Pandemia, recessione, crisi di governo
L’alternativa che serve
di Alberto Madoglio
Una situazione sempre più preoccupante, da tutti i punti di vista. È questa, in estrema sintesi, la situazione in cui si sta imbattendo l’Italia. Per quanto riguarda la pandemia, il disastro che stiamo vivendo è sotto gli occhi di tutti. Milioni di contagiati e oltre ottantamila morti non sono solo il frutto di un evento eccezionale, che per la sua gravità non si vedeva dai tempi dell’epidemia di Spagnola del 1918-1920. Sono il risultato di anni in cui il sistema sanitario pubblico è stato falcidiato in nome dell’austerità e della disciplina di bilancio. Allo stesso tempo, mentre si tagliavano risorse alla sanità pubblica, veniva finanziata quella privata, fonte di enormi profitti per le imprese capitaliste di ogni tipo, tant’è che, per fare un esempio, uno dei maggiori poli sanitari privati, il gruppo San Donato, è in mano alla famiglia Rocca, proprietaria di un colosso mondiale della siderurgia.
Crisi economica e catastrofe sanitaria
L’entità di morti e contagi è anche il frutto di scelte ben precise fatte nel pieno della crisi pandemica, quando il governo, anche in questo caso per assecondare le richieste della borghesia nazionale di non bloccare la produzione di merci (e quindi la possibilità di guadagnare), non ha preso la sola decisione in grado di interrompere, in assenza di cure e vaccini efficaci, la circolazione del virus, e cioè un lockdown generalizzato.
Tuttavia, una serie di blocchi produttivi parziali e l’aggravarsi in qualità e quantità della recessione globale già in corso a causa della pandemia, hanno fatto sì che l’Italia, da decenni uno degli anelli più deboli della catena capitalista mondiale, sia sprofondata in una durissima crisi economica. I dati, seppur non definitivi, sono allarmanti. Per il 2020 il Pil tricolore è previsto in calo di circa il 10%. La produzione industriale dovrebbe contrarsi del 4% (un livello pari a quello della Germania e inferiore rispetto al calo previsto in Francia, anche se questi due Paesi a partire dal terzo trimestre avevano intrapreso una crescita più consistente di quella nostrana).
Non meno drammatici i dati relativi alla disoccupazione. Su questo versante il governo si è fatto vanto di aver varato un blocco dei licenziamenti (a oggi previsto fino al 31 marzo). Ma si è trattato solo di un misero palliativo: il mancato rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato e l’aumento esponenziale di licenziamenti disciplinari, utilizzati dalle aziende per aggirare il presunto blocco governativo, hanno avuto come effetto la perdita per il 2020 di ben 662.000 posti di lavoro. Si consideri che, a quella data, si era solo all’inizio della seconda ondata dei contagi.
Le misure adottate dal governo Pd-M5s hanno avuto, com’era del tutto chiaro nei suoi sviluppi, un evidente carattere di classe a favore della borghesia nazionale. Delle centinaia di miliardi che nei mesi scorsi sono stati stanziati, in forma diretta o indiretta come garanzie statali, solo una minima parte è stata destinata a beneficio dei lavoratori. Certo, si è fatto ricorso a forme di sostegno per salari e stipendi in quantità mai viste in passato, ma del tutto insufficienti per rispondere in maniera adeguata alla gravità della situazione.
Un trattamento simile è stato riservato alla stragrande maggioranza della piccola e piccolissima borghesia che, al pari del proletariato, è stata duramente colpita dagli effetti della crisi. A tal proposito, un recente report della Banca d’Italia, apparso sui giornali il 14 gennaio, indica un drastico calo dei redditi per il 2020, il peggiore degli ultimi venti anni, superiore al calo che si registrò all’epoca del fallimento della banca d’affari statunitense Lehman Brothers nel 2008 e alla crisi del debito pubblico 2010-2011.
Aiuti sì, ma non per tutti
Come ricordato poco sopra, sono state le grandi imprese le maggiori beneficiarie degli stanziamenti previsti dal governo. Innanzitutto, va ricordato che l’estensione del ricorso alle varie forme di cassa integrazione (Covid, straordinaria, ecc.) è stata a carico delle finanze statali ed è stata prevista anche per evitare che il ricorso a licenziamenti di massa potesse innescare un’esplosione sociale difficilmente controllabile.
