La crisi del capitalismo e il circolo vizioso dei prezzi
di Alberto Madoglio
Un paio di settimane fa, in un articolo pubblicato su questo sito, avevamo analizzato come la speculazione finanziaria fosse alla base dell’esplosione dei prezzi delle materie prime. In quel testo parlavamo nello specifico dell’aumento esponenziale del prezzo dei generi alimentari che stava condannando letteralmente alla fame centinaia di milioni di persone in ogni angolo del pianeta. Oggi la situazione si è letteralmente capovolta.
Il petrolio che la scorsa estate valeva 147 dollari il barile, oggi è quotato 50, il platino 800 dollari l’oncia rispetto ai 2276 di marzo, rame e alluminio ai minimi da tre anni, il cotone vale circa 39 dollari la libbra rispetto al massimo di 80 di inizio 2008, il mais meno di 4 dollari la libra rispetto ai 7,65 dell’estate e il frumento 5 dollari dai 12 di febbraio. Persino i diamanti hanno visto crollare del 40% il loro valore in pochi mesi. L’indice Reuters delle materie prime che ha raggiunto nel 2008 il record di 600 punti, oggi è ampiamente sotto i 400. Qual è la causa di tutto ciò?
La violente fluttuazioni dei prezzi delle materie prime
E’ opinione diffusa che il
capitalismo, (il mercato), sia in grado di raggiungere un suo punto di equilibrio,
seppur in maniera talvolta brusca, e che i comunisti accecati dal loro odio verso
questo sistema sociale, siano portati a esprimere giudizi approssimativi e ad
arrivare a conclusioni frettolose.
In realtà noi pensiamo che
quanto sta accadendo in queste settimane non sia il risultato di una presunta
tendenza del capitalismo ad arrivare ad un punto di “equilibrio”: al contrario,
le violente fluttuazioni dei prezzi delle materie prime sono il prodotto della
fase di profonda crisi che il mercato sta attraversando da diverse settimane, e
di cui abbiamo ampiamente parlato in precedenti articoli.
Nel modo di produzione
capitalistico, la riduzione dei prezzi può avvenire quando, ad esempio, i
capitali impiegati in settori poco redditizi vengono trasferiti e investiti in
settori in cui la loro redditività può aumentare. Questo processo, chiamato
perequazione del capitale, fa sì che la concorrenza fra i capitalisti aumenti,
così come la produttività del lavoro, e che tutto ciò determini, in ultima
istanza, una diminuzione dei prezzi(1).
Nel caso specifico nulla di
questo è accaduto. Il crollo dei prezzi a cui stiamo assistendo è un prodotto
della crisi esplosa ultimamente. Banche, assicurazioni, hedge found, fondi pensione ecc., che nei mesi scorsi hanno
speculato massicciamente al rialzo nel mercato delle commodities, da qualche tempo si vedono costrette a liquidare le
ingenti somme che avevano investito per limitare le perdite causate dal crac
della borsa e del credito.
Siccome tutto ciò ha causato
anche un rallentamento generale dell’economia, di conseguenza vi è una forte
diminuzione nella richiesta delle varie materie prime: ad esempio le industrie
automobilistiche vendono meno auto, quindi cala la richiesta di alluminio,
petrolio, rame e mais (che serve per il cosiddetto “carburante verde”, il
bioetanolo).
Siamo entrati in un vero e
proprio circolo vizioso, in cui i ribassi dei prezzi delle materie prime,
semilavorati, prodotti finiti, sembrano non avere fine, in quanto il crollo
dell’uno determina quello degli altri e viceversa.
Gli effetti sui lavoratori
Vari commentatori sulla
stampa borghese vorrebbero convincerci che questa situazione ha aspetti
positivi per i lavoratori in quanto consumatori e fruitori di servizi: ad
esempio si dice che il calo del petrolio ha determinato un risparmio alla pompa
di benzina e sulla bolletta energetica che ognuno di noi deve pagare. E’
ovviamente una rappresentazione falsa e parziale.
In primo luogo, il fatto che
in ogni campo dell’economia siamo in presenza di monopoli determina che le
varie industrie cerchino, quanto più è possibile, di ottenere dei sovra-profitti
anche in una situazione di calo generale dei prezzi: molti prodotti finiti
(benzina, generi alimentari ecc) sono diminuiti meno delle rispettive materie
prime. In secondo luogo, questo calo repentino dei prezzi, sta creando le basi
per quello che molti esperti vedono come un pericolo mortale per l’economia: la
deflazione.
Se un basso livello di
inflazione è auspicato da tutti, la deflazione, cioè una riduzione del prezzo
delle merci, è visto come una vera e propria sciagura. Questo fenomeno (che si
è verificato solo una volta a livello globale, negli anni Trenta del secolo
scorso, e più recentemente, a carattere più ridotto, in Giappone) segnala un
impoverimento generale.
