di Alberto Madoglio

(Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista)
Dal 31 marzo al 2 aprile si svolgerà a Spoleto il Congresso nazionale di Rifondazione Comunista. E’ un’assise che cade in un momento certamente non ordinario. Entriamo nel decimo anno di crisi dell’economia mondiale, venticinque dalla nascita di quel partito. Ciò induce a riflessioni su un bilancio di questa esperienza politica.
Il fallimento di una politica
Diciamo fin da subito che, al di là dei richiami alla Rivoluzione d'Ottobre sulla tessera 2017 e al di là di una certa retorica "rivoluzionaria" che traspare dai due documenti contrapposti in discussione, Rifondazione non fa nessun bilancio autocritico e non rompe con le fallimentari politiche che l’hanno condotta nel profondo stato di crisi in cui si trova. E questo nonostante lo stato di crisi del partito guidato da Paolo Ferrero.
Ma quello che più balza all’attenzione è che anche con questi numeri, che se reali non sarebbero comunque insignificanti, in realtà il partito non è in grado ad oggi di dotarsi al livello locale, di un minimo di struttura organizzativa. Tantoché nel testo di maggioranza si fornisce come obiettivo per l’immediato quello di avere, per ogni federazione, un tesoriere, un responsabile organizzativo, uno del lavoro di massa e financo un segretario.
Affermare che la presenza di queste figure non è più derogabile, vuol dire che non è stato così fino ad oggi. Ciò segnala la differenza che passa tra un partito che, pur tra mille difficoltà, esiste, e un altro che, al di là dei numeri, in molte sue federazioni rimane solo sulla carta e in tante città ormai non si vede più nemmeno nelle manifestazioni.
Questo quadro, senza dubbio drammatico, riteniamo sia il frutto delle scelte politiche fatte da Rifondazione fin dalle sue origini e ribadite anche negli ultimi anni contribuendo al consolidarsi della situazione che i suoi stessi dirigenti descrivono.
La retorica del "comunismo"
La “rifondazione comunista” non è stata mai un aggiornamento del marxismo sulle proprie basi, non ha mai significato il rivendicare, non solo nelle parole ma nei fatti, la necessità di una rottura rivoluzionaria del sistema capitalistico.
Si è trattata in realtà - almeno nelle intenzioni dei vari gruppi dirigenti che si sono succeduti - di un’operazione in cui il richiamo al comunismo era qualcosa di molto vago, sentimentale, che serviva solamente a occupare lo spazio politico e elettorale che si apriva con lo scioglimento del Pci, e di conseguenza garantire la sopravvivenza a un apparato politico che negli anni ha assunto dimensioni notevoli. Per i militanti e gli elettori si trattava di vivere nella speranza, meglio nell’illusione, che grazie alla combinazione di peso istituzionale e presenza nei movimenti e nel sociale, per usare termini cari ai gruppi dirigenti, si sarebbero potuti ottenere miglioramenti per le classi popolari del Paese.
In realtà non è mai stato così: e lo dimostrano le varie esperienze di partecipazione a governi di centrosinistra, a livello nazionale o locale, che non ricordiamo qui nel dettaglio ma delle quali abbiamo trattato svariate volte sulla nostra stampa e sul nostro sito web. Questo progetto di collaborare con la "borghesia progressista" ha fallito per due secoli e tanto più si dimostra fallimentare nel pieno di una crisi economica profondissima del capitalismo, che rimuove ogni spazio seppur minimo per concessioni e richiama al contrario l'esigenza imperiosa (per la borghesia e i suoi governi) di sferrare politiche di attacco frontale alle masse popolari, di smantellamento dello "stato sociale".
Due documenti ma poche differenze
I due documenti alternativi non offrono nemmeno differenti ipotesi strategiche, tant’è che i sostenitori del testo di minoranza ammettono che avrebbero preferito un documento a tesi emendabile, ma a causa del rifiuto del gruppo dirigente di Ferrero, sono stati costretti a presentare un testo alternativo. Questa premessa chiarisce oltre ogni dubbio quanto sulle scelte di fondo i due raggruppamenti congressuali non siano in realtà alternativi.
Certo in entrambi i documenti è presente una fraseologia di sinistra abbastanza marcata, ma non potrebbe essere diversamente: le politiche anti-operaie particolarmente dure degli ultimi governi, il peggioramento delle condizioni di vita, dei diritti politici e sindacali dei lavoratori, richiedono a Rifondazione - se vuole indicare una ragione per la sua esistenza - l'uso almeno di "frasi rosse". Ma è chiaro che qualche parola da sola fa ben poco, se ad essa non corrispondono le intenzioni reali. E andando a leggere con attenzione i testi si può osservare come ad affermazioni perentorie non corrispondano altrettanto perentorie conclusioni.
