È noto che in Italia i sistemi elettorali di tipo proporzionale hanno, nei decenni scorsi, ceduto il passo a quelli di tipo maggioritario da quando l’arretramento complessivo del movimento operaio a partire dai primi anni ’80 ha consentito alla borghesia di imporre la sua ideologia dominante tutta fatta di “stabilità” e di “governabilità”. E così, attraverso le varie riforme elettorali succedutesi nel tempo, con la progressiva cancellazione dei tratti di proporzionalismo presenti nel nostro sistema e l’affermazione del maggioritario, la borghesia ha traghettato l’Italia verso il bipolarismo: il progetto teorizzato è quello per cui due grandi poli contrapposti possano competere tra loro contendendosi il governo del paese allo scopo, poi, di amministrare senza scossoni parlamentari gli interessi dei capitalisti.
I quesiti referendari sottomessi agli elettori il prossimo 21 giugno sono ulteriormente peggiorativi del già pessimo sistema elettorale in vigore, poiché attribuiscono il premio di maggioranza non più alla coalizione ma solo alla lista singola che otterrà il miglior risultato: cosicché, un solo partito che raggiungesse il 30-35% dei voti avrebbe il 54% dei seggi.
Qual è l’intento dei promotori del referendum? Quello di “stabilizzare” ancora di più il quadro politico, evitando che i partiti siano costretti a ricorrere a coalizioni composite e finanche rissose per poter beneficiare del premio; al contrario, se passasse il Sì, un partito da solo potrebbe di fatto governare senza dover allearsi con nessun altro. È evidente che i referendari vogliono perseguire lo scopo di una maggiore “omogeneizzazione” delle forze politiche in due soli partiti che si contendono periodicamente il governo: il risultato sarebbe, com’è ovvio, il passaggio dal bipolarismo al bipartitismo coatto.
La raccolta delle firme, promossa da Segni e Guzzetta, ha visto impegnato uno schieramento trasversale sia delle forze conservatrici che di quelle “progressiste” in rappresentanza della borghesia e del suo progetto bipartitico, chiarissimo segno – questo – del carattere di classe di una simile riforma elettorale (e del referendum stesso), che tenta di pescare nel diffuso malcontento e nella disaffezione di vasti settori popolari per un sistema in cui i partiti vengono visti come lontani dagli interessi delle persone.
Il posizionamento dei partiti sul referendum
Ed è proprio questo che induce il partito di Bossi a premere, forte di un consolidamento elettorale ottenuto alle recenti elezioni, perché Berlusconi non sponsorizzi il referendum Segni-Guzzetta: il ricatto della Lega è stato evidente sin dalla richiesta di non fare svolgere la consultazione referendaria al primo turno delle amministrative, quando, con tutta probabilità, il quorum sarebbe stato raggiunto. Ottenuto di confinarla al secondo turno – in cui l’affluenza sarà bassissima a causa dei pochi ballottaggi da celebrare – ha anche preteso l’esplicitazione del mancato appoggio da parte del presidente del consiglio che, per non rompere gli equilibri di governo, ha accolto quella rivendicazione. Fini, invece, che si sta ritagliando un ruolo di figura di riferimento per la costruzione di una destra liberale, ha ribadito il suo appoggio al Sì al referendum.
In questo quadro, merita di essere segnalata la posizione che la direzione del Pd ha assunto per il Sì. La giustificazione ufficiale adottata è che l’approvazione dei quesiti determinerebbe una tale instabilità parlamentare che indurrebbe Berlusconi a sedersi al tavolo negoziale per la modifica per via parlamentare della legge elettorale. Tuttavia, il capo del governo ha già spento ogni illusione al riguardo sostenendo che l’eventuale vittoria del Sì costituirebbe essa stessa il nuovo sistema elettorale, per cui non sarebbe necessaria alcuna ulteriore riforma.
Una risposta tanto scontata da essere assolutamente prevedibile, allora, deve spingerci a indagare le ragioni di una decisione così autolesionista da parte dei democratici, una decisione che ha dato luogo ad un dibattito sopito soltanto dalla necessità di rispettare la tregua interna in vista del congresso. Crediamo di poter dire che il motivo di fondo su cui poggia tale posizione non sta nell’esplicitata intenzione di ottenere per via parlamentare la modifica della legge elettorale, che appare invece solo la giustificazione di facciata, quanto nella compiuta evoluzione in senso liberale del Pd che costituisce la rappresentanza diretta di quei settori della grande borghesia che perseguono un esito bipartitico del progetto bipolare (2) del quadro politico italiano. E, sullo sfondo, si affacciano anche ragioni di mero calcolo di bottega: il bipartitismo coatto che venisse disegnato dalla vittoria dei Sì al referendum potrebbe indurre altre formazioni politiche (3) ad accelerare il processo di confluenza nel Pd: unica strada, per quelle, per rientrare nel gioco della rappresentanza parlamentare; e, per quest’ultimo, per rafforzare un corpo asfittico in vista della prossima sfida elettorale con Berlusconi.
Una battaglia, però, che deve essere data nella consapevolezza che nel regime capitalistico nessun sistema elettorale potrà garantire davvero le ragioni dei lavoratori: solo una radicale trasformazione in senso socialista della società, con l’abolizione della classe degli sfruttatori, sarà in grado di assicurare ai lavoratori stessi di potersi rappresentare da soli, con un proprio governo.
(2) Progetto quanto mai in affanno nell’attuale fase politica.
(3) A partire da SeL di Nichi Vendola.
(4) Rifiutare esplicitamente la scheda è un diritto dell’elettore ed equivale all’astensionismo; mentre votare scheda bianca od annullarla innalza il quorum della partecipazione al voto.