I lavoratori vedono
precipitare il valore delle loro abitazioni e dei loro risparmi, le imprese
subiscono i cali dei loro capitali (in azioni, obbligazioni, cespiti
industriali ecc.). (2)
Questo impoverimento
generale ha come conseguenza il rinvio nel tempo degli acquisti o di nuovi
investimenti, nella speranza che i prezzi, proseguendo la loro discesa,
riducano le perdite. Anche in questo caso si entra in un circolo vizioso da cui
è difficile uscire.
La "trappola della liquidità" e gli esorcismi dei banchieri
Quanto tutto ciò terrorizzi
capitalisti, banchieri ed esperti vari, può essere sintetizzato da un’affermazione
che l’attuale Governatore della Fed, Bernanke, fece nel 2002, quando era solo
un membro del board della banca
centrale Usa: “Contro la deflazione le autorità monetarie devono fare di tutto,
anche lanciare soldi da un elicottero”.
Fosse così semplice! E’
proprio l’esempio della deflazione che colpì l’economia giapponese negli anni Novanta
che ci insegna che questo tipo di cura rischia di allungare, se non peggiorare,
la durata di questa malattia. La scelta fatta dalla Boj di abbassare i tassi ad
un livello prossimo allo zero, legata al calo generale dei prezzi, causò quella
“trappola della liquidità” (3) che farà ricordare gli anni Novanta per il
Giappone come il “decennio perduto”.
Le autorità monetarie stanno
ripetendo oggi lo stesso errore: si prevede che alla fine dell’anno negli Usa
il tasso di sconto sarà azzerato e a livelli simili si dovrebbe arrivare nei Paesi
dell’area dell’euro e in Gran Bretagna.
Il Paese del sol levante
uscì parzialmente da questa impasse
grazie alla ripresa congiunturale che vi fu negli Usa agli inizi del XXI
secolo, al boom dell’economia cinese
sempre nello stesso periodo, ma soprattutto alle scelte fortemente anti-operaie
del Governo Koizumi, che distrusse nei fatti il welfare state in quel Paese, e che pose fine al mito del lavoro a
vita per gli operai e impiegati giapponesi, rendendo possibile la
precarizzazione del lavoro nel Paese (cosa che i proletari italiani conoscono
fin troppo bene).
L'unica ricetta che conoscono i padroni: attaccare salari e pensioni
Posto che, nelle condizioni
attuali, non ci sono economie che possono svolgere il ruolo che Cina e Usa
ebbero per il Giappone, il futuro che si prospetta a milioni di operai è fatto
di un ulteriore attacco a salario, pensioni, stato sociale. Proprio qualche
giorno fa, non casualmente, la signora Marcegaglia è tornata a invocare una
ulteriore (l'ennesima) "riforma" delle pensioni.
La necessità di organizzare
la resistenza dei lavoratori a questa ormai prossima e ineluttabile situazione
diventa ogni giorno sempre più impellente. Strumento indispensabile perché la
crisi del capitalismo possa volgere a favore delle masse sfruttate è che queste
si dotino di una direzione rivoluzionaria nazionale e internazionale.
Questo è il compito
principale che indirizza tutta l’attività della Lega Internazionale dei
Lavoratori, così come delle sue sezioni nazionali, tra cui il Pdac.
Note
1) Per approfondire il tema vedi E. Mandel Trattato marxista di economia, vol. primo, cap. 5, "La perequazione del tasso di profitto nel modo di produzione capitalistico" (pag. 262), "Prezzo di produzione e valore delle merci" (pag. 265), "L’aumento della produttività e dell’intensità del lavoro" (pag. 226) (Massari editore).
2) Due dati a conferma di quanto scritto: ad agosto l’indice dei prezzi delle abitazioni negli Usa (indice Standard & Poor’s/Case Shiller) è sceso del 17,7% su base annua, segnando il ventesimo calo consecutivo. A ottobre i prezzi al consumo hanno fatto registrare un calo dell’1%, il più alto da 60 anni e il primo da 25.
3) In una situazione di inflazione molto bassa, o peggio di deflazione (calo generale dei prezzi), un livello eccessivamente ridotto del tasso di sconto stabilito dalla banca centrale, può avere effetti nefasti. Se è vero che, generalmente, una riduzione del tasso di interesse favorisce l’indebitamento (che risulta meno caro), bisogna pure ricordare che allo stesso tempo si riducono i rendimenti che banche, aziende e altre istituzioni finanziarie riconoscono a chi sottoscrive i prestiti obbligazionari da loro emessi. In tale situazione i risparmiatori non comprano le obbligazioni perché i rendimenti previsti sono nulli. Le imprese non riescono a reperire le risorse necessarie per nuovi investimenti; allo stesso tempo, insieme ai consumatori, non si indebitano (pur essendo questa operazione conveniente), perché in un periodo deflazionistico attendono sempre ulteriori cali dei prezzi. Quindi la liquidità presente nell’economia non è né investita né spesa. Ecco spiegato, sommariamente, come si crea la “trappola della liquidità”.