1968-69: la Fiat avamposto delle lotte operaie
di Fabiana Stefanoni
Nei giorni in cui si parla degli scioperi degli operai delle fabbriche automobilistiche statunitensi, riproponiamo qui un articolo - pubblicato alcuni anni fa sulla nostra rivista teorica Trotskismo oggi - relativo alle lotte operaie nel settore automobilistico avvenute in Italia alla fine degli anni Sessanta.
La Fiat di Mirafiori a Torino agli inizi del 1968 veniva definita il «cimitero delle lotte» (1): dopo gli scontri di piazza Statuto nel 1962 - che avevano visto protagonisti numerosi operai di Mirafiori - il clima alla Fiat non era certo combattivo. Anche gli scioperi del 1966 per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici avevano avuto un andamento altalenante: dopo la buona riuscita dei primi scioperi, successivamente la partecipazione risultò piuttosto scarsa. Mirafiori in quegli anni occupava più di 50 mila lavoratori con una produzione di 5 mila vetture al giorno: la classe operaia in Fiat aveva un peso notevole nella vertenza contrattuale. Dopo il 1966, a Mirafiori per due anni tutto tace: Agnelli sostituisce Valletta alla guida della Fiat. E, dopo la crisi congiunturale del 1964, la produzione è in continuo aumento (e anche i profitti del padrone).
1967-68: le cose iniziano a cambiare
Nel 1968 a Mirafiori sono quattro i sindacati rappresentati in quella che allora si chiamava «commissione interna» (l’organismo di rappresentanza sindacale all’interno dell’azienda eletto dai lavoratori): Uilm, Sida, Fiom e Fim. Uilm e Sida (quest’ultimo un sindacato filoaziendale nato da una scissione della Cisl e guidato direttamente dal padrone) ottengono la maggioranza dei consensi. Fiom e Fim (quest’ultima allora su posizioni rivendicative relativamente più radicali rispetto ad oggi) rappresentano poco più del 2% dei lavoratori. Ma il risultato elettorale non impedisce alle lotte di ripartire. In Fiat i ritmi di lavoro sono molto pesanti, soprattutto alle carrozzerie e alle linee di montaggio, e i capi non lasciano tregua agli operai: cominciano a verificarsi episodi di sabotaggio all’interno della fabbrica e alcuni scontri con i capisquadra.
Nel frattempo, già nel 1967 erano esplose, in Italia e nel mondo, le lotte studentesche. A Torino gli studenti, soprattutto quelli vicini a gruppi politici della cosiddetta estrema sinistra, sono spesso davanti ai cancelli della Fiat. In Italia, agli inizi del 1967 erano in occupazione o in mobilitazione la Sapienza a Roma, l’università di Pisa e quella di Trento. Nel corso dell’autunno, l’anno accademico si apre con una mobilitazione generale in decine di atenei: anche l’università di Torino è occupata in novembre. Ed è proprio a Torino che si verificano gli scontri più duri con la polizia, con ferimenti, arresti e provvedimenti disciplinari accademici (che da quel momento saranno all’ordine del giorno). Alcuni leader del movimento studentesco torinese – per lo più di famiglie della piccola e media borghesia – provengono da gruppi politici torinesi a sinistra del Pci, in particolare i Gruppi comunisti rivoluzionari (la sezione italiana del Segretariato unificato della Quarta Internazionale, che, come vedremo, entrerà in crisi proprio nel momento dell’esplosione delle lotte studentesche e operaie) e il
gruppo di Quaderni rossi di Raniero Panzieri (rappresentante di un’area dissidente e «operaista» all’interno del Psi).
Il risveglio delle lotte operaie: la rivolta di Valdagno
Nei primi mesi del 1968 anche la Fiat a Torino comincia a risvegliarsi. Nel primo semestre dell’anno l’azienda, a causa degli scioperi, perde 1.400.000 ore di lavoro: un balzo notevole rispetto all’anno precedente, quando, nello stesso arco di tempo, a causa delle agitazioni le ore di lavoro perse erano state solo 10 mila.
Ma il Sessantotto operaio non è solo Torino. Anche in altre città d’Italia la rabbia operaia si fa sentire con nuova forza. A Valdagno, nel vicentino, feudo industriale (industria laniera) dei conti Marzotto, nell’aprile del 1968 esplode una rivolta operaia. Più di cento operaie e operai abbattono la statua del fondatore della dinastia cittadina che domina la piazza principale. Fino a pochi mesi prima quella di Valdagno veniva definita dalla stampa una delle comunità operaie più mansuete, governate da un solido patriarcato» (2). L’azienda nei mesi precedenti ha aumentato il ritmo delle macchine e questo implica per gli operai un lavoro doppio. Le buste paga, parallelamente, a causa dell’eliminazione del cottimo, si alleggeriscono, con decurtazioni fino a 15 mila lire su un salario mensile di 55 mila. Per questo, a partire da marzo si susseguono gli scioperi (proclamati unitariamente da Cisl, Uil e Cgil).
Durante la vertenza, a inizio aprile gli operai devastano l’ufficio dei cronotecnici che misurano e valutano i ritmi di lavoro: un modo per protestare anche simbolicamente contro l’aumento dei ritmi. Si arriva infine al 19 aprile: è proclamato uno sciopero di 24 ore e fin dalle 5 del mattino è ingente il dispiegamento di carabinieri. Gli operai che escono dal turno di notte si fermano e ben presto arrivano gli altri scioperanti per organizzare i picchetti davanti ai cancelli. Da subito, i carabinieri tentano di aprire un varco per permettere il passaggio di impiegati e crumiri: gli operai si oppongono e si susseguono gli scontri. Nel frattempo arriva un corteo di studenti medi (più alcuni universitari di Trento) che porta solidarietà agli operai e si unisce a loro nella resistenza. Gli operai hanno la meglio e i carabinieri sono costretti ad arretrare, nonostante i rinforzi da parte della polizia. Nel pomeriggio la lotta riprende con rinnovata forza: viene organizzato un corteo cittadino che vede la presenza di migliaia di lavoratori e studenti. È qui che gli operai mettono un cappio al collo alla statua dell’antenato dei Marzotto nella piazza del Paese e la rovesciano. Non solo: viene devastata la locanda di proprietà degli industriali e le ville dei ricchi borghesi sono prese d’assalto. Nei giorni successivi, i parenti del Conte finito a faccia all’ingiù portano dei fiori per riparare al torto subito: dopo poche ore quei fiori sono ridotti a un cumulo di cenere. La repressione sarà violenta, con 47 arresti. Ma è così che da una piccola cittadina dell’entroterra veneto, feudo della Cisl, dove gli iscritti alla Cgil si contavano sulle dita delle mani, prende il via un nuovo ciclo di lotte operaie.
