei militanti rientrerà nel Pci uno o due anni dopo la
Liberazione.
Chiaramente la storiografia di marca Pci ha sempre rimosso o
dedicato poco spazio a queste formazioni perché la loro stessa esistenza
contrasta con la lettura che si vuole dare: queste organizzazioni e la loro
consistenza sono la riprova, infatti, che la linea di collaborazione di classe
fu imposta dal Pci deviando la inclinazione di classe che andava assumendo nella
lotta contro i fascisti il proletariato. Togliatti e il Pci dovettero deviare il
fiume della lotta dal suo letto naturale.
L'insieme di queste organizzazioni
e i singoli militanti dovettero, chiaramente, scontrarsi non solo col fascismo e
con i padroni ma anche con i metodi dello stalinismo: che includevano la
delazione (con nomi e cognomi pubblicati sulla stampa di partito e dunque
consegnati alla polizia fascista) e la calunnia. Tutti coloro che non si piegano
alla linea di collaborazione di classe vengono accusati di "trotskismo" o di
"bordighismo": essendo entrambi questi vocaboli usati come sinonimo di "spie del
fascismo" ("Il sinistrismo, maschera della Gestapo" è il significativo titolo di
un articolo di Pietro Secchia, del dicembre del '43). Bordiga, principale
dirigente del Pcd'I nei suoi primi anni, dopo essere stato espulso nel 1930
veniva ancora definito da Togliatti su Lo Stato operaio "canaglia
trotskista, protetto dalla polizia e dai fascisti" (9).
In realtà tanto la
scissione napoletana come quella torinese, e altre organizzazioni minori che qui
non abbiamo lo spazio di citare, pur avendo tra le proprie file in qualche caso
alcuni militanti bordighisti o più o meno trotskisteggianti, il più delle volte
si ispirano, a dire il vero, a Stalin! Vi è infatti una convinzione diffusa che
la "svolta" di Togliatti avvenga in rottura con la linea indicata dall'Urss
staliniana. La stessa Bandiera rossa (McdI), da molti indicata come trotskista,
nei fatti aveva nel migliore dei casi posizioni confuse, come conferma che tra
le indicazioni di lettura per i militanti ci fossero le opere di Stalin ma
anche... la Storia della
rivoluzione russa di Trotsky!
Dei trotskisti veri e propri diremo
nel prossimo capitolo, per quanto riguarda Bordiga, pur sollecitato da vari
militanti, rimane passivo, convinto che si debba attendere un cambio della
situazione oggettiva... Lo stesso motivo che, anni prima, lo aveva spinto a
criticare il percorso di costruzione della Quarta Internazionale. Per questo,
pur seguendo a distanza e coltivando rapporti individuali, non si unisce alla
Frazione di sinistra che si organizza dal '44 in Campania e poi nel meridione,
che pure è chiaramente ispirata alle sue idee e che (basandosi su una equivoca
lettura del "disfattismo" di Lenin davanti alla guerra) mantiene un
atteggiamento di non partecipazione alla Resistenza. La Frazione di sinistra si
fonderà nel '45 con il Partito comunista internazionalista, formazione
bordighista attiva nel Nord Italia (alla riunione parteciperanno Bruno Maffi,
Onorato Damen e vari altri dirigenti, tra cui lo stesso Bordiga).
7. I trotskisti privi di un partito
Non è questa
la sede per ricostruire la storia del trotskismo italiano: compito che ci
ripromettiamo di assolvere in uno dei prossimi numeri di questa rivista.
Il
lettore interessato potrà utilmente rifarsi agli opuscoli di Giachetti e
Casciola di cui diamo i riferimenti bibliografici nella apposita scheda in
queste pagine, nonché al libro di Peregalli di cui pure diamo gli
estremi.