A partire da maggio 2020 sono state stanziate garanzie da parte dello Stato a favore delle imprese pari a 200 miliardi che sono stati ulteriormente incrementati in seguito. Di questi 200 miliardi solo una minima parte, il 30%, era a favore delle piccole e medie imprese. Di conseguenza, la fetta più grande di questa torta è andata a beneficio dei maggiori gruppi industriali nazionali.
In quelle settimane, ha destato molto scalpore la notizia che tra i primi beneficiari di queste garanzie ci fosse il gruppo Fca (ora Stellantis) della famiglia Elkann-Agnelli. La più importante famiglia della grande borghesia italiana ha chiesto un prestito garantito dallo Stato di 6 miliardi, nelle stesse ore in cui varava un dividendo straordinario per i suoi azionisti della holding che controlla Fca pari a 5 miliardi (poi ridotto, si fa per dire, a poco più di 2) in previsione della fusione tra il gruppo e Peugeot. Holding la cui sede si trova ad Amsterdam, in uno Stato dell’Ue che garantisce un trattamento fiscale di favore e nelle cui casse c’era una liquidità di svariati miliardi di euro. Quando si dice profitti privati e perdite (anche se per il momento potenziali) pubbliche!
Il carattere classista, anti operaio, dell’azione di governo è continuato anche in occasione del varo della manovra di bilancio per il 2021. Sono state previste tutta una serie di detrazioni fiscali e contributive a favore delle imprese, comprese misure volte a favorire le fusioni tra imprese, per creare i cosiddetti «campioni nazionali».
Nella stessa legge di bilancio, mentre si stanziano briciole per il rinnovo del contratto di milioni di lavoratori pubblici, contratto da lungo tempo scaduto, si aumentano del 6% le spese militari che raggiungeranno la considerevole cifra di 24,5 miliardi: un vero e proprio record (fonte: Rivista Italiana di Difesa). Da ultimo, è prevista un’agevolazione fiscale di svariati miliardi per favorire l’acquisto della banca Mps (oggi a maggioranza statale) da parte di Unicredit. Tutte decisioni che contribuiranno a peggiorare le finanze statali e che ben difficilmente riusciranno a facilitare il tanto auspicato superamento della fase economica recessiva.
E questo è il punto che sta preoccupando sempre più le classi dirigenti, nazionali ma non solo. Mesi fa molti contrabbandavano l’idea che il crollo previsto nel 2020 fosse un fenomeno esogeno, esterno, al sistema economico capitalista. Si sosteneva che al calo repentino del Pil sarebbe seguita una corrispondente rapida salita. Era la famigerata «V» del ciclo economico. A sostegno di questa tesi c’era il varo del Next Generation Eu, fondo di finanziamento europeo di cui abbiamo già parlato in un articolo apparso su questo sito lo scorso settembre (“Europa, Recovery Fund, Chi salva chi?”).
Col tempo, però, questi entusiasmi si sono raffreddati. Sempre secondo la Banca d’Italia, nel 2021 il Pil dovrebbe crescere del 3,5%, del 3,8 nel 2022 e del 2,3 nel 2023. In sintesi, si tornerebbe al livello di fine 2019 fra tre anni, mentre si sarebbe ancora sotto il livello del 2009, inizio della Grande Recessione. Tutto questo nello scenario migliore (fonte: Banca d’Italia, Proiezioni macroeconomiche per l’economia italiana, 11 dicembre 2020). È ancora l’istituto di via Nazionale a raffreddare i facili entusiasmi sugli effetti taumaturgici rispetto alla crescita dei fondi europei: in questo caso, a settembre si prevedeva un contributo cumulativo al 2025 tra l’1,5 e il 3% (fonte: audizione del capo servizio struttura economica alla Commissione Bilancio della Camera, 8 settembre 2020).