Dalla Pirelli alle lotte studentesche
Certamente, anche negli anni precedenti, lotte operaie radicali non erano mancate: basta ricordare, a titolo di esempio, gli scontri tra operai e polizia all’Alfa Romeo di Milano nel 1966 e la nascita del combattivo «comitato di sciopero» alla Siemens, sempre nel milanese. Ma è nel 1968 che le esperienze di conflittualità operaia danno vita a un’ondata contagiosa, che sfocerà nell’autunno caldo del 1969.
Nella primavera del 1968 alla Pirelli Bicocca di Milano, dopo i grandi scioperi sulle «gabbie salariali» (3) e sulle pensioni (4), si costituiscono i primi Cub (Comitati unitari di base), che si estenderanno successivamente in altre fabbriche e in altre città, arrivando al massimo della loro estensione nell’estate-autunno del 1969: Milano, Pavia, Taranto, Bologna, Porto Marghera. Alla Pirelli Bicocca il primo Cub nasce dopo 72 ore di sciopero che si concludono con la firma di un contratto aziendale al ribasso siglato unitariamente da Cgil, Cisl e Uil (5). Contro la firma si schierano un gruppo di operai (del Pci, della Cgil, ma anche della Cisl) che comincia a riunirsi fuori dalla fabbrica: alle riunioni partecipano anche studenti, qualche tecnico e qualche impiegato. I Cub avranno vita breve, ma sono un fatto importante in quanto momento di coordinamento delle lotte indipendente dalle burocrazie sindacali, nella consapevolezza della necessità dell’unità d’azione con gli studenti (6). Esperienze di lotta comune tra operai e studenti si erano già verificate in altre occasioni, sempre nel milanese. Alla Innocenti e alla Marelli la presenza degli studenti ai picchetti operai in occasione degli scioperi aveva contribuito a rafforzare la lotta, ma solo con i Cub si forma una struttura di coordinamento continuativa.
Nel frattempo, non si arresta l’ondata di lotte studentesche in Italia come nel resto d’Europa. Il primo marzo del 1968 a Roma è il giorno della «battaglia di Valle Giulia». Lettere è occupata e il consiglio di facoltà il 28 febbraio accetta di fare gli esami nelle aule occupate ma il rettore il giorno stesso chiama la polizia e caccia gli studenti. Gli studenti il 1° marzo decidono di occupare di nuovo: in migliaia si danno appuntamento a piazza di Spagna e poi di fronte alla facoltà di architettura. Fin da subito ci sono scontri violenti con i poliziotti (che, con buona pace di Pasolini, nella storia d’Italia finora hanno prestato fede al loro ruolo di servitori dello Stato borghese e dei suoi apparati, spesso in alleanza con i gruppi neofascisti), scontri che durano per più di due ore. Gli studenti si armano (con rami, pietre, bastoni) e rispondono colpo su colpo. Saranno diversi i gipponi della polizia incendiati così come i manifestanti fermati.
Dopo Valle Giulia prende il via una nuova ondata di occupazioni, delle università e delle scuole superiori. A Milano, nello stesso mese di marzo, dopo lo sgombero violento dell’università occupata gli studenti si radunano alla Cattolica: in 5.000 saranno accerchiati e malmenati dalla polizia in quello che è rimasto noto come «massacro di Largo Gemelli». Sempre a Milano, nel giugno del Sessantotto una manifestazione studentesca stringe d’assedio la sede del Corriere della Sera, accusato di dare notizie distorte sulle lotte in università: anche in questo caso numerosi saranno gli scontri e gli arresti. I manifestanti non riescono a impedire l’uscita del quotidiano ma ne ritardano di parecchie ore l’invio.
Il Maggio francese darà nuova linfa alla protesta studentesca, che in Italia riprenderà con rinnovata forza in autunno. Le manifestazioni studentesche, soprattutto degli studenti medi, vedono scendere in piazza decine di migliaia di giovanissimi. Nel novembre del 1968 a Milano gli universitari occupano l’ex Hotel Commercio, a pochi passi dal Duomo: l’occupazione nel cuore della «Milano bene» resisterà fino al luglio del 1969. Il Sessantotto si chiude con gli «scontri della Bussola»: davanti al locale dei vip in Versilia una contestazione pacifica di studenti, lavoratori, attivisti politici viene repressa dalla polizia. Durante gli scontri, uno studente, Soriano Ceccanti, è ferito alla gola da un colpo di arma da fuoco.
Un Sessantotto di lotte anche in Fiat
Come dicevamo, il Sessantotto segna anche un risveglio delle lotte alla Fiat (7).
Dopo la massiccia partecipazione allo sciopero generale a inizio marzo, Fiom, Fim, Uilm e Sida decidono di aprire la vertenza per il rinnovo contrattuale. La piattaforma rivendicativa ruota attorno a pochi obiettivi comuni: riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, aumenti salariali per tutti, indennità per alcuni reparti, alleggerimento dei ritmi produttivi. Il 30 marzo viene fissato il primo sciopero che ottiene a Mirafiori l’adesione dell’80% dei lavoratori. Vengono organizzati picchetti, con la partecipazione di esponenti del movimento studentesco e rappresentanti di gruppi della sinistra. Fin dal primo giorno, si verificano scontri con la polizia davanti ai cancelli, sia a Mirafiori che al Lingotto. Il 6 aprile c’è un nuovo sciopero alla Fiat ed è di nuovo un successo. La polizia attacca con ancora maggior violenza usando i lacrimogeni.
