FERRERO ALL'OPPOSIZIONE DI MONTI
E DELLA BORGHESIA... TEDESCA
Dimenticando la borghesia italiana e il Pd:
in attesa di tornarci insieme al governo
La fotografia di Rifondazione a questo congresso mostra un partito ridotto a un modellino in scala 1:15 di quello che era Rifondazione ancora solo qualche anno fa. Fatta la debita proporzione tra iscritti, votanti al congresso, attivisti e militanti, studiando i dati ufficiali forniti si può facilmente calcolare che i militanti effettivi, cioè coloro che fanno attività politica quotidiana, sono circa un migliaio (abbondando). A questi si aggiungono un altro migliaio di compagni e compagne che danno un qualche sostegno periodico (con le feste, con la partecipazione a qualche iniziativa pubblica). Gli altri diecimila e rotti che hanno votato nei congressi locali, come è noto a chiunque abbia partecipato a qualcuno dei sette congressi precedenti, sono elettori passivi che non si rivedranno più fino al congresso successivo e includono parenti, nonne e zie, e talvolta anche veri e propri fantasmi che non hanno votato ma che risultano nei verbali dei congressi o iscritti fatti il giorno prima del congresso.
Dire circa mille militanti (di cui un 10% è costituito da funzionari nazionali e locali o amministratori) significa parlare di una forza pari grossomodo a 1/10 di quella su cui Rifondazione contava all'epoca della seconda esperienza di governo con Prodi e pari a circa 1/15 di quella su cui Rifondazione contava all'epoca della prima esperienza di governo con Prodi. Un patrimonio di energie militanti è stato dilapidato in questi venti anni di vita di Rifondazione.
Da tempo parliamo di una socialdemocrazia "nana" con riferimento sia a Rifondazione che alla forza nata alla sua destra, la Sel di Vendola. Intendendo col termine "nana" non solo il fatto che si tratta di una socialdemocrazia infinitamente meno forte e meno radicata di quella rappresentata in altre epoche dai partiti di origine stalinista (in Italia il Pci) o di derivazione socialista, ma alludendo anche a limiti di sviluppo ineliminabili per un partito socialdemocratico nell'attuale epoca del capitalismo in crisi. Tutte le diverse socialdemocrazie hanno prosperato storicamente nelle fasi di ascesa del capitalismo, quando la borghesia aveva la possibilità di ridistribuire le briciole della propria tavola. Da alcuni anni - e oggi la cosa è ancora più evidente, col precipitare della crisi - non solo la borghesia non ha briciole da far cadere ma ha necessità di riprendersi anche quelle lasciate precedentemente. E' questo che determina, in prima istanza, i limiti strutturali di tutti i partiti riformisti. A questo limite si aggiungono poi elementi congiunturali: nel caso di Rifondazione, l'esplosione del partito avvenuta negli ultimi anni, con la impressionante sequenza di scissioni: la nostra (che fu la prima, nel 2006), quella del gruppo di Ferrando, poi Sinistra Critica, quindi la rottura a metà del partito con l'uscita dei vendoliani (e la perdita del dirigente che aveva incarnato per anni Rifondazione: Bertinotti). Ma l'esplosione di Rifondazione è stata appunto l'effetto della crisi storica che vivono le socialdemocrazie di ogni tipo e ad ogni latitudine, non la causa dell'attuale stato di crisi di quel partito.
La socialdemocrazia, per sua natura, è stretta tra due poli contrapposti. Da una parte deve (per soddisfare gli appetiti personali della burocrazia dirigente) trovare accordi con la borghesia, sostenendo i suoi governi e frenando la lotta di classe che metterebbe a rischio quei governi e quegli accordi; dall'altra, per poter svolgere questo ruolo ed essere assunta in servizio dalla borghesia, la burocrazia socialdemocratica deve saper esercitare una qualche influenza sui lavoratori. E' questa contraddizione permanente a spiegare perché non sempre i riformisti si limitano a mostrare la loro vera faccia borghese ma devono talvolta anche impegnarsi nella lotta o accodarvisi. La lotta è funzionale, nel loro progetto, a trattenere la forza operaia, a farla sfogare e a sfruttarne la potenza per presentarsi al tavolo dei padroni con qualcosa da vendere. "Noi dominiamo quella forza che potrebbe rovesciarvi come un fuscello" dicono i dirigenti riformisti alla borghesia: "se ci date poltrone ministeriali, parlamentari, nelle amministrazioni, ecc., vi garantiremo la passività delle masse."