Qui ci è sufficiente ricordare che i primi passi del trotskismo
italiano sono mossi da Tresso e dagli altri espulsi dal Pci nel 1930 e dal
raggruppamento cui diedero vita, la Nuova opposizione italiana. La Noi avrà vita
breve (e vari scontri interni) e Tresso in particolare continuerà l'attività,
durante il fascismo, nell'organizzazione trotskista francese, fino a quando sarà
ucciso dagli stalinisti francesi nel '43 (su Tresso, di cui cade quest'anno il
settantesimo anniversario della morte, rimandiamo ad altra parte di questo
numero, dove pubblichiamo un suo articolo). I fili del trotskismo saranno
ripresi paradossalmente... da alcuni militari americani e britannici facenti
parte del contingente che invase l'Italia. Si trattava in realtà di dirigenti
trotskisti che svolgevano il servizio militare e che furono preziosi per mettere
in contatto il gruppo organizzato attorno a Nicola Di Bartolomeo (ex bordighista
passato al trotskismo, dirigente di un lavoro entrista nel Partito socialista) e
il gruppo diretto in Puglia da Romeo Mangano (proveniente dal Pcd'I) che si
richiamava alla Quarta Internazionale pur non avendo alcun legame con essa. Alla
fine del '45 i due gruppi si unificano nel Partito operaio comunista -
bolscevico-leninista a cui aderirà anche Libero Villone e un settore proveniente
dalla Frazione di sinistra.
Ma il Poc aveva col trotskismo un rapporto molto
flebile e le posizioni maggioritarie erano bordighiste (rifiuto della tattica e
dei deliberati del III e IV Congresso dell'Internazionale comunista;
caratterizzazione dell'Urss come Stato capitalista; meccanicismo; ecc.). Per
questo il II Congresso della Quarta Internazionale (aprile 1948) lo espelle
dalle proprie file (Di Bartolomeo, il più vicino al trotskismo, era morto nel
1946), mentre al contempo riorganizza una nuova sezione attorno alla rivista
Quarta
internazionale animata da Libero Villone, Livio Maitan e da un
gruppo provenienti dalle file socialiste (tra loro Giorgio Ruffolo, Gaetano
Arfè, ecc.). La nuova organizzazione (1949) si chiamerà Gruppi comunisti
rivoluzionari (e con questo nome proseguirà fino alla fine degli anni Settanta,
diventando poi la Lega comunista rivoluzionaria).
Già questo accenno è
sufficiente per comprendere come il trotskismo di fatto non esisteva in forma
organizzata nel periodo che qui ci interessa, cioè dal 1943 al 1948.
Sarà
questo (ma ci torniamo in conclusione) il motivo principale, a nostro avviso,
del fallimento della rivoluzione italiana.
8. La restaurazione e la cacciata dal governo
Nel gennaio
1945 le formazioni partigiane vengono unificate e formalmente poste sotto il
comando militare del governo regio e direttamente del generale Cadorna, che ebbe
come vice Longo (Pci) e Parri (Giustizia e libertà). Fu questo atto a
formalizzare, per così dire, l'impegno nella ricostruzione dello Stato borghese.
Impegno diretto della sinistra confermato anche con la partecipazione ai governi
borghesi che seguono il secondo governo Badoglio (cui già avevano dato
sostegno): il governo Bonomi in carica dal giugno al dicembre '44, sostenuto da
tutte le forze del Cln, e il successivo governo Bonomi, in carica fino al giugno
del '45, retto da Dc, liberali e Pci (con Togliatti vice-premier).
Per
consentire la ricostruzione degli organismi della democrazia borghese,
parlamento, provincie e comuni, si liquidano i Cln (peraltro già trasformati da
potenziali organismi di classe in strumenti della collaborazione di classe, come
abbiamo visto sopra).
Soprattutto è il Pci a dover svolgere un ruolo di primo
piano per disarmare la Resistenza. Nel maggio del '45 in ogni sede comunista è
affisso un appello della direzione del Pci a riconsegnare le armi: per quanto
furono riconsegnati solo i ferrivecchi mentre il resto fu nascosto nei depositi
clandestini, nella ingenua convinzione che a un certo punto il partito avrebbe
richiamato alla lotta.