L’azienda fa muro e si rifiuta di aprire la trattativa, per questo viene proclamato dai sindacati un nuovo sciopero l’11 aprile. Anche questa volta l’adesione è altissima. La polizia dalle 6 del mattino tenta di impedire i picchetti, inutilmente. Si moltiplicano le provocazioni dei poliziotti contro i manifestanti: ha inizio uno scontro verbale. Quando viene lanciato un uovo contro un graduato, parte una violenta carica (per un uovo!). Per tutta la giornata si susseguono cariche violente. Nel tardo pomeriggio viene convocata un’assemblea a Palazzo Campana, con presenza prevalente di studenti (circa un migliaio) ma con la partecipazione anche di centinaia di operai. La polizia non molla l’osso: circonda l’edificio e minaccia violenze fisiche se gli occupanti non sgomberano il palazzo. Dopo una trattativa, la polizia si ritira. Verranno arrestati due studenti, tra cui uno dei leader del movimento, Guido Viale (poi dirigente di Lotta continua).
Nonostante gli operai dimostrino con fermezza la volontà di proseguire gli scioperi (esplicitandolo anche in un referendum-questionario distribuito in fabbrica dalle organizzazioni sindacali), i sindacati, di fronte alla disponibilità dell’azienda ad aprire la trattativa, sospendono gli scioperi già programmati. Alla fine firmano un accordo che prevede la riduzione dell’orario di lavoro da 48 a 44 ore settimanale (mentre gli operai chiedevano 40 ore), un misero aumento in busta paga, qualche indennità di linea, un vago impegno dell’azienda a controllare i ritmi produttivi.
L’insoddisfazione degli operai per l’accordo è palpabile: molti protestano, ma il dissenso, per ora, non si traduce in azione. I giochi si riaprono a fine anno. In ottobre, nello stabilimento torinese della Lancia, durante una lotta per il salario si costruisce un comitato di sciopero che gestisce direttamente le trattative con l’azienda e decide gli scioperi interni, con larga autonomia rispetto alle burocrazie sindacali (le quali tuttavia, con la complicità del prefetto – che si fa garante di un piccolo aumento salariale – riescono a chiudere la trattativa scavalcando la volontà operaia).
A novembre, dopo mesi di apparente torpore, si risveglia anche la Fiat. Il 14 novembre, durante uno sciopero generale proclamato dalle tre confederazioni sindacali sulle pensioni (8), a Mirafiori si verificano, di nuovo, pesanti scontri tra operai e poliziotti. Due settimane dopo, il 2 dicembre, in occasione di uno sciopero breve proclamato dopo i fatti di Avola (9), l’adesione in Fiat è totale. Pochi giorni dopo, il 12 dicembre, si svolgono le elezioni per il rinnovo delle commissioni interne alla Fiat. Dopo più di 13 anni, la Fiom ottiene la maggioranza dei voti superando, seppur di poco, la Uilm. L’anno si chiude a Mirafiori con 1.890.000 ore di sciopero.
1969: un inizio carico di tensioni
Il 1969 si apre carico di tensioni nello scontro di classe, e la Fiat non fa eccezione. Negli stabilimenti Fiat il turn-over è molto alto: i nuovi assunti, in gran parte provenienti dal Sud del Paese, sono giovani o giovanissimi. I ritmi di lavoro in Fiat sono pesantissimi, in fabbrica vige una disciplina militare e i salari non permettono di vivere dignitosamente in una città come Torino. La Fiat nei due anni precedenti ha cominciato a decentrare i suoi stabilimenti (da poco è in funzione quello di Rivalta, a 20 km da Torino). Ciò significa, per migliaia di operai che abitano a Torino, impiegare due ore per arrivare sul luogo di lavoro.
Non solo: gli affitti sono altissimi, le famiglie degli operai sono costrette a vivere in ambienti disumani. Come sarà costretto ad ammettere anche un funzionario al soldo dell’azienda incaricato di gestire i rapporti con la commissione interna «il pur massiccio reclutamento di manodopera avvenuto negli ultimi tempi non controbilanciava più l’accelerazione dei ritmi di produzione impressa dalla direzione dell’azienda» (10). E non c’è nemmeno la mensa in fabbrica. Da un questionario distribuito agli operai da alcuni senatori del Pci agli inizi del 1969, emerge il clima che si vive in Fiat in quei mesi. Gli operai denunciano un clima repressivo, con intimidazioni continue: i capi vengono definiti dagli operai «guardie carcerarie» che si permettono di perquisire gli operai. «Sappiamo solo che la Fiat è una galera», sintetizza efficacemente uno degli operai (11).
Il 5 e il 12 febbraio due scioperi, proclamati uno in seguito all’altro, conseguono un buon risultato anche in Fiat: il primo è lo sciopero generale per le pensioni, il secondo è lo sciopero dei lavoratori dell’industria contro le gabbie salariali. Ma, a febbraio, tutto rientra nelle classiche logiche di contrattazione tra burocrazie, governo e padronato. Che qualcosa in Fiat cominci radicalmente a cambiare è evidente a partire dal 30 marzo: uno sciopero, che parte dall’interno della fabbrica e che coglie di sorpresa gli stessi sindacati, paralizza gli stabilimenti. Nel mondo una nuova ondata di proteste di massa (in particolare contro la guerra in Vietnam) comincia a sedimentare un clima diverso. Davanti alla fabbrica i volantini degli studenti e gli opuscoli dei gruppi della sinistra sono letti con più attenzione dagli operai. Le rivendicazioni operaie iniziano a tradursi in scioperi interni improvvisi, con un rapido effetto contagio tra reparti e stabilimenti diversi: gli operai interrompono il lavoro ed escono sfilando davanti ai posti di controllo, ai capi, ai guardiani. I sindacati danno copertura allo sciopero, per non dare l’impressione di essere scavalcati: ma il via non è dato dai rappresentanti sindacali, ma da gruppi di operai (alcuni politicizzati) interni alla fabbrica.
L’11 aprile viene proclamato uno sciopero dalle organizzazioni sindacali per l’eccidio di Battipaglia: nella cittadina del salernitano, durante una manifestazione di protesta per la chiusura di un tabacchificio, una donna e un giovane erano stati uccisi dalla polizia (12).