Si tratta di un meccanismo, quello che qui abbiamo schematicamente riassunto, che funziona fin dal sorgere del riformismo e cioè della burocrazia nel movimento operaio. Il riformismo, cioè l'idea di una riforma del capitalismo, da realizzare senza varcarne le colonne d'Ercole o assicurando (a parole) di volerlo "superare" gradualmente e all'interno delle sue istituzioni, è nato contestualmente alla nascita del movimento operaio e alla necessità della borghesia di corromperne dei settori, di comprarne dei dirigenti, di spezzarne la forza assoldando quelli che Lenin efficacemente chiamava "agenti della borghesia nel movimento operaio". Cioè i Blanc, i Bernstein, i Kautsky, i Kerensky, i Togliatti, i Berlinguer, gli Occhetto dei tempi d'oro del riformismo. Agenti sostituiti oggi, nei giorni del declino inesorabile della socialdemocrazia, dai tardi epigoni: i Vendola, i Ferrero, i Landini, i Cremaschi, ecc.
Le considerazioni sopra svolte possono aiutare a capire il comportamento di Ferrero e Vendola di fronte al governo Monti.
Sel, che vanta una forza militante assai limitata (per oggi) ma ha dalla sua il rapporto con i vertici Fiom (Landini) e soprattutto è data nei sondaggi poco sotto le due cifre, aspirando a un ruolo di prima fila nel dopo-Monti deve muoversi con prudenza. Deve rispettare i richiami e le minacce della borghesia (vedi quelle esplicitate sulla Stampa) (1): se volete partecipare al prossimo giro di governo dovete fare i bravi con Monti. Ecco perché Vendola critica Monti (altrimenti perderebbe ogni rapporto con la base elettorale di Sel) ma non si pone certo sul terreno dell'opposizione a questo governo.
Rifondazione, ridotta ai numeri che dicevamo prima e che elettoralmente è data intorno all'1%, aspirando a un ruolo di comparsa per il dopo-Monti (l'obiettivo di Ferrero, Grassi e del gruppo dirigente che ha stravinto il congresso, con l'82%, è essenzialmente riguadagnare qualche posto in parlamento con un accordo col Pd e l'impegno a sostenere dall'esterno il futuro governo) può dire qualcosa in più su Monti ma senza comunque impegnarsi concretamente nella costruzione di una reale opposizione al governo oggi esistente e alle forze sociali e politiche che lo sostengono. Di qui i continui richiami in chiave grottescamente sciovinista di Ferrero: contro il governo che avrebbe "ceduto sovranità alla Germania", contro i complotti orditi in terra straniera, ecc. Il gruppo dirigente di Rifondazione si rende conto di non poter mantenere in vita il partito senza mimare una opposizione a Monti, al contempo sa di non poter fare sul serio pena la perdita di ogni possibilità di accordo col Pd per il dopo-Monti. Ecco allora che invece di indicare in questo governo l'artefice in primo luogo della volontà dei banchieri e della borghesia italiana (certo non slegati dalle esigenze, peraltro molteplici e contraddittorie, della borghesia europea), si indica un nemico tedesco. L'opposizione non è così alla borghesia italiana di cui Monti è espressione ma... alla perfida Germania. Si cerca in questo modo di non scontrarsi con l'imperialismo italiano e il Pd (accusato al più di stare commettendo "errori") in modo da poter domani, con quello stesso imperialismo e col Pd, stringere un accordo di governo o di sotto-governo (visto che stavolta difficilmente, data la scarsa dote elettorale, Rifondazione avrà ministri).
