IV Conferenza dei
Giovani Comunisti di Rifondazione
CHE SENSO HA PER UN GIOVANE
COMUNISTA
RIMANERE NEL PRC DELLA
(ENNESIMA) SVOLTA A DESTRA?
Una lettura critica dei testi
congressuali
di Claudio Mastrogiulio
L’organizzazione giovanile di Rifondazione Comunista
(Prc) terrà la propria conferenza organizzativa tra il 19 ed il 21 febbraio
2010. In una fase in cui il Prc effettua la propria ennesima controsvolta a
destra in occasione delle imminenti elezioni regionali di fine marzo, i Giovani
Comunisti giungono a questo appuntamento presentando due documenti
contrapposti.
Il documento “una generazione di sogni, conflitti e
rivoluzioni”
Il primo documento che analizziamo è quello che ha
raccolto, nelle consultazioni delle singole federazioni locali, oltre il 60% dei
consensi. In questo elaborato è possibile riscontrare tutto il portato tipico
del bertinottismo di cui il Prc, nonostante la dipartita dell’ex presidente
della Camera, è ancora intriso.
Si costruisce un nesso tra l’attuale crisi capitalistica e
una presunta crisi della democrazia, ponendole sullo stesso piano. Non è affatto
così, quella che i sottoscrittori di questo documento chiamano “democrazia”
senza aggettivi per i marxisti (cioè per i comunisti) altro non è che il
comitato d’affari della borghesia capitalistica a livello nazionale ed
internazionale. Non si tratta di una mera questione sintattica, ma della
esplicitazione di una strategia politica ben precisa. La struttura della
democrazia borghese, al contrario, esercita alacremente il proprio compito
precipuo, tentando di imbrigliare nelle pastoie del suo teatrino giornaliero
ogni spiraglio di opposizione sociale radicale. È proprio grazie alle procedure
democratiche di cui i Giovani Comunisti tessono le lodi che migliaia di
lavoratori stanno perdendo i propri posti di lavoro, lo Stato sociale nel nostro
Paese non esiste ormai quasi più, milioni di persone appartenenti a popoli
abitanti terre lontane subiscono quotidianamente l’occupazione imperialistica
dei soldati italiani. Tutto questo fa parte del gioco democratico messo in piedi
dalla borghesia italiana dall’immediato dopoguerra fino ai giorni nostri con la
complicità interessata dei rappresentanti dello stalinismo italiano (vedi Pci di
Togliatti in primis). I nipoti di quella vicenda storico-politica commettono
oggi, nel quadro di una crisi capitalistica senza precedenti, il medesimo
"errore" opportunista: mettere sullo stesso piano di discussione il dato
strutturale economico e quello sovrastrutturale della democrazia (borghese,
diciamo noi). È come se si volesse dire: “se la crisi c’è è perché la democrazia
(questa volta senza aggettivi) non è stata pienamente realizzata; realizziamola
e la crisi passerà”. Così dicendo, altro non si fa che gettare negli occhi dei
lavoratori altro fumo, consistente nell’illusione (inesorabilmente sconfitta
dalla storia) della riformabilità del sistema capitalistico. Al contrario
dovrebbe porsi l’accento sulle incongruenze che per propria natura il
capitalismo determina; mostrando come l’unico tipo di democrazia possibile
all’interno del quadro economico-sociale attuale sia quello che consente ai
padroni di accumulare miliardi di profitti e che costringe i lavoratori a vivere
in condizioni sempre più inaccettabili. In questo senso appaiono coerenti con
l’approccio proprio del Prc "adulto" le affermazioni di euforia verso “la
prospettiva di un modello di sviluppo e di società alternativo intrapreso in
America Latina da Hugo Chavez, Fidel e Raul Castro ed Evo Morales”. La nostra
posizione critica sulle politiche intraprese dai fautori del presunto
“socialismo del XXI secolo” (rimandiamo ai tanti testi pubblicati sul nostro
sito e sul giornale) deriva da episodi concreti, come dimostrato dal fatto che
la polizia venezuelana, nel 2008, ha represso i lavoratori della sanità di
Maracay così come i lavoratori della Sidor e ha caricato a colpi di fucile la
manifestazione dei lavoratori del petrolio nello Stato di Anzoategui. Quanto a
Cuba, occorre realisticamente affermare che nell’isola centroamericana è ormai
stato completamente restaurato il capitalismo. Inizialmente a Cuba si visse un
momento storico straordinario in cui, grazie alla trasformazione radicale delle
fondamenta del sistema economico, vennero facilmente sconfitte vere e proprie
piaghe per i lavoratori cubani, quali la miseria, l’analfabetismo, la mortalità
infantile, le malattie endemiche. Tuttavia, sia per limiti oggettivi che
soggettivi, quel percorso solamente abbozzato agli inizi degli anni Sessanta del
Novecento non ha trovato la sua naturale prosecuzione. Il limite oggettivo fu
dovuto all’infame politica imperialistica dell’embargo (bloqueo) messa in campo
dagli Usa guidati da Kennedy; quello soggettivo si è sostanziato nelle scelte
della dirigenza castrista, sempre attenta a non rompere i fragili equilibri tra
le superpotenze Usa-Urss e dunque mai autenticamente solidale con altre
esperienze rivoluzionarie dell’America Latina (vedi il caso della rivoluzione
sandinista in Nicaragua, in cui Castro, convinto dalla dirigenza sovietica
precedentemente imbeccata dagli statunitensi, chiese ai sandinisti nicaraguensi
di non procedere all’esproprio dei capitalisti e di mantenere la proprietà
privata in Nicaragua).