Al di là della buona riuscita dello sciopero in Fiat, è confermato il fatto che a Mirafiori tira un’aria decisamente nuova. Gli operai si astengono dal lavoro ma contemporaneamente svolgono assemblee in fabbrica a cui partecipano in migliaia. La scena si ripete, quasi identica, il 13 maggio, in occasione di uno sciopero interno di due ore proclamato dalle organizzazioni sindacali: in 8 mila scioperano alle officine Ausiliarie di Mirafiori e alla Prova motori. In realtà, il sindacato proclama una sola ora di sciopero: ma gli operai, riuniti in assemblea, decidono di prolungarlo di un’altra ora. Soprattutto, durante lo sciopero vengono eletti (su proposta di alcuni operai politicizzati) dei delegati «di squadra», a cui viene affidato il compito di proseguire la vertenza e informare i lavoratori. Il 19 maggio è la volta dei carrellisti che proclamano uno sciopero improvviso per l’intera giornata, bloccando l’alimentazione delle linee di montaggio. Subito dopo si apre la vertenza alle Grandi presse. Il sindacato non promuove ma è costretto a dare la copertura a questi scioperi. Le rivendicazioni di tutti questi scioperi sono minimali (piccoli aumenti di salario, revisione dei turni, passaggi di categoria) ma le lotte in Fiat hanno acquisito una radicalità nuova.
Da qui al 25 giugno gli scioperi in Fiat sono quotidiani. L’agitazione di giorno in giorno si estende in nuovi reparti. In alcuni casi gli scioperi sono di 8 ore con lunghe assemblee e cortei interni. Nella maggioranza dei casi si tratta di scioperi di poche ore, articolati in modo da creare il massimo danno alla produzione. Spesso e volentieri gli operai decidono, in assemblea, di prolungare gli scioperi proclamati dai sindacati, altre volte decidono di bloccare la produzione senza concordare nulla prima col sindacato: «al sindacato non resta che inseguire questo movimento riprendendone in parte le proposte e le modalità di lotta» (13). La Fiat è costretta a trattare. Il 16 giugno le organizzazioni sindacali indicono assemblee per discutere le proposte dell’azienda. Le direzioni sindacali propongono di sospendere gli scioperi durante la trattativa: la proposta è respinta dall’assemblea e gli scioperi continuano.
La produzione a Mirafiori è paralizzata. La Fiat utilizza, come oggi, le minacce e le intimidazioni: sospensioni, licenziamenti, ricatti. Ma alla fine è costretta a fare nuove concessioni. Il 30 giugno i sindacati firmano un accordo che prevede aumenti salariali (in realtà piuttosto limitati), qualche concessione nell’articolazione dei turni e poco più. L’accordo è approvato di stretta misura in assemblea, in molti sono scontenti. Nel valutare l’importanza di questa rottura tra base operaia e direzioni sindacali (che fino a poco tempo prima detenevano saldamente il controllo in Fiat), crediamo vada anzitutto sfatato un mito: quello della «spontaneità operaia». Se è vero che in questi mesi a Mirafiori un complesso di condizioni contribuisce a creare la base oggettiva dell’esplosione operaia, è altrettanto vero che esiste all’interno della fabbrica una «direzione» della lotta. Da mesi, infatti, davanti ai cancelli sono presenti a Mirafiori attivisti di organizzazioni e gruppi politici della sinistra (vedremo poi quali) che hanno stretto contatti con gli operai all’interno. Alcuni lavoratori diventano militanti che, per quanto deviati nelle posizioni politiche (non esisteva un partito rivoluzionario nel 1969), avevano sviluppato una coscienza di classe. In una situazione che, per elementi indipendenti dalle volontà soggettive, diventa bollente, la presenza di attivisti politici favorisce lo sviluppo della lotta in contrapposizione alle burocrazie sindacali.
La rivolta di corso Traiano
A partire dalla primavera del 1969, quindi, il ruolo sia della Cgil (e quindi del Pci) sia delle altre burocrazie sindacali in fabbrica è fortemente ridimensionato. Gli operai hanno ora altri riferimenti, in particolare gli attivisti politici che sono quotidianamente davanti ai cancelli della fabbrica e che presentano, nei loro volantini, piattaforme rivendicative più in sintonia con gli umori della massa operaia. Dalle lotte all’università e nelle scuole di Torino dei mesi precedenti si costituisce l’Assemblea operai-studenti, che nasce ufficialmente nel maggio del 1969, promossa da attivisti di gruppi politici dell’estrema sinistra: si crea un legame permanente tra le avanguardie operaie interne alla fabbrica e questo nuovo organismo di coordinamento. È una struttura che presenta tutti i limiti proprie delle organizzazioni politiche che l’hanno promossa, cioè i gruppi politici da cui, alla fine di luglio del 1969, prenderanno vita due organizzazioni centriste (cioè oscillanti tra posizioni rivoluzionarie e riformiste) degli anni Settanta: Potere operaio e Lotta continua. Non è questo il luogo per approfondire l’analisi e la storia di questi partiti, ma è utile ricordare brevemente il fatto che, nella primavera del 1968, cioè all’inizio di un’ascesa rivoluzionaria in Italia e nel mondo, i Gruppi comunisti rivoluzionari – cioè la sezione italiana del Segretariato unificato della Quarta Internazionale (14), che adottavano una politica entrista nel Pci (15) – si disintegrano. Si trattava, allora, della più forte sezione del Segretariato unificato in Europa, che nel corso degli anni Sessanta si era rafforzata numericamente.
La linea politica della direzione internazionale (e nazionale) dei Gcr prevedeva l’entrismo profondo in altre organizzazioni politiche (in Italia il Pci) al fine di condizionarne settori interni nell’attesa di una presunta naturale evoluzione verso posizioni rivoluzionarie. Di fatto era la rinuncia a costruire e rafforzare un partito trotskista (cioè bolscevico) indipendente sia politicamente sia dal punto di vista organizzativo. Ed è così che alla fine degli anni Sessanta, quando il vento della lotta di classe comincia a soffiare con forza, le fragili vele dei Gcr, anziché gonfiarsi, si spezzano. La maggioranza dei dirigenti porta alle estreme conseguenze la linea politica impressa dal gruppo dirigente nazionale – cioè quella di accodarsi ad altre direzioni – e propone di sciogliere l’organizzazione nei nuovi movimenti che si formano in quegli anni (16).