Questo almeno è il sogno di Ferrero, riassunto nel nocciolo vero delle tesi congressuali di maggioranza, e cioè in quella "alleanza democratica" col Pd che veniva giustificata fino a qualche settimana fa con l'esigenza di "cacciare Berlusconi" e che verrà giustificata domani con l'esigenza di aprire una "stagione nuova" dopo il massacro di Monti (compiuto insieme da Pd e Berlusconi). Resta da vedere se industriali e banchieri vorranno avvalersi ancora dei servigi di Ferrero o se preferiranno (anche sollecitati da Vendola) usare come mordacchia per le lotte la ben più consistente Sel (che vanta anche un rapporto fondamentale con la Fiom di Landini).
In questa situazione Ferrero è costretto (ecco che ritorniamo alla contraddizione storica della socialdemocrazia) da una parte a mostrare la propria immutata convinzione governista: il congresso si è fatto a Napoli per celebrare ed esibire la presenza di Rifondazione al governo di quella città con il sindaco De Magistris, demagogo al servizio di banchieri e industriali; dall'altra parte, Ferrero deve "dire qualcosa di sinistra" e quindi tuona contro Monti ben più di Vendola. I tuoni saranno accompagnati prevedibilmente da qualche lampo: tanto più a fronte della manovra pesantissima di Monti, e tutto si concluderà con qualche innocuo corteo e magari con i promessi "Stati generali della sinistra", "patti di consultazione" e altre formule simili che paiono essere state raccolte con soddisfazione dai vari Turigliatto e Ferrando, accorsi al congresso del Prc in rappresentanza dei due rispettivi gruppi centristi (Sc e Pcl), nella speranza di godere di un centesimo della visibilità mediatica (peraltro già infinitesima) di Rifondazione.
L'attacco brutale di Monti per conto di industriali e banchieri italiani, col sostegno di fatto di tutti i partiti borghesi, e con la critica "costruttiva" (e al più qualche pugno battuto, qualche ora di sciopericchio rituale) di tutte le burocrazie sindacali (grandi e piccole) e di tutte le socialdemocrazie governiste (grandi e piccole), richiama l'urgenza di formare una opposizione di classe e, per questo, di costruire quel partito comunista rivoluzionario che ancora non c'è.
Accontentarsi di fare una leale opposizione a Ferrero, come hanno fatto i presentatori della mozione di Falcemartello ("Per il partito di classe"), e persino definire una "clamorosa avanzata" (così hanno scritto) l'aver guadagnato il 13% nel congresso di un partito ormai distrutto, significa eludere le reali esigenze di lotta del movimento operaio. Il problema non è infatti guadagnare la direzione di qualche circolo di un partito allo sbando o usare la crisi di Rifondazione per reclutare qualche militante qui e là al proprio gruppo ma piuttosto costruire un'altra direzione del movimento operaio, su basi rivoluzionarie.
Tutta la impostazione su cui da anni si costruisce l'area di Falcemartello, attuale sinistra di Rifondazione, definita da alcuni giornali "trotskista", è completamente sbagliata. Non solo perché sbagliate e ben poco "trotskiste" sono diverse delle posizioni fondamentali sostenute da questo gruppo (v. appendice a questo articolo): prospettiva strategica di "governo delle sinistre"; filo-chavismo e rivendicazione del Psuv venezuelano; rifiuto della costruzione della Quarta Internazionale. Non solo perché sbagliate sono le metodologie utilizzate: concezione anti-leninista del fronte unico come strategia; codismo nei sindacati (a partire dalla Fiom); entrismo profondo e illimitato nei partiti riformisti (e quindi rinuncia alla costruzione di organizzazioni indipendenti dei comunisti). Non solo per tutto questo ma perché strategia e tattica non leninista portano Falcemartello, nei fatti, a legittimare da sinistra lo sporco gioco di Ferrero e della burocrazia di Rifondazione: spesso dando un contributo militante quotidiano indispensabile a tenere in piedi alcune delle poche strutture rimaste in quel partito.