Si fa una analisi della enorme concentrazione di ricchezza che si è avuta in questi anni, mentre centinaia di milioni di lavoratori vedevano diminuire il proprio salario e resa sempre più precaria la propria condizione lavorativa. Si afferma correttamente che quella che stiamo vivendo è una crisi dovuta all’abbondanza e non alla miseria (così come lo sono tutte le crisi in epoca imperialista), spiegando che il capitale ha difficoltà a riprodursi: anche se si poi si argomenta questo fatto facendo propria la tesi del "sottoconsumo", cioè di salari troppo bassi per acquistare le merci prodotte; dando cioè peso solo a una delle due facce della crisi, essendo l’altra, quella decisiva, legata alla caduta del saggio di profitto. Poi però si ritorna, specie nel documento di maggioranza (Ferrero), a vagheggiare fantomatiche soluzioni neokeynesiane, come se il loro abbandono dalla metà degli anni Settanta non fosse stato inevitabile, in una società fondata sul profitto.
Il governo greco come stella polare
Si afferma, in entrambi i documenti, che l’Unione Europa non è riformabile, di come l’euro sia lo strumento attraverso il quale la borghesia imperialista europea estrae profitti a danno dei lavoratori e condanna allo stato di semi colonia i Paesi del sud e dell’est Europa, ma dopo questa analisi corretta ci si limita a chiedere l’abolizione del fiscal compact, la ristrutturazione del debito pubblico e la creazione di una Banca Centrale Europea che "risponda ai parlamenti". Seminando così illusioni che le istituzioni, anche quelle presunte democratiche, siano super partes e non funzionali al dominio del capitale. Dell’unica rivendicazione realmente progressista davanti al disastro dell’Europa di Maastricht, cioè quella della lotta per gli Stati socialisti d’Europa e di un conseguente programma politico attraverso il quale concretizzarla, non c’è la minima traccia.
Al contrario si continua a guardare con fiducia (documento di maggioranza) o a criticare timidamente (documento di minoranza), governi come quello di Syriza, che in Grecia è stato lo strumento attraverso il quale la borghesia del vecchio continente ha imposto i suoi diktat al proletariato ellenico.
Si riconoscono ed evidenziano gli squilibri che stanno mettendo in discussione i vecchi rapporti tra le potenze a livello mondiale, affermando (testo di maggioranza) che non esistono campi progressisti né tanto meno socialisti ai quali rifarsi. Ma si liquida, in entrambi i documenti, una situazione di ascesa delle lotte come quella del Brasile (e lo stesso si fa con altre degli ultimi anni) come un golpe ordito dall’occidente ai danni di esperienze di governo “progressiste”.
La Costituzione come limite invalicabile
Con queste premesse dunque l’asse fondamentale di riferimento viene identificato nella Costituzione Repubblicana.
Per gli uni, maggioranza ferreriana, sarebbe addirittura alla base di un programma di transizione verso il socialismo. Per gli altri, un compromesso tra capitale e lavoro ma che presenterebbe punti di rottura e incompatibilità col sistema capitalistico. Il fatto che la Costituzione fu lo strumento attraverso il quale si favorì e si sancì la fine del periodo rivoluzionario del 1943/48 e che per settant’anni ha consentito alla borghesia di prosperare per i presentatori dei due documenti resta un fatto ignoto.
Un riformismo senza riforme
Potremmo fare decine di esempi che comprovano quanto la retorica rivoluzionaria e barricadera di alcune frasi scada poi in un riformismo senza riforme che permea fino nel profondo i due documenti. Ma più dei documenti, delle parole, delle polemiche congressuali, crediamo sia l’azione concreta, quotidiana che confermi quanto i gruppi dirigenti di Rifondazione non vogliano fare realmente un serio bilancio del proprio passato. Il continuare a essere presente, seppur in numero ridotto rispetto al passato, in giunte locali a fianco dei partiti borghesi, prova che l’illusione che il capitalismo possa essere governato nell’interesse dei lavoratori rimane il punto centrale dell’azione di quel partito. Così l'evitare di affermare la propria indisponibilità a ogni futura alleanza elettorale "progressista" è il viatico a un alleanza col Pd o con Dp di Bersani. Così non partecipare al processo di ricomposizione sindacale su basi genuinamente anti concertative, in cui spicca l'azione del Fronte di Lotta No Austerity, prova che gli appelli all’unità tra i lavoratori sono mere petizioni di principio. Il voler costruire un partito di tesserati e non di militanti, non dotarsi di un chiaro programma rivoluzionario sono la dimostrazione che i richiami alla attualità della Rivoluzione d’Ottobre non sono sinceri, ma utili solo a fare un’operazione nostalgia per fini elettorali.