
Senza addentrarci troppo nei dettagli, prestiamo maggiore attenzione all’analisi del dilagare del fenomeno all’interno di questo sistema economico. Qualche osservatore e commentatore politico ha parlato di “nuova Tangentopoli”, mettendo in rilievo la capillarità e la frequenza con le quali questi fenomeni vengono a conoscenza dell’opinione pubblica. Ma questa definizione presta il fianco ad un’interpretazione errata della vicenda e soprattutto è portatrice di una visione astrattamente scolastica degli avvenimenti. Innanzitutto, detto fuori dai denti, non può parlarsi di “nuova Tangentopoli” perché la cosiddetta “vecchia Tangentopoli” non è evidentemente mai finita. Detto questo, non ci sembra calzante la dicitura semplicemente perché essa porterebbe a credere nella possibilità che, all’interno di questo sistema, possano sussistere momenti storici in cui non si riscontri la presenza di queste pratiche effettivamente odiose.
In un sistema economico in cui gran parte della ricchezza è gestita da pochi è assolutamente improponibile immaginare che queste ricchezze non vengano utilizzate per accrescerne la portata e conseguentemente il potere ad esse connesse. Ecco dunque diventare realtà benefit di ogni genere elargiti da un manipolo di speculatori ad un altrettanto ristretto manipolo di burocrati corrotti.
Il sistema degli appalti italiano ha sempre funzionato in modo tale da garantire i maggiori profitti agli speculatori delle costruzioni, ma anche dei servizi e delle forniture. Nel caso in questione le somme che lo Stato ha elargito al capitale privato hanno rappresentato un esborso molto più elevato di quello che sarebbe stato effettivamente necessario. I padroni ed i loro sodali tentano di giustificare questo sistema di accumulazione privata del profitto decantando presunti standard di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa. È falso, e sono le stesse istituzioni borghesi a fornire i dati che lo attestano: recentemente la Corte dei Conti (istituzione che controlla la gestione del bilancio statale) ha affermato che la corruzione nelle Pubbliche Amministrazioni rappresenta una tassa occulta sulle spalle della collettività pari a circa 60 miliardi di euro. Questa è l’efficienza dei padroni: profitti che vanno ad incrementare le già strapiene casse dei soliti noti (padroni e burocrati al loro servizio) e spese che vengono invece scaricate sui lavoratori (in qualità di contribuenti).
La corruzione, il malaffare non possono essere avversati con spirito giustizialista e moralistico. Non è appellandosi ad un qualche appiglio giuridico o addirittura a presunte “rivoluzioni” a colpi di sentenze giudiziarie (vedi la cosiddetta Tangentopoli) che si scardineranno le fondamenta di questo odioso stato di cose. Occorre acquisire consapevolezza del fatto che tutta questa situazione è incardinata nel quadro del presente sistema economico. È necessario mettere in discussione quelle determinazioni che le inchieste giudiziarie giungono a sindacare solo nel merito (ad esempi, criteri utilizzati per l’assegnazione delle gare d’appalto); affermare che un lavoro pubblico non può essere devoluto alle mani private, perché queste cercheranno evidentemente di procurarsi il massimo del profitto a discapito dell’interesse pubblico. È altrettanto evidente che la critica della corruzione non può fermarsi ad un approccio riguardante il solo sistema degli appalti, conducendo ad una loro presunta nazionalizzazione (nelle mani dello Stato borghese).
È tutto il sistema economico incentrato sulla ricerca del profitto privato che va messo in discussione. Un sistema economico che ha cannibalizzato la politica ponendola indiscriminatamente al proprio assoluto servizio. È ormai sotto gli occhi dei lavoratori la totale falsità che accompagna la presunzione di imparzialità dello Stato e delle sue istituzioni di fronte agli inconciliabili interessi delle classi sociali in campo. Uno Stato che piega le proprie leggi e le proprie azioni amministrative all’interesse particolare di qualche centinaio di imprenditori non è né ingiusto né corrotto, è semplicemente uno Stato che fa gli interessi della grande borghesia.
Sembra quasi che la Storia voglia prendersi beffe di questi miseri e grigi servi dei padroni, ed in particolare di uno dei più agguerriti in campo nell’attuale squadra di governo, il ministro Brunetta. Proprio a lui, il fautore della linea dura contro il presunto assenteismo e la fannulloneria dei lavoratori della Pubblica Amministrazione, saranno fischiate le orecchie nel momento in cui è stato scoperto il cosiddetto sistema gelatinoso di ordinaria corruzione. Ma forse non sarà accaduto assolutamente nulla al ministro ed ai suoi colleghi di governo, privi come sono del senso del pudore.
I comunisti devono porre al centro delle proprie rivendicazioni la lotta contro il malaffare della burocrazia nel quadro maggiormente complessivo della lotta al sistema capitalistico. Un obiettivo che ha come conseguenza la messa in risalto dell’assoluta continuità tra quest’ordine economico-sociale ed il fenomeno sopradetto. I comunisti non possono permettersi di consegnare l’ondata di indignazione che queste vicende determinano nella coscienza dell’opinione pubblica alle velleità giustizialiste di stampo dipietrista o all’ipocrisia interessata del Pd.