Dopo le elezioni borghesi
Rilanciare la
lotta nelle fabbriche e nelle piazze!
Diamo una "calda accoglienza" al
prossimo governo!
Esecutivo
nazionale Pdac
Si sono tenute domenica 4 marzo, tra
conferme largamente attese e relative sorprese, le elezioni politiche italiane.
La prima conferma che esce dalle urne è che non vi è ancora un progetto per far
ripartire il meccanismo dell’accumulazione del capitale italiano (che sui
giornali viene detto eufemisticamente «uscita dalla crisi», ma che in realtà non
corrisponde minimamente agli interessi dei lavoratori) che abbia riscosso
il consenso maggioritario della borghesia italiana, che si è trovata più divisa
del solito tra i vari schieramenti: sintomo di questa divisione era la legge
elettorale stessa, una legge che parrebbe irrazionale, scritta con lo scopo
manifesto di non far vincere nessuno schieramento.
Perciò, diversi
commentatori borghesi si aspettavano la nascita di una «grande coalizione» di
governo all’indomani delle elezioni, e qui arriva la prima sorpresa: ampi
settori di proletariato e di piccola borghesia colpiti dagli effetti della
crisi, riconoscendo nel Pd e in Forza Italia i due partiti che, al di là del
gioco delle parti, avevano gestito le politiche anti-popolari degli anni di
crisi fin dai governi «tecnici» di Monti, hanno severamente punito
elettoralmente questi partiti, rendendo di fatto impossibile una coalizione che
non comprenda anche Lega o Movimento 5 stelle. La coalizione del Partito
democratico perde 2,5 milioni di voti assoluti, una batosta elettorale che
parrebbe aver messo fine ai giorni di Renzi come segretario, mentre Forza Italia
ne perde 2,8 milioni e, sebbene pari il colpo grazie all’alleanza con la Lega,
Berlusconi è ora relegato al ruolo di «co-primario» nel centrodestra.
La Lega
di Salvini aumenta i propri consensi di 4 milioni di voti, mentre il Movimento 5
stelle «solo» di 2 milioni: entrambe queste forze si candidano a governare il
Paese, pur non avendo al momento i numeri in parlamento per formare un governo
stabile. La sorpresa relativa (soprattutto per chi analizza la politica con una
visione di classe) è l’apertura di Di Maio all’alleanza governativa con il Pd (e
con «chi ci sta», infatti Liberi e Uguali ha già accettato): le prime
dichiarazioni ufficiali del leader dei Cinque stelle dopo le elezioni erano
tutte volte ad accreditarsi come governante responsabile verso la borghesia
italiana ed internazionale, oltre che verso lo stesso Mattarella che dovrà poi
decidere se affidare un mandato governativo o se ritornare alle urne. Invece le
dichiarazioni di Salvini rimangono marcatamente populiste, in linea coi suoi
principali riferimenti europei, Le Pen in primis: questo potrebbe
suggerire a Mattarella di tentare la strada Di Maio, soprattutto se settori del
Pd decidessero di sostenere un eventuale esperienza governativa. Non sono
comunque escluse ipotesi di governi tecnici.
Sul versante della sinistra riformista e
centrista (cioè semi-riformista) non ci sono invece sorprese, ma la conferma che
le prospettive elettoraliste non hanno nessun futuro: l’esperimento che, a detta
di alcuni, aveva risvegliato la passione degli attivisti e dei lavoratori per la
politica, Potere al popolo, riesce a prendere la metà dei voti che aveva preso
la già fallimentare Rivoluzione civile alle ultime politiche e un terzo dei voti
che la lista Tsipras, anch’essa diretta da Rifondazione comunista come le due
liste citate, aveva preso alle elezioni europee l’anno successivo. Non riteniamo
assolutamente che l’assemblea nazionale convocata il 18 marzo possa ridare vita
a questo progetto, ma al massimo può tenerlo in vita artificialmente, giusto
perché rilanciare Rifondazione è sostanzialmente impossibile senza mascherare il
solito vecchio progetto riformista dietro una fraseologia nuova ma ugualmente
vuota.
Difficile trovare un aggettivo per
descrivere il dato di «Per una sinistra rivoluzionaria», cartello elettorale di
Pcl e Scr. Sinistra rivoluzionaria ha preso quattro volte meno dei voti che il
solo Pcl aveva preso alle elezioni del 2013, cosa che pone seri dubbi sullo
stato di salute di questi due partiti, ma al di là del dato numerico (0,08%),
che comunque per le analisi dei rivoluzionari ha un valore del tutto marginale,
rivolgiamo nuovamente a questi compagni la domanda che già avevamo posto prima
del voto: su quali basi si è costituito questo fronte elettorale? Le basi ci
paiono assai poco solide se, poco dopo il voto, cominciano le recriminazioni su
scelta di nome e simbolo (fossero questi i problemi principali poi…). Torniamo a
chiedere loro che tipo di programma «rivoluzionario» hanno presentato: Bellotti
(candidato premier della lista) in campagna elettorale rivendicava le
esperienze di alcuni governi «di sinistra», cioè di collaborazione di classe,
come i governi «progressisti» latinoamericani e addirittura il «primoTsipras»,
nonché figure quali Corbyn e Bernie Sanders (cioè esponenti di partiti
borghesi). Come avevamo analizzato (leggi l’intervista a Ricci che fa un quadro
sullo scenario elettorale https://www.alternativacomunista.it/content/view/2527/1/)
questo fronte elettorale è stato l’antitesi della politica leninista di uso
delle elezioni per propagandare il programma rivoluzionario: ciò conferma la
nostra scelta di non accettare l’invito a partecipare a questo cartello
elettorale. Avendo misurato l’assenza di spazi per sviluppare una visibile
propaganda rivoluzionaria, anche a causa delle leggi anti-democratiche dello
Stato borghese, abbiamo rinunciato a presentarci alle elezioni, avviando però
parallelamente una campagna contro alcune delle leggi maggiormente anti-operaie
approvate negli ultimi anni (la campagna «Mobilitiamoci per fermarli!» https://www.alternativacomunista.it/content/view/2526/1/
)
Nessuna risposta alla crisi dalle urne. Rilanciamo le
lotte!
È difficile dire oggi chi governerà l’Italia tra
qualche settimana, non si può nemmeno escludere un ritorno alle urne in verità,
ma una cosa è certa: in questi prossimi mesi il governo del Paese sarà in una
posizione molto debole e delegittimata (pensiamo ad esempio al ministro
dell’interno Minniti delegittimato, oltre che dalla sconfitta del suo partito,
anche dalla sua sconfitta elettorale personale). Qualunque governo i lavoratori
si troveranno ad affrontare nei prossimi mesi sarà un governo ancora più debole
del governo Gentiloni dei mesi scorsi, difficilmente, ad esempio, sarà in grado
di imporre una nuova legge anti-sciopero o altre misure anti-operaie se i
lavoratori scenderanno in piazza per opporvisi, ed è per questo che il movimento
operaio deve ripartire dalle grandi battaglie che già stava portando avanti
contro i padroni e il loro governo, a partire dalla campagna per la
nazionalizzazione dell’Alitalia, dalla battaglia contro il Jobs act e la legge
Fornero, fino alla lotta delle maestre, degli insegnanti e degli studenti contro
la «Buona scuola» di Renzi. Solo partendo dalle lotte contro il capitalismo
potremo cambiare in meglio la società negli interessi dei
lavoratori.