Ma il contributo più importante alla ricostruzione del
pieno potere borghese si dà in campo economico: dopo aver evitato o circoscritto
gli episodi di esproprio delle fabbriche nelle zone che via via passavano sotto
il controllo della Resistenza, si riconsegnano le fabbriche ai padroni. Di più:
li si invita pressantemente a ritornare. Tutti i numeri dell'Unità, dalla Liberazione
in poi, sono costellati da appelli agli operai perché aumentino la produzione
(Stachanov, "eroe" russo del lavoro, è esaltato in ogni articolo) e ai padroni
perché riassumano "il loro posto". Emilio Sereni (presidente del Cln lombardo,
dirigente del Pci) in un'assemblea pubblica del settembre '45 riprende quello
che sarà il leitmotiv del periodo:
"Sarebbe troppo comodo per le classi dirigenti che hanno portato l'Italia alla
catastrofe poter dire ai lavoratori: ora arrangiatevi da soli... I lavoratori
non sono caduti nel tranello, hanno saputo esigere che i rappresentanti della
proprietà prendessero la loro parte di responsabilità nel ricostruire."
(10).
E le attese di una rivoluzione? Vengono spostate... in avanti; legate
alla futura Costituzione. E' allora che inizia la retorica attorno a quel pezzo
di carta, una retorica che continua ad ammaliare la sinistra riformista anche ai
giorni nostri, nonostante i quasi settant'anni passati abbiano dimostrato che le
rivoluzioni non si fanno con le leggi: tantomeno con le leggi scritte insieme
alla borghesia (11).
L'altra faccia dell'impegno dei partiti di sinistra, Pci
in testa, nel riconsegnare tutto il potere ai padroni, sta nel ruolo svolto per
reprimere ogni atteggiamento e ogni lotta che possa ostacolare questo progetto.
Noto è il ruolo di Togliatti che, ministro della Giustizia nel governo Parri e
nel successivo governo De Gasperi, non solo concede l'amnistia ai
fascisti - consapevole che una seria epurazione avrebbe inevitabilmente
coinvolto anche la borghesia e rialimentato la lotta - ma acconsente alla
ricostruzione dell'apparato repressivo borghese attingendo appunto al vecchio
personale fascista. Ed è ancora il ministro Togliatti a invitare i magistrati a
concludere rapidamente i processi riempiendo le galere (da cui erano usciti i
fascisti) di operai partecipanti a scioperi e manifestazioni (12).
Il Pci
ricopre incarichi di primo piano nei governi della ricostruzione: anche nei
ministeri chiave dell'economia: ministero dell'Agricoltura nel secondo governo
Bonomi; dell'Agricoltura e delle Finanze nel terzo governo Bonomi, nel governo
Parri e nel primo governo De Gasperi; delle Finanze e dei Trasporti nel secondo
governo De Gasperi.
Nonostante questo impegno solerte, nel 1947 il Pci è
estromesso dal governo. Nondimeno, come recita una risoluzione del partito del
maggio '47: "I comunisti continueranno a propugnare un programma di
ricostruzione, che senza opprimere le forze sane produttive con eccessivi
interventi dello Stato restituisca a tutti la fiducia nell'avvenire."
(13).
Un avvenire capitalista, come sappiamo, con la promessa non esplicitata
e le allusioni a un futuro "secondo tempo", quello del riscatto
operaio.
9. Luglio '48: la più grande ondata operaia della storia italiana
E' appunto a
quel "secondo tempo" che credettero i milioni di lavoratori che ripresero le
piazze e le fabbriche dopo il 14 luglio del 1948. Quel giorno, uscendo dal
parlamento, Togliatti fu colpito dalle pallottole di un esaltato.
Pochi
minuti dopo che la notizia ha iniziato a fare il giro del Paese, divampa
un'insurrezione. E' per così dire "spontanea": non nel senso letterale del
termine (lotte integralmente "spontanee", senza l'intervento di settori di
avanguardia o di singole avanguardie non esistono) ma nel senso che certamente
non fu in nessun modo voluta dalle direzioni del Pci o del Psi o della Cgil. Fu
tuttavia alimentata dai quadri di base e intermedi di quelle forze, da quei
partigiani che avevano tenuto da parte le armi migliori.
Il movimento che ne
nasce è il più grande dal "biennio rosso" del 1919-20: anzi, per certi verso lo
supera in ampiezza. Sono centinaia i comuni dove le masse disarmano la polizia e
i carabinieri e assumono il controllo. Le mitragliatrici vengono montate sui
tetti delle fabbriche. Alla Fiat Valletta e i dirigenti sono sequestrati.