Sull’analisi delle istituzioni comunitarie si
esplicita il segno sostanzialmente riformista di questa mozione. Infatti la
critica all’Ue consiste nel fatto che diventa sempre più tecnocratica; si fa
portatrice di un’idea autoritaria e repressiva del rapporto tra Stato e popoli;
allude a società chiuse, militarizzate, repressive, persino illiberali sotto il
profilo della costituzione formale. Si tratta di un approccio tutto
formalistico, avente come obiettivo quello di colmare alcune delle lacune del
quadro istituzionale europeo, lungi dal porre in discussione l’intero assetto
economico, politico e militare su cui si regge l’Unione Europea (leggi
smantellamento dello stato sociale, disarticolazione della scuola pubblica e
diritti dei lavoratori, missioni di stampo imperialista, politiche razziste nei
confronti dei lavoratori immigrati).
Sull’analisi del fenomeno mafioso il
documento sconta, così come ogni approccio riformista, un’aberrazione analitica.
Infatti, viene affermato che “oltre al dato economico, esiste una seconda
costante del fenomeno mafioso: il controllo sociale del territorio, reso
possibile dall’assenza o dal malfunzionamento dello Stato sociale in tutti i
suoi aspetti”. Considerazioni del genere mostrano il fianco a conclusioni
dettate da una faciloneria giustizialista, tralasciando il dato fondamentale,
vale a dire l’assoluta identità nel meridione tra lo Stato borghese e la Mafia
oltre che l’intrinseca continuità esistente tra il fenomeno mafioso e la
struttura di una società divisa in classi dominata dall’animalità capitalista.
Il documento di Falcemartello: “lottare,
occupare, resistere”
Il documento presentato dalla corrente
“Falcemartello” risulta, su un piano meramente formale, essere caratterizzato da
una fraseologia maggiormente radicale rispetto all’elaborato precedente. Ma la
politica non è fatta di sole parole, a queste occorre far seguire scelte
concrete. A nostro parere, per i motivi descritti sopra, i compagni di
Falcemartello sbagliano ad incensare le esperienze cubana e venezuelana come
l’orizzonte verso cui guardare per scorgere un sistema socialista alternativo a
quello capitalista. Corretta è invece l’analisi su altri punti: sulla politica
delle alleanze col Pd e l’Idv, sulla Mafia (nella misura in cui se ne riconosce
il connaturale legame con l’economia capitalistica), ecc. A questo punto, però,
ci sia consentito chiedere ai compagni di Falcemartello il motivo che li ha
condotti ad appoggiare al congresso di Chianciano del 2008 la mozione Ferrero,
quella stessa componente che aveva stretto le opportuniste alleanze di governo
con Ds e Margherita nel 2006 e che stringerà, ove verrà accettata come paracarro
di sinistra in coalizioni a guida Pd, accordi col partito di Bersani alle
prossime Regionali. In conclusione, ci viene da chiedere a questi compagni: qual
è il senso della vostra permanenza all’interno del partito se realisticamente
credete nel bilancio critico dettato dall’esperienza del governo Prodi? Non
sarebbe forse più giusto uscire da quel che resta di Rifondazione e sostenere un
processo di aggregazione della sinistra comunista ed anticapitalista con chi ha
avuto il pregio e la lungimiranza politica di effettuare questa scelta prima
dell’harakiri politico della partecipazione al secondo governo Prodi?
Sappiamo bene che la stragrande maggioranza (fanno eccezione
sono alcuni aspiranti burocrati) dei compagni che sottoscriveranno questo
documento così come di quelli che ancora nutrono illusioni, con il documento di
maggioranza, di tenere un po' più a sinistra la barra del gruppo dirigente
ferreriano, sono giovani onesti, dediti realmente e quotidianamente alla causa
di un mondo più giusto libero dalla bestialità del Capitale: ed è per questo
motivo che lanciamo a tutti loro un appello ad abbandonare definitivamente un
partito, Rifondazione, che si dirige, ancora una volta, a gran passi verso le
braccia della borghesia, delle giunte col Pd oggi in tante parti d'Italia e di
un futuro governo dell'alternanza a guida Pd per il post- Berlusconi. A tutti
questi compagni diciamo: discutete e partecipate con noi alla costruzione di
quel partito comunista e rivoluzionario che corrisponde al vostro impegno
militante. Il Prc di Ferrero non c'entra nulla con la vostra voglia di cambiare
il mondo.