Questo inciso è utile per capire perché a Torino, dove i «trotskisti» dei Gcr avevano uno dei nuclei più forti, in realtà non riescono a svolgere un ruolo di direzione delle lotte in Fiat: la maggioranza di loro nel 1968 si era dissolta nei nuovi «movimenti» e gruppi politici che sorgono in quegli anni (17).
Ma torniamo al luglio del 1969 a Mirafiori. Cgil, Cisl e Uil proclamano per il 3 luglio uno sciopero generale contro il caro affitti. L’Assemblea operai studenti decide di aderire allo sciopero. Viene inoltre accolta dagli operai la proposta di organizzare per il pomeriggio un corteo che parta da Mirafiori e arrivi al cuore della città: l’appuntamento è quindi alla Porta 2 della Fiat Mirafiori per una manifestazione contrapposta a quella mattutina delle burocrazie sindacali.
L’adesione allo sciopero è massiccia. Soprattutto, la manifestazione pomeridiana ha fin da subito un buon risultato: sono circa 4 mila gli operai (molti della Fiat e dell’indotto) che si radunano davanti ai cancelli di Mirafiori. Un altro corteo si forma allo stabilimento del Lingotto. Sono presenti anche attivisti politici provenienti da altre città (Roma, Pisa, Livorno, Trento, Milano). Anche l’Acli aderisce al corteo del pomeriggio, insieme con alcuni comitati di quartiere. Fin dal mattino è ingente lo schieramento di poliziotti nei pressi dello stabilimento.
Prima che il corteo abbia inizio, la polizia ordina ai manifestanti di sciogliersi e tornare a casa, i poliziotti cominciano a premere e spingere per disperdere i manifestanti. Gli operai si compattano, la polizia offende e insulta gli operai che rispondono con spintoni. A quel punto ha inizio la prima pesante carica (saranno più di venti quel giorno). Alcuni operai e studenti restano feriti. Gli operai si allontanano ma poi si ricompattano, ne arrivano altri in loro supporto. Al corteo viene impedito dalla polizia di dirigersi verso il centro della città, per questo svolta in corso Traiano. I manifestanti ora sono molti di più dell’inizio. La polizia carica con le camionette, i manifestanti si difendono con il lancio di pietre. Tra i fumi dei lacrimogeni, è caccia all’uomo: i poliziotti fermano a caso e picchiano con violenza. Alle 17, dopo che molti altri lavoratori e abitanti dei quartieri limitrofi sono accorsi per portare solidarietà ai manifestanti, in corso Traiano è la volta di nuovi scontri. Operai, studenti e abitanti del quartiere «tornano all’attacco a sassate, costruiscono barricate, costringono l’autista di un bulldozer a dirigersi con la pala alzata verso lo schieramento della polizia per bloccare l’accesso a una via» (18). La polizia si è ritirata, corso Traiano ora è degli operai e degli studenti. Gruppi di operai e studenti si dirigono all’università e in un’aula tengono un’assemblea (sul tetto sventola una bandiera rossa): la polizia circonda l’edificio, lancia lacrimogeni all’interno. Nel frattempo, vicino a Mirafiori gli scontri continuano, nuove barricate spuntano ogni ora, la polizia ha chiamato rinforzi. I poliziotti sfondano le porte ed entrano negli appartamenti. Gli scontri vanno avanti fino a notte fonda. Il Pci, sulle pagine dell’Unità, il giorno dopo tenterà di ridimensionare la portata degli scontri: scrive di soli 1.500 manifestanti, in gran parte giovani studenti. Invece tra i circa 200 fermati dalla polizia e dai carabinieri molti sono operai. Di questi, 29 saranno arrestati: quasi tutti operai, solo due sono studenti. A dimostrazione che il Pci mentiva (19).
L’autunno caldo, dopo un’estate bollente
L’agosto del 1969 non è un mese di vacanza serena per i padroni. Gli scioperi della primavera e i fatti di corso Traiano destano non poche preoccupazioni. Soprattutto, a ottobre scadono i contratti collettivi di cinque milioni di lavoratori. Tra loro, un milione e 300 mila metalmeccanici, di cui 300 mila sono a Torino. Per la precisione, i contratti scadono a dicembre ma i sindacati decidono di dare il via all’agitazione tre mesi prima. Il 28 agosto Fiom, Fim e Uilm per la prima volta dal dopoguerra hanno una posizione unitaria sul rinnovo del contratto: su pressione della loro base, chiedono aumenti salariali per tutti, una normativa unica per operai e impiegati, 40 ore settimanali, un limite al lavoro straordinario.
Alla Fiat gli scioperi riprendono già il 1° settembre. Ormai gli operai organizzano gli scioperi senza aspettare le scadenze dei sindacati. Si fermano per alcune ore gli operai dell’officina 32: gli operai chiedono aumenti salariali e l’applicazione immediata degli accordi di giugno. Il giorno dopo, la Fiat sospende 7.400 operai (più di cento sono licenziati, gli altri vengono trasferiti o sospesi), con il pretesto che gli scioperi dell’officina 32 hanno fatto mancare il rifornimento di pezzi ad altre officine. I sindacati, in risposta, proclamano uno sciopero di poche ore che però ha una scarsa adesione: gli operai sembrano disertare gli appuntamenti rituali dei sindacati, non si fidano più delle burocrazie, hanno imparato che sono altre le forme di lotta che funzionano. Continua invece lo sciopero all’officina 32. Il 3 settembre la Fiat sospende quasi 40 mila operai. All’officina 32 durante lo sciopero si riunisce un’assemblea che vota il proseguimento dello sciopero, che va avanti fino al 5 settembre.