In
tutte le grandi città sono erte le barricate difese dalle mitragliatrici. Anche
Roma è totalmente paralizzata.
Ed è qui che governo borghese e padronato
richiamano in servizio il Pci: che per parte sua già si era attivato per
spegnere l'incendio. Tutto il gruppo dirigente centrale, da Togliatti (che si è
raccomandato di "mantenere la calma" mentre lo portavano in ospedale) a Secchia
(che negli anni seguenti una leggenda ingiustificata - accettata anche
dall'estrema sinistra - presentò come il più incline al ritorno alle armi),
si prodiga nelle piazze, improvvisa comizi per invitare... alla calma, a deporre
le armi. Il capo della Cgil, il togliattiano Di Vittorio, va col cappello in
mano da De Gasperi a invocare... il ritorno all'ordine. Ordine che il governo
non è in grado di garantire e per il quale si aspetta appunto un aiuto dai
dirigenti del Pci.
Lo sciopero generale non è stato proclamato da nessuno: la
stessa Cgil vi dovrà aderire solo per riuscire a riprendere le redini della
situazione.
Lo storico Mammarella (certo non di simpatie comuniste) ha così
riassunto le cose: "sarebbe bastato un segnale da parte della direzione del Pci
perché lo sciopero generale si trasformasse in insurrezione aperta. Ma il
segnale non verrà (...)" (14).
Di Vittorio chiama Genova e Milano e Torino:
ordina che si fermi tutto.
Negli anni seguenti la versione ufficiale del Pci
è che si trattava di fermare un'avventura, di evitare un bagno di sangue e la
repressione. In realtà il Pci non solo fermò l'insurrezione (che, a dire il
vero, non avrebbe incontrato grandi ostacoli, dato che il movimento di massa
aveva sollevato come un fuscello l'apparato repressivo borghese) ma evitò in
ogni modo di mantenere vivo il conflitto, di strappare perlomeno (non intendendo
fare la rivoluzione) qualche conquista in un momento certo favorevole.
No, il
gruppo dirigente del Pci (ma vale lo stesso per il resto della sinistra) soffocò
il conflitto operaio e salvò ancora una volta lo Stato borghese e la proprietà
capitalistica, esattamente come aveva fatto il Psi nel settembre del 1920
(motivo che aveva indotto appunto i comunisti del Psi a fare la scissione di
Livorno e a costruire il Pcd'I). A lotta rifluita, la repressione (e persino la
vendetta) borghese non mancheranno comunque. Furono decine di migliaia i
processi e le condanne. E il Pci le sostenne e anzi avviò all'interno del
movimento operaio (e delle proprie stesse file) la caccia all'"estremista", ai
"trotskisti", cioè a tutti coloro che non comprendevano perché la lotta dovesse
concludersi ancora una volta con la vittoria dell'avversario, nonostante
l'indubbia superiorità di forza dimostrata dalle masse, dalla classe
operaia.
10. Perché non è finita a Piazzale Loreto
Arrivati in
conclusione di questa nostra analisi, conviene ripassare in rassegna gli
argomenti che da decenni sono stati forniti dal Pci e da tutta la storiografia
riformista per cancellare dai libri (dopo averlo fatto nella realtà) la
rivoluzione che era possibile nell'Italia del periodo che va dal '43 al
'48:
1) il movimento partigiano avrebbe avuto scarsa consistenza e, in ogni
caso, la componente comunista non avrebbe avuto un peso assoluto;
2) la forza
dell'apparato statale borghese e del sistema sociale ed economico capitalistico
sarebbe stata insormontabile;
3) La presenza delle truppe anglo-americane
prima, la possibilità di un loro intervento negli anni successivi, avrebbe
impedito ogni mossa.
Nel solo leggere questi argomenti, alla luce di quanto
abbiamo scritto nelle pagine precedenti, si capisce come siano più traballanti
di un tavolino tarlato.
L'argomento numero uno è demolito, talvolta
involontariamente, da tutta la storiografia, inclusa quella di orientamento
anche molto ostile alla rivoluzione. E' noto come fu appunto il movimento
partigiano a liberare l'Italia dagli occupanti e dai fascisti, mentre le truppe
dei "liberatori" (l'imperialismo anglo-americano) arrivarono il più delle volte
a cose fatte. Quanto al peso maggioritario non solo dei comunisti ma anche più
in generale dei sostenitori, in vari modi organizzati, di una prospettiva
comunista, abbiamo già detto.