Di ben altro c'è invece bisogno. C'è bisogno di organizzare contro Monti una reale e unitaria mobilitazione di massa; c'è bisogno di fare una battaglia nei sindacati (dalla Cgil alla Fiom, fino al frammentato sindacalismo di base) e nei comitati di lotta, per uno sciopero generale che paralizzi il Paese e sbarri la via a Monti e alla borghesia italiana (altro che organizzare i presidi sotto l'ambasciata tedesca in nome della "indipendenza" dell'Italia, cioè dell'imperialismo di casa propria).
Per fare tutto questo è indispensabile avanzare nella costruzione di un reale partito comunista, cioè rivoluzionario, con influenza di massa. Un compito, ripetiamo qui quanto abbiamo scritto tante altre volte, in cui come Pdac siamo impegnati ma che non abbiamo la pretesa di assolvere da soli. Un compito che non riguarda certo solo noi ma tutti i lavoratori e i giovani che vogliono realmente rovesciare il capitalismo.
Note
(1) Il 22 novembre la Stampa (giornale di casa Fiat) ha dedicato a Sel un editoriale di Gramellini: "Il ritorno dello scontro ideologico" e un'intera pagina: "Vendola barricadero imbarazza il Pd". In entrambi gli articoli si intimava a Vendola, senza tanti giri di parole, di non eccedere nella polemica contro Monti, pena l'esclusione di Sel dalla futura alleanza di governo. Pochi giorni dopo Vendola ha indirettamente risposto correggendo il tiro e precisando (v. intervista a Repubblica, 27 novembre) che: rispetto a Monti "quella di Sel è un'interlocuzione attenta"; "Non confido nella sventura di Monti"; passato Monti, il modello resta quello della nota "foto di Vasto", cioè la foto di gruppo con Bersani, Di Pietro e Vendola.
E' interessante è vedere le conseguenze pratiche immediate delle posizioni teoriche di Falcemartello (FM) che abbiamo citato nell'ultimo capitolo di questo articolo. Un buon esempio ci viene dalla posizione (espressa nel cap. 16 delle tesi dell'area diretta da Bellotti e Giardiello) sulle giunte. FM ritiene che se da una parte sarebbe necessario a Milano "costruire una opposizione efficace e radicata" a Pisapia, per quanto riguarda l'amministrazione di Napoli le cose vadano poste diversamente. De Magistris (leggiamo nelle tesi) sarebbe "un outsider che al momento della sua elezione non aveva schierati dietro di sé i poteri forti del territorio campano". Questo determinerebbe una contraddizione: De Magistris potrebbe, secondo Bellotti e Giardiello, "essere spinto" dalla dinamica dei fatti ad assumere posizioni radicali oppure, all'opposto, cadere preda dei poteri forti. Per questo secondo FM a Napoli Rifondazione non deve costruire l'opposizione di classe alla giunta (borghese, aggiungiamo noi) ma sfruttare "una opportunità" e "combattere una battaglia egemonica anche a partire dall'attuale collocazione in maggioranza". Rifondazione sarebbe "in una posizione di obiettivo vantaggio, quale unico partito di sinistra all'interno della coalizione di De Magistris" dunque l'importante è che sappia costruire una politica che "non entri in contrasto con i nostri referenti sociali".
Saremmo di fronte insomma, secondo Falcemartello, a un governo (una giunta) che non è né operaio né borghese ma un ibrido che se influenzato accortamente dai comunisti potrebbe fare politiche che "non entrano in contrasto" con gli interessi dei lavoratori.
A parte l'assurdità (per dei marxisti) di pensare che una delle più grandi città d'Italia possa "sfuggire" alla grande borghesia senza nessun sommovimento sociale e senza che la borghesia muova un dito, bisogna purtroppo far presente che questa teoria su governi o Stati "neutri" non è particolarmente nuova e costituisce anzi la quintessenza del riformismo di ogni epoca. Proprio con questa teoria, secondo Lenin, Kautsky avrebbe cercato di trasformare Marx "in un liberale da dozzina". E proprio per aver sostenuto le stesse posizioni di Falcemartello (anche se, va precisato, con maggiore raffinatezza teorica) Kautsky fu definito "rinnegato del marxismo" da Lenin.
