Blocco licenziamenti. Bonomi, Draghi e Landini:
tre sfumature di un unico massacro occupazionale
Nota a cura del Dipartimento sindacale del Pdac
Il 30 giugno del 2021 va in scadenza il cosiddetto blocco dei licenziamenti, un setaccio dalle maglie molto larghe che ha permesso, senza colpo ferire, la perdita di 600 mila posti di lavoro ufficiali (si stima oltre un milione reali!).
Per comprendere l’inconsistenza di questo provvedimento è sufficiente considerare che il suo campo d’azione è ristretto ai soli contratti a tempo indeterminato e, tra questi, ai soli licenziamenti economici, sia collettivi che individuali. Via libera alle dimissioni consensuali e ai licenziamenti disciplinari: due causali facilmente gestibili dal padrone, specialmente in quelle piccole e medie imprese, poco o per nulla sindacalizzate, che costituiscono l’80% del tessuto industriale italiano.
Fuori dal provvedimento governativo del blocco ci sono anche i licenziamenti per fallimento, liquidazione e chiusure, ma ciò che più scandalizza è la possibilità di licenziare previo accordo con le direzioni dei sindacati confederali; queste, già nel Patto per la fabbrica (1) entravano a gamba tesa nel ricco mercato dei licenziamenti e delle «transizioni occupazionali» (da lavoratori con tutele a lavoratori senza tutele) dove barattavano pace sociale in cambio di prebende e privilegi. A tutto ciò va aggiunta la possibilità per i padroni di licenziare comunque, evitando il rinnovo di contratti a tempo determinato oppure risolvendo contratti di apprendistato e periodi di prova (senza contare il fatto che col Jobs Act in caso di licenziamento illegittimo non vi è obbligo di reintegro: è previsto solo il pagamento di un’indennità irrisoria specialmente nelle piccole aziende).
Dal primo luglio quella misura che è stata presentata come una diga - ma che in realtà, come i numeri ci dimostrano, si è rivelata essere un colabrodo - sarà eliminata, dando il via libera al licenziamento selvaggio.
Le posizioni in campo
Nel titolo richiamiamo le tre principali posizioni che occupano le pagine della stampa borghese; e tutte e tre si differenziano di molto poco.
In realtà, ad essere onesti, sarebbe più corretto evitare di prendere in giro i lavoratori e dire chiaramente che sul tema dei licenziamenti c’è una sola posizione: a) quella di Confindustria che esige la cessazione totale immediata del blocco; cui seguono due varianti che potremmo definire di mera estetica. Le semplifichiamo così: b) la posizione del governo del banchiere che, dalla stanza dei bottoni di quella Ue che ha ispirato la riforma Fornero delle pensioni e il Jobs act; e ha ridotto alla fame le masse popolari greche (2), vuole scaglionare il blocco in due date: 30 giugno per i lavoratori coperti dalla cassa integrazione e 31 ottobre per tutti gli altri, giocandosi la carta della cassa integrazione senza addizionali per i padroni fino al 31 dicembre; poi c) c’è la posizione dei sindacati (vertici burocratici Cgil in testa) che chiedono, bontà loro, un rinvio per tutti al 31 ottobre: in questo modo pensano di guadagnare tempo per fare, con il loro immancabile contributo, una riforma degli ammortizzatori sociali. Dovessimo trovare un’espressione in grado di sintetizzare le posizioni del governo e delle segreterie di Cgil, Cisl e Uil, potremmo dire: «diversamente Confindustria».
Uno scambio improponibile
La logica del cosiddetto ammortizzatore sociale in cambio dell’accettazione del licenziamento non è molto diversa dalla logica che sta dietro all’ultimo pasto per il condannato a morte. Lo scambio proposto dal governo per conto della borghesia è quello di abbandonare un’occupazione lavorativa al prezzo – nella migliore delle ipotesi – di un paio d’anni di paghetta targata Inps, riscossa in virtù di un accordo che reca in calce la firma di funzionari sindacali. Questo è semplicemente inaccettabile! La cassa integrazione, in tutte le sue forme e con tutti i suoi acronimi, dimezza il salario dei lavoratori e impatta sulle pensioni, permettendo ai capitalisti - che hanno fatto profitti miliardari – di privatizzare i loro profitti e di socializzare la loro crisi scaricando il costo del lavoro sulla collettività.
La rioccupazione improbabile
Nel pieno di un'emergenza sanitaria esplosa con la pandemia di Covid 19 che, a sua volta, si inscrive nel più generale contesto della crisi economica del capitalismo iniziata nel 2007, è quantomeno azzardato pensare alla possibilità concreta di ritrovare un posto di lavoro dopo il licenziamento; per quanto improbabile, un’eventuale nuova occupazione sarà comunque priva di quel quadro minimo di tutele e diritti conquistato con anni di dure lotte operaie. Le lavoratrici e i lavoratori saranno maggiormente ricattati, le forme di precarizzazione aumenteranno e i salari diminuiranno.
I finanziamenti pubblici di centinaia di miliardi di euro, provento della ricchezza prodotta dalla classe operaia, sono stati dirottati dai governi borghesi nelle tasche di banchieri e industriali: andranno a rappresentare ulteriore debito pubblico che sarà scaricato nuovamente sui lavoratori. È necessario invece espropriare, nazionalizzare e rilanciare, sotto il controllo dei lavoratori, le principali aziende in crisi per difendere l’occupazione e salvaguardare servizi essenziali e beni comuni come sanità, scuola, trasporti, industria.
L’unica rivendicazione possibile
«Nessun licenziamento!». Questa è l’unica parola d’ordine su cui tutte le lavoratrici e i lavoratori salariati devono convergere. È una rivendicazione fondamentale che dev’essere accompagnata da quella di un salario di emergenza pari al 100% della retribuzione, con copertura contributiva totale e riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Il blocco dei licenziamenti non può essere minimizzato a norma provvisoria del governo di turno: per la classe lavoratrice è un dogma senza tempo da sottrarre dai tavoli di trattativa tra padroni, esecutivi borghesi e dirigenti sindacali opportunisti.
I lavoratori devono urgentemente organizzarsi all’interno dei loro sindacati per imporre l’unione dei vari settori e categorie in lotta in modo da radunare le forze per respingere uno dei più gravi attacchi della borghesia alla classe sociale cui appartengono.
Durante la pandemia il proletariato ha pagato un costo altissimo in termini di vite umane: oltre alle 126 mila vittime ufficiali di Covid si sommano tutte le vittime di malattie che il sistema sanitario nazionale, massacrato da decenni di tagli miliardari dai governi di ogni colore, nel pieno di questa emergenza sanitaria, non ha potuto curare. A queste vanno aggiunti 1400 morti l’anno per infortuni sul lavoro, e tutte le malattie professionali invalidanti e letali. Tutto questo accade mentre i capitalisti proseguono indisturbati la loro accumulazione di ricchezza: ciò nonostante, continuano a pretendere una produzione inarrestabile, avallata da leggi e provvedimenti dei governi Conte e Draghi, con il soccorso provvidenziale dei massimi dirigenti sindacali, quegli stessi che hanno firmato i protocolli (in)sicurezza.
La crisi la paghino i capitalisti che l'hanno generata! Nessun licenziamento, il lavoro non si tocca! Questo grido che ha riempito le piazze e i cortei in decenni di storia del movimento operaio, riempirà ancora i nostri polmoni, fino ad echeggiare sulle macerie di un sistema putrefatto e criminale che sta portando l’umanità all’estinzione per rendere perpetui i profitti di un pugno di miliardari.
Note