L'argomento numero due non regge alla prova di
qualsiasi esame serio dei fatti storici. L'apparato statale borghese era
crollato in modo evidente nel '43 (l'8 settembre ne fu solo una eco). Non
esisteva più uno Stato unitario, e tanto al Sud (regno) come al Centro-Nord
(repubblica mussoliniana) le masse dimostrarono la capacità di spezzare con la
loro forza i due apparati ricostruiti dopo l'armistizio. Della Resistenza al
Nord è più noto; ma anche al Sud le masse proletarie e i contadini poveri furono
protagonisti di grandiose lotte contro il padronato e le truppe regie (e contro
le bande della mafia che collaboravano con i "liberatori" anglo-americani in
funzione anti-comunista). Si pensi ai tanti episodi avvenuti in Sicilia:
all'insurrezione che nel gennaio del 1945 parte da Ragusa e si estende a Comiso,
Agrigento, ecc., contro la chiamata alla leva da parte del re. L'Unità (9
gennaio 1945) definì quella rivolta come il prodotto di "rigurgiti della
reazione fascista": ma gli storici più seri hanno dimostrato che lì di fascisti
non vi è traccia, al contrario tra gli insorti si trovano vari militanti e
quadri intermedi del Pci. O ancora, si guardi alla vicenda di Piana degli
Albanesi, dove il 31 dicembre '44 fu issata la bandiera rossa sul Comune e
proclamata una "repubblica popolare" che riuscirono a soffocare solo due mesi
dopo carabinieri e alpini scagliati a migliaia contro le masse. E la lista
potrebbe proseguire a lungo.
Quella indubbia capacità rivoluzionaria delle
masse ebbe inoltre la sua più completa verifica ancora nel luglio 1948, come
abbiamo visto, dove ancora una volta fu soltanto l'intervento del Pci a salvare
la borghesia e il suo Stato. Lo stesso può dirsi della forza economica della
borghesia: le fabbriche erano in mano agli operai (così come nel settembre 1920)
e fu lo stalinismo (cioè Togliatti e il gruppo dirigente del Pci) a restituirle,
talvolta cogliendo di sorpresa la borghesia che si aspettava ben altro
trattamento.
Quanto all'argomento degli anglo-americani, mostrava già la sua
debolezza quando fu usato per la prima volta a metà degli anni Quaranta. E' del
tutto evidente che se l'intero movimento della Resistenza non fosse stato,
giorno per giorno, fin dal suo sorgere, deviato e tarpato, nessuno sarebbe stato
in grado di fermarlo né gli anglo-americani sarebbero stati capaci di fermare un
processo rivoluzionario che avveniva simultaneamente in vari Paesi europei (ad
es. in Francia e in Grecia, nello stesso periodo, così come in Jugoslavia: dove
furono i rapporti di forza sul campo a mutare le scelte fatte a tavolino a
Yalta) e che solo lo stalinismo, attraverso il Comintern-Cominform, fu in grado
di disarmare.
La realtà è allora molto diversa da quella che leggiamo ancora
oggi nei libri di storia. In Italia era possibile in quel periodo non solo
sconfiggere il fascismo (fine che non richiedeva nessuna alleanza con la
borghesia o suoi settori) ma anche realizzare una rivoluzione socialista,
facendo i conti col sistema socio-economico che generò il fascismo, il
capitalismo. Di più, in qualche modo era questo il corso che assumevano gli
eventi e questa era la forza enorme intrinseca alla Resistenza.
Quel corso fu
volutamente deviato con un gigantesco sforzo attivo da parte dello stalinismo
che operò coscientemente per impedire (o meglio per rovesciare) la
radicalizzazione classista della Resistenza.
E questo avvenne perché
mancavano un partito e un'internazionale rivoluzionaria con influenza di massa
in grado di contendere l'egemonia agli stalinisti; perché non c'era un partito
di tipo bolscevico e l'internazionale rivoluzionaria, la Quarta Internazionale,
nata pochi anni prima (1938) rimase minoritaria grazie ai colpi incrociati che
subiva per mano degli Stati borghesi (democratico parlamentari o fascisti) e
degli stalinisti.
