Partito di Alternativa Comunista

A vent’anni dal G8 di Genova

A vent’anni dal G8 di Genova

 

 

 

di Alberto Madoglio*

 

 

Esattamente venti anni fa a Genova, dal 19 al 22 luglio 2001, si svolsero imponenti manifestazioni contro l’annuale riunione del G8, consesso delle maggiori potenze del pianeta. Fu l’apice di un processo di lotte e manifestazioni di massa che avevano preso il via due anni prima a Seattle e che rappresentavano un primo rifiuto di massa, su scala mondiale, alle politiche di globalizzazione capitalistica.
Con la caduta del Muro di Berlino nel 1989 e la dissoluzione dell’Urss nel 1991, la propaganda in ogni angolo del globo suonava la «campana a morto» per tutto quanto riguardava ogni alternativa di classe all’economia di mercato. A detta di molti il capitalismo aveva trionfato sopra ogni altro sistema economico e sociale. Il Nuovo Ordine Mondiale avrebbe garantito uno sviluppo pacifico del quale tutti avrebbero tratto benefici. Non si parlava più di sfruttati e sfruttatori, ma tutti erano uniti per raggiungere un comune destino.

 

Fine della Storia?

La Storia, con la S maiuscola, era giunta al suo termine. In realtà le cose presero immediatamente un corso del tutto differente dalla narrazione ufficiale. Più la globalizzazione capitalista avanzava, e più i suoi lati brutali si manifestavano.
Le guerre per il dominio e la spartizione imperialista del mondo lungi dall’essere un retaggio del passato, riprendevano con forza e crudeltà (aggressione all’Iraq). I nazionalismi più barbari e i più brutali scontri interetnici si riaffacciavano, non solo nel continente africano (guerra civile e conseguente genocidio in Ruanda nel 1994) ma anche nella cosiddetta «civile» Europa (dal Caucaso alla ex Jugoslavia). Di pari passo peggioravano le condizioni lavorative di centinaia di milioni di proletari in ogni Paese. L’ingresso della Cina nel mercato mondiale creava la più ampia e concentrata classe operaia della storia, le cui condizioni di sfruttamento rasentavano lo schiavismo.
Tutto questo ebbe sul piano sociale come conseguenza l’esplosione di movimenti di protesta come quelli di cui abbiamo parlato in apertura dell’articolo. A Genova si palesarono tutte le differenti sfaccettature di questa situazione: le potenzialità insite nel movimento, i limiti e le inadeguatezze delle direzioni sue proprie, la brutalità della repressione dello Stato capitalista al servizio degli interessi della borghesia. Per potenzialità intendiamo il fatto che da Seattle 1999 a Genova 2001 si assistette a un crescendo di lotte e mobilitazioni quasi ininterrotte a livello mondiale. Non si era in presenza cioè di forze di scontro, per quanto radicale, sporadiche e isolate, né al fatto che fossero tipici solo di un Paese o pochi altri.
Anche la composizione di classe aiuta a comprenderne la forza. Se erano mobilitazioni partecipate in maniera prevalente da giovani, la classe operaia era presente in numero significativo. Quello che emozionò, e per certi versi stupì, nelle mobilitazioni di Seattle fu che, a sostegno dei giovani radicali che si difendevano dai brutali attacchi della polizia Usa, ci fu l’intervento di operai e di altri proletari della città. Stessa cosa a Genova dove, insieme a giovani e donne provenienti da tutta Europa, vi fu la presenza di migliaia di operai sindacalizzati e non.

 

Da Genova al Cile e alla Colombia

Anche in quei giorni, come da sempre nella storia del movimento operaio o dei movimenti di protesta contro il dominio del capitale, la questione della direzione politica assunse un ruolo centrale. Sia per quanto concerne la sua versione più «radicale» e «combattiva», sia per quella più moderata e istituzionale.
La prima, comunemente conosciuta come l’area dei black block (dal colore dei vestiti, totalmente neri, indossati dai suoi appartenenti) era di ispirazione per così dire anarchica. In realtà non si poneva nemmeno l’obiettivo di rappresentare una direzione del movimento, ma vedeva nello scontro anche violento con gli apparati dello Stato un fine in sé stesso, senza cercare di confrontarsi con la larga parte del movimento per provare a condividere obiettivi minimi comuni nell’azione (1).
In molti casi il loro comportamento, settario e scriteriato, mise in serio pericolo la sicurezza della maggior parte dei partecipanti alle varie mobilitazioni (non solo a Genova). Ciò non toglie la nostra solidarietà per la durissima repressione della quale moltissimi, anarchici e non solo, furono oggetto, sia da parte degli apparati repressivi, sia da parte dei mass media di regime, che rappresentarono molti giovani presenti in piazza come dei teppisti tout court.
Enormemente maggiori e più gravi furono le responsabilità delle direzioni moderate e, per così dire, istituzionali del movimento. In Italia Fiom, Tute Bianche (area legata in particolare ai centri sociali del Nord Est, il cui leader era Luca Casarini; al di là di una retorica barricadera erano note per scendere a patti con diverse amministrazioni locali delle città in cui erano presenti, e rappresentare la parte più moderata del mondo dei centri sociali) e soprattutto Rifondazione Comunista usarono il prestigio e il seguito di cui godevano nel movimento per i loro fini. Per loro la globalizzazione non doveva essere sconfitta e il capitalismo rovesciato, ma solo essere governato in modo più umano. Quanto questa idea fosse velleitaria lo dimostrò anni dopo l’ingresso di Rifondazione nel secondo governo Prodi, del quale accettò e condivise le più dure politiche di austerità antioperaia pagandone il prezzo con la sostanziale sparizione dal panorama politico nazionale.
L’omicidio di Carlo Giuliani, un giovane manifestante ucciso a sangue freddo da un colpo di pistola sparato da un carabiniere, le brutali cariche della polizia contro i manifestanti nelle giornate del 20 e del 21 luglio, le operazioni da «macelleria messicana» avvenute alla scuola Diaz e alla caserma dei Carabinieri di Bolzaneto, caratterizzate da una violenza senza freni soprattutto nei confronti di giovani donne inermi, mostrarono al mondo intero la brutalità delle forze dell’ordine borghesi e quale ordine esse siano chiamate a difendere.
Il movimento fu solo in apparenza battuto. In questi venti anni abbiamo assistito a una continua esplosione di lotte, rivolte, vere e proprie insurrezioni di massa quasi senza soluzione di continuità.
Questo perché, nonostante tutto quello che la stampa e i mezzi di informazione di regime vogliono farci credere, il capitalismo non è in grado di garantire a miliardi di persone nel modo una vita dignitosa, sicura e senza guerre o altri conflitti. Da piazza Tahir al Cairo a piazza Dignidad a Santiago del Cile, dalla Grecia alla Colombia, milioni lavoratori, giovani e donne si sono mobilitati, e continuano a farlo anche in queste settimane, per rivendicare un altro mondo, non più fondato sul profitto e lo sfruttamento.
Questo mondo esiste ed è il solo possibile: si chiama socialismo e noi continueremo a lottare perché trionfi.

 

*Dirigente del Pdac, in piazza a Genova durante quelle giornate

 

 

(1) Come hanno dimostrato numerose inchieste giornalistiche, pare che ci fossero anche diversi infiltrati degli apparati tra le loro file (ndr).

 

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