Le tensioni nel governo: l’alternativa che serve
È in questa situazione di perdurante instabilità del quadro economico che devono essere interpretate le tensioni all’interno della compagine governativa. Il passaggio all’opposizione del manipolo di parlamentari di Renzi pare non aver avuto, nell’immediato, effetti sul governo, che ha ottenuto la fiducia nei due rami del Parlamento. Ciononostante, le previsioni per la maggioranza sono fosche.
È soprattutto il M5s a trovarsi in difficoltà. Salito alla ribalta della scena politica nazionale con un programma demagogico populista che, a sua detta, avrebbe rotto con le politiche del passato, oggi deve affrontare il totale fallimento di questa ipotesi. Non una delle promesse elettorali recenti è stata mantenuta, a riprova di quanto sia velleitario, in sostanza impossibile, modificare il capitalismo a vantaggio dei settori popolari della società, senza abbatterlo.
Più in generale, da oltre un decennio, dall’inizio della crisi del 2009, i partiti, vecchi e nuovi, che sono al governo del Paese, si scontrano con l’incapacità di imprimere una svolta in grado di garantire non solo una ripresa dell’economia, ma anche un minimo miglioramento nelle condizioni di vita del proletariato. Al contrario, in questi dodici anni ogni timido segnale di crescita è stato pagato duramente dai lavoratori, che hanno visto deteriorarsi sempre di più le loro conquiste in termini di salario, stato sociale, diritti sindacali ecc.
Che al momento non si assista a una ripresa delle mobilitazioni su grande scala può sembrare strano e sorprendere. Ma ciò non è dovuto a una presunta riluttanza dei lavoratori alla lotta, come qualche sociologo da strapazzo vorrebbe farci credere. Un ruolo centrale, determinante, nel garantire quest’apparente pace sociale, lo svolgono le grandi burocrazie sindacali, in primo luogo la Cgil. Ne abbiamo avuta ennesima riprova in occasione della recente crisi di governo. Il segretario Landini, anziché fare appello ai lavoratori alla mobilitazione contro governo e padroni di fronte alla gestione criminale della crisi sanitaria ed economica, ha rilasciato una dichiarazione che non lascia spazio a illusioni: ha parlato di «crisi incomprensibile» e di richiamo alla «responsabilità». Invece di approfittare dell’innegabile difficoltà in cui si trovano i partiti di maggioranza, la più grande organizzazione del movimento operaio in Italia si è posta ancora una volta come baluardo, ultima difesa, della stabilità di governo; la stabilità, cioè, degli organi istituzionali appartenenti alle classi egemoni, dalla quale i proletari non hanno nulla da guadagnare.
Infatti, il piatto che governo e padroni si stanno preparando a cucinare sarà indigesto come non mai.
Certo, appelli all’unità e alla solidarietà di classe non mancano. Così come si sprecano le promesse a non lasciare indietro nessuno. In realtà le cose andranno diversamente. Già si cominciano a sentire i primi avvertimenti, i primi richiami a un’azione economica più «efficace», all’impossibilità ignorare gli equilibri di bilancio per ciò che riguarda le finanze statali, al fatto che la crescita esponenziale del debito pubblico, che arriverà a oltre il 150% del Pil, impone scelte dolorose. È notizia di queste ore che la Commissione europea chiederà tra le altre cose un’ennesima riforma delle pensioni come condizione per elargire i fondi del Recovery.
Il refrain è il solito: gli italiani oggi non possono far pagare alle generazioni future il peso di decisioni scellerate. Come da quasi tre decenni sta avvenendo, dall’epoca della prima grande riforma delle pensioni targata Dini del 1995 (governo anche allora sostenuto dal centro sinistra), si vuole far credere che si stia assistendo a uno scontro generazionale, quando la realtà è totalmente diversa.
Oggi come allora lo scontro è di classe, è una lotta tra sfruttati e sfruttatori. Dobbiamo esserne tutti consapevoli e lottare da subito, in maniera risoluta per evitare che, come nel 1995, a farne le spese siano i lavoratori, i giovani, le donne, gli immigrati e tutti coloro che in questo sistema sono considerati solo come strumenti per ottenere profitti da parte di un pugno di borghesi sfruttatori.