Ecco, in definitiva, perché solo la costruzione del
partito rivoluzionario che mancava nel 1943-1948 e che manca ancora oggi potrà
riscrivere la storia (e non solo nei libri) e potrà riscattare il sacrificio di
tanti giovani operai, di tanti partigiani. Facendo quella rivoluzione che fu
loro impedita.
Note
(1) Oltre alle
Brigate Garibaldi il Pci dà vita nel novembre '43 ai Gap (Gruppi di azione
patriottica) che agiscono nelle città; e poi alle Sap (Squadre di azione
patriottica) composte da lavoratori che rimangono al lavoro e fanno azioni di
sabotaggio e collaterali.
(2) E. Aga Rossi e V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin, Il
Mulino, 1997; S. Pons - F. Gori, Dagli archivi di Mosca. L'Urss, il
Cominform e il Pci, 1943-1951, Carocci, 1998.
(3) Citato da
Pons-Gori, op.cit., p. 48.
(4)
Ivi, p.
35.
(5) Interessante notare che fu Togliatti in persona, di ritorno da Mosca,
a portare le direttive segrete di Dimitrov per il Pcf: unità nazionale, disarmo
della Resistenza, ecc.
(6) V. l'Unità del 2 aprile 1944:
l'archivio dell'Unità (molto utile) è
consultabile anche dal sito http://archivio.unita.it/.
Si tratta di
quanto Togliatti aveva già detto in vari interventi e in particolare di quanto
dirà, più o meno con le stesse parole, nel discorso ai quadri del Pci napoletano
l'11 aprile (v. P. Togliatti, Per la salvezza del nostro
Paese, Einaudi, 1946).
(7) Direttiva di Ercoli [il nome di
battaglia di Togliatti] del 6 giugno 1944, in Archivio Pci presso la Fondazione
Istituto Gramsci, Roma, citato da Aga Rossi e Zaslavsky, op. cit.
(8) Su questo
tema si veda l'articolo di F. Stefanoni, "Partito nuovo' e 'democrazia
progressiva': due strumenti del compromesso di classe", reperibile sul sito
www.alternativacomunista.org nella sezione
"teoria e formazione".
(9) Citato da A. Peregalli, L'altra Resistenza. Il Pci e le
opposizioni di sinistra, 1943-1945, Graphos, 1991, p. 88.
(10)
Citato da G. Galli, Storia
del Pci, ed. Schwarz, 1958, p. 236.
(11) Per un nostro giudizio
più argomentato circa la Costituzione, rimandiamo al nostro "Popolo viola o
popolo rosso? Perché i comunisti non difendono la Costituzione e si battono per
un'altra democrazia" reperibile all'indirizzo web http://www.alternativacomunista.it/content/view/1435/47/
(12) In questo
quadro, il Pci al contempo reprime gli atti di ribellione di bande partigiane
che nel periodo dalla Liberazione al '48 periodicamente sono tentate dal
riprendere le armi e ritornare in montagna; e al contempo tollera (e in parte
usa come valvola di sfogo) azioni contro singoli fascisti: come è il caso delle
esecuzioni di fascisti eseguite dalla Volante Rossa di Milano, attiva
dall'estate '45, su cui si rimanda a C. Bermani, La Volante Rossa, Ed.
Colibrì, 2009.
(13) Vedi La politica dei comunisti dal V al VI
Congresso, risoluzioni e documenti raccolti a cura della segreteria del
Pci, 1948.
(14) G. Mammarella, L'Italia dopo il fascismo,
1943-'68, Il Mulino, 1970, p. 204.
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Suggerimenti di lettura
Al lettore
che volesse approfondire i temi trattati in questo articolo consigliamo in primo
luogo di leggere i principali articoli scritti da Lev Trotsky sul fascismo e sui
fronti popolari: li si trova nelle due antologie curate da Livio Maitan:
Scritti
1929-1936 (Mondadori, 1968) e I problemi della rivoluzione cinese e
altri scritti su questioni internazionali (Einaudi, 1970). Sullo
stesso tema, di grande utilità sono i libri di Daniel Guérin, Fascismo e gran capitale,
(Massari editore, 1994) e di Leonardo Rapone, Trotsky e il fascismo
(Laterza, 1978).