Negli stessi giorni decine di altre fabbriche sono in agitazione. Alla Pirelli Bicocca il 2 settembre è proclamato uno sciopero di 24 ore: l’azienda risponde con una serrata e la sospensione di 12 mila operai. La rabbia operaia esplode: la produzione viene bloccata e i provvedimenti sono revocati. In Fiat, i sindacati pongono come condizione per riprendere i negoziati l’annullamento dei licenziamenti, che vengono ritirati. Gli operai sospesi tornano a lavorare. L’11 settembre è il giorno del primo sciopero generale per il contratto: le adesioni alla Fiat sono altissime (98% tra gli operai di Mirafiori; 70% tra gli impiegati). Anche questa volta, in Fiat la lotta sfugge al controllo dei sindacati. Gli operai nei reparti nelle assemblee durante gli scioperi eleggono dei propri delegati (i progenitori dei futuri consigli di fabbrica), che gestiscono la vertenza contrattuale: l’azienda alla fine sarà costretta a riconoscerli. Il 19 settembre e il 25 settembre sono due nuovi giorni di sciopero generale a Torino (con adesioni del 98% in Fiat).
Nei giorni successivi a Mirafiori riprendono i cosiddetti scioperi «a gatto selvaggio»: fermate improvvise durante le ore di lavoro, articolate reparto per reparto in modo da creare il massimo danno alla produzione e limitare la decurtazione degli stipendi. Tutto il mese di ottobre vedrà in Fiat un’alternanza di scioperi di questo tipo e scioperi dell’intera giornata (questi ultimi proclamati dalle organizzazioni sindacali nell’ambito della vertenza contrattuale): a Mirafiori non c’è giorno dell’autunno senza uno sciopero. Il 10 ottobre la tensione è altissima: durante lo sciopero gli operai organizzano un corteo interno e assediano la palazzina centrale (dove si trovano i dirigenti e gli impiegati accusati di crumiraggio): la polizia entra in fabbrica, alcuni operai premono per l’occupazione della fabbrica. Molti altri saranno, nei giorni successivi, i tentativi di invasione e occupazione degli uffici da parte degli operai.
Il 28 ottobre la Fiat farà girare la notizia che non verranno pagate le ore «improduttive» per scioperi in altri reparti. Il giorno dopo durante lo sciopero un corteo interno di ampie dimensioni dà sfogo alla legittima rabbia degli operai, con danni alle linee di montaggio e alle macchine. Il 30 ottobre la Fiat denuncia 70 operai per «devastazione degli impianti», successivamente ne denuncerà altri 52, 85 operai sono invece sospesi «a tempo indeterminato».
A novembre gli scioperi e le proteste non arretrano di un millimetro, nonostante la repressione. Riprendono gli scioperi, questa volta articolati per intere sezioni (e non per singoli reparti). Diverse sono le manifestazioni degli operai al salone dell’automobile o sotto gli uffici della dirigenza al Lingotto. Ormai gli operai decidono da soli gli orari di lavoro e scioperano come e quando vogliono: il 10 novembre nessuno sciopero è ufficialmente proclamato, ma gli operai in massa escono prima della fine del turno per evitare lo sciopero dei mezzi pubblici. Il 12 novembre gli operai assediano di nuovo la palazzina centrale, e di nuovo l’azienda fa intervenire la polizia per liberare «gli ostaggi». Le manifestazioni dei metalmeccanici torinesi sono frequenti e sempre partecipatissime. A metà novembre la Fiatdenuncia alla Procura altri 50 operai e ne sospende altrettanti.
Il 18 novembre le direzioni sindacali organizzano un processo simbolico alla Fiat al Palazzetto dello Sport, dove partecipano circa 7 mila persone: si verificano scontri tra il servizio d’ordine dei sindacati e i militanti delle organizzazioni politiche a sinistra del Pci. La Fiat ritira i licenziamenti, anche su pressione del ministro del lavoro. Il 19 novembre è invece il giorno dello sciopero generale per la casa. A Torino la questione abitativa è molto sentita dagli operai della Fiat, in gran parte immigrati dal sud costretti a vivere in piccoli appartamenti fatiscenti a causa degli affitti salatissimi. Moltissime città d’Italia sono letteralmente paralizzate dalla protesta. A Milano ci sono scontri violenti tra manifestanti e polizia.
Nel frattempo gli scioperi a Mirafiori continuano. A partire dal 25 novembre viene proclamato uno sciopero a oltranza: nei giorni successivi la produzione a Mirafiori è completamente bloccata. Ancora una volta sono scioperi con assemblee e cortei interni. La maggioranza dei delegati eletti nelle precedenti settimane, su indicazione dei sindacati, si dichiara contraria allo sciopero a oltranza: propongono di riprendere gli scioperi articolati. Ma gli operai vanno oltre le indicazioni dei loro stessi delegati: lo sciopero in molti reparti prosegue col blocco totale come nei giorni precedenti.
Il 28 novembre a Roma è il giorno della manifestazione nazionale dei metalmeccanici convocata unitariamente dai sindacati (è in queste settimane, sull’onda delle lotte dei metalmeccanici, che i sindacati di categoria si unificano nell’Flm: Federazione dei lavoratori metalmeccanici). A dicembre la musica in Fiat non cambia. In molti reparti prosegue il blocco totale e a oltranza, che ferma la produzione: da Mirafiori non escono più vetture finite. Il 4 dicembre a Mirafiori 1.300 operai si riuniscono in assemblea e votano a favore del proseguimento della lotta a tempo pieno. La Fiat procede sulla strada della repressione: sospensioni e denunce alla procura. Il 9 dicembre è il giorno dello sciopero generale dell’industria, in solidarietà con i metalmeccanici. Il 21 dicembre viene siglato l’accordo sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici: vengono accettate dall’azienda tutte le rivendicazioni della piattaforma rivendicativa. La lotta dura degli operai della Fiat ha pagato.
Gli insegnamenti di questa lotta
La lotta in Fiat non si ferma con il dicembre del 1969: va avanti, radicale, anche negli anni successivi. Ne parleremo in altri articoli (20), per ora ci limitiamo ad alcune considerazioni generali sui fatti qui raccontati. È una vicenda che ci offre degli importanti spunti di riflessione anche per l’oggi.