Ma anche volendo ignorare (per non più di un paio di minuti) la teoria marxista, bisognerebbe accorgersi che questa posizione di Falcemartello spalanca la porta proprio a quel riformismo ferreriano che Falcemartello dichiara di voler contrastare in Rifondazione. Infatti, se esistessero governi borghesi condizionabili o governi "neutri" (né operai né borghesi), avrebbe avuto ragione Bertinotti a sostenere che si poteva "condizionare" il primo e il secondo governo Prodi; avrebbe avuto ragione Ferrero a fare il ministro della Solidarietà sociale (sic!) in quel governo imperialista; avrebbe ragione Ferrero a tentare ostinatamente di essere riammesso nel prossimo governo nazionale di centrosinistra che, non abbiamo dubbi, verrà definito (da Ferrero) come un governo "condizionabile".
Falcemartello potrebbe risponderci che i due governi Prodi erano governi palesemente borghesi. Bene, siamo d'accordo. Peccato che il riformismo nella storia non si sia limitato a sostenere governi palesemente borghesi ma abbia sostenuto anche governi borghesi mascherati da "governo delle sinistre" o da "governi neutri" (un po' come sarebbe la giunta De Magistris a Napoli a giudizio di FM). Non serve certo ricordare a Bellotti e Giardiello (che si professano leninisti) come nel 1917 il governo Kerensky non apparisse (almeno a occhi riformisti o centristi) come un governo borghese, vista la sua composizione e il quadro (rivoluzionario) in cui nasceva. Nondimeno Lenin e Trotsky lo considerarono un governo borghese e non pensarono nemmeno per un istante di entrare a farne parte o di sostenerlo o di "condizionarlo" ma svilupparono una opposizione intransigente fino a quando furono in grado di rovesciarlo per sostituirlo con un governo operaio. La stessa storia si è ripetuta con tanti altri governi "di sinistra" o apparentemente "neutri" o "non borghesi": con i fronti popolari degli anni Trenta, ecc.
L'elemento caratterizzante del comunismo di Marx, Lenin e Trotsky (che pure Bellotti e Giardiello sostengono di rivendicare) è ritenere impossibile l'esistenza di Stati o governi "neutri" dal punto di vista di classe: nel capitalismo possono esistere solo governi e giunte borghesi (nei rari casi in cui si costituisse, come sottoprodotto di una lotta di massa, una "Comune" in una singola città, all'interno di uno Stato borghese, diretta dal proletariato, sarebbe immediatamente attaccata dalle forze repressive dello Stato borghese). Di qui l'opposizione a qualsiasi governo (nazionale o locale) nel capitalismo come condizione indispensabile per guadagnare i lavoratori alla lotta per un governo operaio che potrà essere costruito solo dopo il rovesciamento rivoluzionario del capitalismo e dei suoi governi (nazionali o locali). Falcemartello pensa, all'opposto, che si possano sostenere governi "delle sinistre" e pure che esistano governi "neutri" da un punto di vista di classe nei quali i comunisti possano esercitare una influenza evitando che facciano politiche "in contrasto con i nostri referenti sociali". Credere a una cosa simile equivale, in ambito marxista, a credere a Babbo Natale.
Siccome una implacabile legge scoperta da Marx vuole che nella ripetizione la tragedia si trasformi in farsa, Bellotti e Giardiello applicano gli immortali principi del riformismo kautskiano a una giunta, quella di De Magistris, che a differenza dei fronti popolari degli anni Trenta non è neppure il sottoprodotto di lotte rivoluzionarie ma è solo il frutto della crisi del bassolinismo che ha portato alla ribalta un nuovo demagogo della borghesia. Un demagogo che promette ai vasti settori proletari che l'hanno sostenuto (in assenza di una alternativa di classe) di "cambiare Napoli", mentre il primo atto della sua giunta è un programma di "sacrifici" per le masse popolari ("Sacrifici per scuola, cultura e trasporti", per riprendere il titolo del Mattino del 17 novembre scorso). Chi si richiama al comunismo (e ancora di più chi, come Falcemartello, rivendica persino Marx, Lenin, Trotsky e la rivoluzione) dovrebbe collocarsi all'opposizione di De Magistris, non alimentare le illusioni sulla sua condizionabilità.