Sulla Resistenza, di là dalle opere di impianto stalinista
(la storia del Pci di Spriano, i libri di Ragionieri, Procacci, ecc.; o le
memorie e biografie di vari dirigenti politici e sindacali togliattiani), uno
dei libri più interessanti (prescindendo dai giudizi dell'autore, ex azionista,
su posizioni socialiste borghesi ma appunto indipendenti dall'influenza
stalinista) è la Storia
dell'Italia partigiana di Giorgio Bocca (Feltrinelli, 2012 è
l'edizione più recente); del medesimo autore, sempre di taglio giornalistico ma
con spunti interessanti è anche la biografia Togliatti (Laterza,
1973).
Sul periodo storico trattato suggeriamo la lettura di questi titoli:
Giorgio Galli, La sinistra
italiana nel dopoguerra (Il Mulino, 1958, edizione ampliata 1978 per
Il Saggiatore); sempre di Galli la Storia del Pci (Schwarz,
1958, la ristampa più recente è Pantarei, 2011) e la serie di volumi di Renzo
Del Carria, Proletari senza
rivoluzione (Savelli, 1976): l'autore, all'epoca maoista
ricostruisce l'intera storia d'Italia (dal Risorgimento agli anni Sessanta) dal
punto di vista delle classi subalterne e, di là da singoli giudizi, fornisce un
materiale difficilmente reperibile altrove sulle principali lotte operaie e
delle masse popolari.
Per una lettura anti-stalinista delle vicende qui
trattate rimandiamo ad Antonio Moscato, Sinistra e potere. L'esperienza
italiana, 1944-1981 (Sapere 2000, 1983): ai saggi di Moscato abbiamo
fatto riferimento in vari casi per questo testo. Per altri testi utili
dell'autore (storico e dirigente per decenni del Segretariato Unificato e di
quanto resta oggi del gruppo italiano) si veda il suo sito http://antoniomoscato.altervista.org/
Tra i rarissimi libri dedicati alle
opposizioni nella Resistenza (cui abbiamo fatto riferimento nel capitolo 6 del
presente saggio) risultano indispensabili alcuni libri pubblicati da piccole
case editrici: il testo più completo è sicuramente quello (di taglio
bordighista) di Arturo Peregalli, L'altra Resistenza. Il Pci e le
opposizioni di sinistra, 1943-1945 (Graphos, 1991); poi Silverio
Corvisieri, Bandiera Rossa
nella Resistenza romana (Samonà e Savelli, 1968) e Maurizio
Lampronti, L'altra
Resistenza, l'altra opposizione. Comunisti dissidenti dal 1943 al 1951
(Antonio Lalli editore, 1984).
Sul trotskismo italiano (di cui
abbiamo parlato nel capitolo 7) rinviamo alla lettura di questi testi: Aa.Vv.,
All'opposizione nel Pci con
Trotsky e Gramsci (1977, ristampato da Massari Editore, 1994) e Lev
Trotsky, Scritti
sull'Italia (Massari editore, 1990). E ancora: Paolo Casciola,
Il trotskismo e la
rivoluzione in Italia (1943-1944), nei Quaderni del Centro Studi
Pietro Tresso; e, dello stesso autore, medesime edizioni, anche: Appunti di storia del trotskismo
italiano (1930-1945). Sugli atti di nascita del trotskismo italiano
è prezioso Diego Giachetti, Alle origini dei Gruppi Comunisti
Rivoluzionari 1947-1950. Una pagina di storia del trotskismo
italiano (Quaderni del Centro Studi Pietro Tresso, novembre
1988).
Su Pietro Tresso, ucciso dagli stalinisti, si può leggere Paolo
Casciola, Guido Sermasi, Vita di Blasco. Pietro Tresso
dirigente del movimento operaio internazionale (Odeonlibri-Ismos,
1985).
(questo saggio è stato pubblicato sul n. 4 di Trotskismo oggi, settembre 2013, rivista teorica edita dal Pdac)