Anzitutto, va rilevato che, soprattutto in un contesto internazionale di lotte rivoluzionarie – come era quello della fine degli anni Sessanta ma come è anche quello odierno – la mobilitazione operaia radicale può esplodere da un momento all’altro. E le lotte più dure possono, come è avvenuto in Fiat nel 1968, prendere vita negli ambienti operai considerati più «arretrati»: Mirafiori, come abbiamo ricordato all’inizio di questo articolo, da anni si caratterizzava per un clima di pace sociale (da qui appunto l’epiteto cimitero delle lotte), la Fiom era ai minimi storici e la Uilm aveva la maggioranza dei consensi nelle elezioni interne. Le cose nel Sessantotto cambiano repentinamente, a dimostrazione che non esiste alcuna legge oggettiva che stabilisce come, dove e quando la lotta può prendere il via. È la prova che in alcune congiunture storiche il quadro sociale può cambiare repentinamente. E in Fiat sopravviveva sotto un’apparenza di normalizzazione, la memoria storica delle grandi lotte dei decenni precedenti (dal Biennio rosso alle lotte del 1943-1948).
In seconda istanza, le mobilitazioni di quegli anni a Mirafiori ci confermano che non esiste «spontaneità» delle lotte. Esiste, quello sì, un contesto materiale e internazionale che favorisce e rende probabile un’esplosione, ma serve anche chi accende la miccia. E a Mirafiori gli scioperi prolungati e articolati non erano frutto di una presunta «spontaneità» o «autonomia» operaia: erano promossi, diretti e organizzati da operai politicizzati all’interno della fabbrica, operai che partecipavano alle riunioni dell’Assemblea operai-studenti e collaboravano con i gruppi politici dell’estrema sinistra.
In terzo luogo – ed è questa la lezione più importante delle lotte alla fine degli anni Sessanta – l’esito di questa ondata di scioperi in Fiat ci mostra che, senza un partito rivoluzionario che diriga le lotte verso la prospettiva politica della presa del potere, dell’abbattimento del capitalismo e della costruzione di un’economia socialista, ogni battaglia è, nel medio o lungo periodo, inevitabilmente persa. Il frutto delle straordinarie mobilitazioni operaie del 1969 fu l’approvazione dello Statuto dei lavoratori: uno statuto molto avanzato dal punto di vista dei diritti democratici e sindacali (appunto perché risultato di due anni di lotte durissime), ma che, allo stesso tempo, serviva per «normalizzare» il conflitto, per farlo rientrare nei ranghi della ordinaria contrattazione sindacale, per evitare, in altre parole, che si ripetesse quello che era avvenuto nel 1969 a Mirafiori. Non solo: come dimostra quello che sta avvenendo oggi in Fiat, se le lotte non hanno come sbocco il potere operaio, i padroni, presto o tardi, si riprendono tutto quello che sono stati costretti a concedere. In poche parole, ciò che è mancato alla fine degli anni Sessanta è un partito rivoluzionario che avanzasse nelle lotte operaie un programma transitorio, che rivendicasse l’esproprio sotto controllo operaio della Fiat, che intervenisse in quelle lotte non per la mera «estetica del conflitto» (come spesso facevano le organizzazioni a sinistra del Pci), ma per dirigerle verso una prospettiva rivoluzionaria e socialista internazionale.
Note
1. V. Castronovo, Fiat 1899-1999: un secolo di storia italiana, Rizzoli, 1999, p. 1176.
2. «Papà Gaetano non basta più», L’Espresso, 12 maggio 1968.
3. Le gabbie salariali, instaurate nel 1945 e abolite nel 1969 dopo la stagione di lotte operaie di cui stiamo scrivendo, erano differenziali retributivi per aree geografiche: implicavano in alcune regioni salari più bassi rispetto ad altre (in particolare al Sud). Nel 1968 Cgil, Cisl e Uil lanciano una vertenza nazionale per l’eliminazione delle gabbie.
4. Nel febbraio del 1968 il governo Moro presenta una riforma delle pensioni che trova l’opposizione della Cgil e del Pci: la riforma prevede il passaggio dal sistema retributivo a quello «a ripartizione», con una consistente riduzione dell’ammontare dell’assegno pensionistico. Il 7 marzo la Cgil proclama uno sciopero generale contro la riforma delle pensioni, non sostenuto da Cisl e Uil. Tuttavia, in molte città Fim e Uilm (e in alcuni casi intere organizzazioni territoriali di Cisl e Uil) aderiscono allo sciopero. Lo sciopero è un successo. Anche in Fiat a Torino l’astensione dal lavoro è massiccia (aderiscono allo sciopero anche Fim, Uilm e Sida).
5. «[Gli operai] escono profondamente delusi da una lotta dura (72 ore di sciopero) per il rinnovo del proprio contratto di lavoro e avvertono fortemente il bisogno di un nuovo punto di riferimento che possa agire da propulsore dinamico all’interno della fabbrica e possibilmente su scala nazionale. Il nucleo iniziale, arricchendosi di nuove esperienze e di nuove forze (operai giovani, per lo più, ma già politicizzati), può così trasformarsi - grazie alla lotta e al dibattito che la segue - in un Comitato di Base, aperto a tutti i lavoratori e con una notevole influenza di massa: quest’ultimo punto è dimostrato dal fatto che alcuni dirigenti sindacali aziendali (della Cisl, in particolare) sentono il bisogno di partecipare alle sue riunioni», in R. Massari, Gli scioperi operai dopo il ‘68, Jaca Book, 1974, p. 99.
6. Come scrivono i fondatori del Cub in un documento pubblicato dalla rivista Quindici nel marzo 1969: «Nel Cub gli studenti hanno una posizione non più subordinata, ma di partecipazione in prima persona al lavoro operaio, che è un lavoro politico e in quanto tale non ammette divisioni di categorie. Inoltre la presenza degli studenti è continua, come richiede l’obiettivo anticapitalista delle lotte studentesche e il riconoscimento che la fabbrica è il luogo di nascita del capitale». Questo documento è pubblicato in N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro, Feltrinelli, 1997, pp. 288-295.
7. Per una ricostruzione dettagliata delle lotte in Fiat dalla primavera del 1968 al luglio del 1969 rimandiamo a D. Giachetti, Il giorno più lungo. La rivolta di corso Traiano, Bfs Edizioni, 1997.
8. Dopo due scioperi generali unitari con adesione altissima (14 novembre e 5 febbraio), per la situazione avanzata della lotta di classe in Italia, il governo Rumor sarà costretto ad approvare nel febbraio del 1969 una riforma delle pensioni che eleva il rapporto tra pensione e ultimo stipendio.
9. Ad Avola, in Sicilia, il 2 dicembre vengono uccisi dai poliziotti a colpi di mitra due braccianti, Angelo Sigona (29 anni) e Giuseppe Scibilia (47 anni). Altri quattro braccianti sono ridotti in fin di vita. Erano in sciopero per chiedere la parità di trattamento salariale tra braccianti di zone diverse della stessa provincia (chiedevano una paga uguale a quella dei braccianti di Lentini). Il 25 novembre 32 mila braccianti avevano incrociato le braccia. Gli agrari si erano rifiutati di trattare e per questo i lavoratori avevano costruito blocchi con cumuli di pietre nelle strade interrompendo il traffico. Lunedì 2 dicembre un centinaio di braccianti si trovano attorno a uno sbarramento di pietre lungo una strada statale. Novanta camionette con un centinaio di poliziotti arrivano da Siracusa e si trovano davanti al blocco. Ne ordinano lo smantellamento immediato. I braccianti si rifiutano e i poliziotti, in assetto di guerra, li minacciano coi mitra. I braccianti lanciano delle pietre contro le camionette. Ha inizio uno scontro, con lancio di pietre da una parte e di lacrimogeni dall’altra. Accorrono centinaia di lavoratori dai paesi vicini per sostenere i braccianti. La polizia spara coi mitra e uccide Angelo e Giuseppe.
10. V. Castronovo, op. cit., p. 1182.
11. Riporta queste testimonianze Eugenio Scalfari, in un reportage sull’Espresso (Roma propone e Torino dispone, 6 aprile 1969).
12. A Battipaglia la progressiva chiusura di tutte le industrie del territorio aveva esasperato la popolazione locale. Dopo la recente chiusura di uno zuccherificio, era stata annunciata la chiusura del tabacchificio. Il 9 aprile è in programma una manifestazione di protesta che ha come obiettivo il blocco del traffico ferroviario. Un enorme dispiegamento di poliziotti presidia la stazione. Quando il corteo, enorme, si muove verso la stazione, inizia subito una prima carica: nonostante decine di feriti, il corteo prosegue e i manifestanti bloccano i binari. L’ordine di sgomberare i binari lanciato dai poliziotti cade nel vuoto. Arrivano altri 120 agenti del reparto mobile di Napoli, che da subito si scontrano con i manifestanti che bloccano l’autostrada. Il reparto è circondato da una folla che risponde ai getti d’acqua e alle bombe lacrimogene con una sassaiola fittissima. I poliziotti sono costretti ad arretrare. Negli scontri restano uccisi un’insegnante e un ragazzo. Gli operai rispondono assaltando il Comune. Assediano il commissariato di polizia, lanciando all’interno bottiglie di benzina e gridano ai poliziotti di arrendersi: «Venite fuori con le mani in alto o vi abbruciamo!» (fonte: l’Espresso, 20 aprile 1969).
13. D. Giachetti, op. cit., p. 48.
14. Il Segretariato unificato della Quarta Internazionale rappresentava allora l’organizzazione maggioritaria tra quelle provenienti dalla Quarta Internazionale di Trotsky e aveva subito un processo di deriva revisionista per opera della sua direzione. Più in generale sulla storia della Quarta Internazionale rimandiamo all’introduzione di Francesco Ricci a Lev Trotsky, Programma di transizione, Massari Editore, 2008.
15. Ad essere precisi, la maggioranza dei militanti dei Gcr era interna al Pci, ma alcuni dei dirigenti restavano all’esterno, per svolgere, come dicevano, un «lavoro indipendente», cioè in particolare un lavoro di propaganda con la pubblicazione del foglio Bandiera Rossa.
16. Vale la pena ricordare che i dirigenti di una gran parte dei principali gruppi della cosiddetta estrema sinistra (inclusi i gruppi stalinisti) degli anni Settanta provengono proprio dai Gcr, cioè dalla sezione italiana del Segretariato unificato della Quarta internazionale. Tra loro citiamo, a puro titolo d’esempio: Vinci e Gorla (fondatori di Avanguardia Operaia), Brandirali (fondatore di Servire il popolo), Mineo (Circolo Lenin e poi nel gruppo dirigente del Manifesto), Russo, Illuminati, Savelli, ecc.
17. «Nel 1968 i gruppi che fanno lavoro politico alla Fiat sono tre: il Potere operaio di Torino, dall’omonimo giornale che stampano come supplemento al più noto e diffuso Potere operaio pisano di Adriano Sofri, Luciano Della Mea e Gian Mario Cazzaniga, il Fronte della gioventù lavoratrice e la Lega operai studenti. Solo a partire dai primi mesi del 1969 si costituisce l’informale gruppo che fa riferimento al “giornale delle lotte operaie e studentesche” La classe (...) esse costituiscono, insieme al Movimento studentesco torinese, le varie anime e sensibilità che operano dentro l’Assemblea operai studenti», in D. Giachetti, op. cit., p. 27.
18. D. Giachetti, op. cit., p. 71.
19. Ricordiamo che, dopo i fatti di corso Traiano, il 26 e 27 luglio a Torino si tiene un incontro promosso dagli attivisti politici che avevano organizzato la manifestazione del pomeriggio del 3 luglio. È in questa occasione che si determina una rottura che darà vita a due organizzazioni politiche differenti, Lotta continua (che raggruppa originariamente gli attivisti di Potere operaio della Toscana, studenti di Torino, Trento e della Cattolica di Milano) e Potere operaio (che raggruppa gli attivisti del periodico torinese La classe, studenti di Roma e veneti, operai di Porto Marghera).
20. F. Stefanoni, «Facciamo come a Mirafiori! Dallo Statuto dei lavoratori all’occupazione della Fiat nel ‘73», in Trotskismo oggi n. 7.