Partito di Alternativa Comunista

Palestina: le differenze tra rivoluzionari e riformisti

Palestina: le differenze tra rivoluzionari e riformisti

 

 

 

 

di Francesco Ricci

 

È presto per avanzare previsioni nel momento in cui scriviamo. È presto per dire se sia nato un nuovo movimento di massa a livello mondiale. Ma certo se ne vedono le avvisaglie.
La scintilla è l'eroica lotta del popolo palestinese, in queste ore sottoposto ai bombardamenti israeliani su case, scuole, ospedali, ambulanze, che già hanno provocato almeno 10 mila morti.
Mentre Israele attacca la Striscia di Gaza anche da terra, protetto dalle portaerei statunitensi e da due fregate italiane, le piazze di tutte le capitali occidentali si riempiono di manifestanti in solidarietà con i palestinesi, non fermati dai tentativi repressivi dei governi borghesi che svelano il vero volto della loro «democrazia».
A fare impressione è soprattutto il ritorno nelle piazze delle nuove generazioni. Giovani che non hanno vissuto negli ultimi decenni le sconfitte provocate e imposte in tutto il mondo dalle direzioni riformiste.

 

La storia occultata

C'è un grande assente in tutti i dibattiti sulla Palestina: la storia di quel Paese e del suo popolo.
Non è un'assenza casuale né dovuta semplicemente a ignoranza (per quanto la gran parte dei commentatori dei mass media sia senza dubbio ignorante). Il motivo è che se solo si forniscono informazioni storiche basilari, cadono tutti gli argomenti sia di chi si schiera con Israele, sia di chi apparentemente si schiera con i palestinesi ma con una lista di distinguo.
Occultare la storia è una necessità dell'imperialismo e delle sue code riformiste, per questo sono rari i testi storici seri sulla Palestina.
Di particolare interesse sono i libri di Ilan Pappé (1), storico, ebreo nato ad Haifa (dove ha insegnato all'università), che oggi vive esiliato in Inghilterra, essendosi schierato contro il sionismo.
In La pulizia etnica della Palestina, Pappé, utilizzando centinaia di fonti, descrive in dettaglio come avvenne la fondazione di Israele nel 1948, quella che i palestinesi chiamano la Nakba («catastrofe»).
La distruzione dei villaggi e l'espulsione degli abitanti palestinesi era stata meticolosamente preparata già negli anni Trenta da un lavoro di schedatura di ciascun villaggio e dei soggetti considerati potenzialmente «ribelli» (perché avevano partecipato alle lotte contro l'occupante britannico nella rivolta del 1936-1939). Questo lavoro era stato fatto dall'Haganà, la principale tra le milizie sioniste, costituita nel 1920 (e affiancata dall'Irgun e dalla Banda Stern).
La pulizia etnica della Palestina, la «dearabizzazione», per usare il termine impiegato dai sionisti, avvenne secondo un piano preciso. Pappé ne racconta la genesi così: «(...) il 10 marzo 1948 (...) un gruppo di undici uomini, dirigenti sionisti veterani insieme a giovani ufficiali militari ebrei, diedero il tocco finale al piano di pulizia etnica della Palestina. La stessa sera venivano trasmessi alle unità sul campo gli ordini (...) accompagnati da una minuziosa descrizione dei metodi da usare per cacciar via la popolazione con la forza: intimidazioni (...) assedio e bombardamenti di villaggi e centri abitati; incendi di case (...); espulsioni; demolizioni (...). A ciascuna unità venne dato un elenco di villaggi e quartieri urbani quali obiettivi del piano generale. Denominato in codice Piano D (...). Presa la decisione, ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più di metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800 mila persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dai loro abitanti» (2).
Ed ecco come Pappé descrive le operazioni di «pulizia etnica» in uno di questi villaggi, Deir Yassin, a est di Gerusalemme: «Come irruppero nel villaggio, i soldati ebrei crivellarono le case con le mitragliatrici, uccidendo molti abitanti. Le persone ancora in vita furono radunate in un posto e ammazzate a sangue freddo, i loro corpi seviziati, mentre molte donne vennero violentate e poi uccise» (3).
Lo stesso venne fatto in centinaia di villaggi. Pappé racconta decine di episodi simili nelle pagine del suo libro.
Non c'è dubbio allora che una conoscenza anche superficiale della storia palestinese porterebbe ad utilizzare l'appellativo di «terroristi», che risuona in tutti i dibattiti riferito ai palestinesi, per i sionisti. Israele è uno «Stato» costruito letteralmente sul terrore, con fucilazioni, bombe, stupri, torture per annientare una parte della popolazione inducendo così i restanti a scappare.

 

Quattro falsificazioni

Il meccanismo su cui regge ogni dibattito sulla cosiddetta «questione palestinese» contempla di norma quattro passaggi: primo, si rimuove la storia delle origini di Israele nel quadro del progetto sionista; secondo, si ripete la litania su Israele «unico Stato democratico del Medio Oriente»; terzo, si invoca, di conseguenza, il «diritto di Israele a difendersi»; quarto, si introduce un parallelo con l'Olocausto e si definisce come «antisemita» chiunque, essendo antisionista, non riconosca il «diritto di Israele ad esistere».
Vediamo questi quattro argomenti falsi che lo storico (ebreo antisionista) Ralph Schoenman ha definito «quattro falsi miti» (4).

 

Primo, nascondono l'essenza del progetto sionista

La storia delle origini di Israele è una storia sanguinaria. Il progetto del sionismo (una corrente politica che nasce a fine Ottocento) (5) sin dalle origini era quello di espellere i palestinesi per occupare la loro terra. Lo slogan «una terra senza un popolo per un popolo senza terra» serviva appunto a mascherare che in Palestina viveva già da secoli un popolo, quello palestinese.
Quando nel novembre 1947 l'Onu, con il voto dell'Urss di Stalin (che sostenne anche con l'invio di armi i sionisti), divise in due la Palestina, assegnandone il 56% agli ebrei (che possedevano circa il 5% della terra), Ben Gurion (guida dei sionisti dagli anni Venti agli anni Sessanta) disse a chi tra i suoi pretendeva di più: l'importante è per ora il riconoscimento formale di uno Stato, il resto ce lo prenderemo con le armi.
È l'avvio della pulizia etnica della Palestina. A questo fine l'Haganà aveva raccolto negli anni precedenti, come abbiamo visto, informazioni su tutto il territorio e schedato migliaia dei suoi abitanti.
Da allora l'estensione di questo Stato artificiale (proclamato nel maggio 1948) non si è più fermata. Al furto originario di terra, legittimato dall'Onu, si sono aggiunte altre terre con guerre e coi massacri: la guerra del maggio '48-inizi '49 tra Israele e i Paesi arabi (Egitto, Giordania, Siria), poi la guerra «dei sei giorni», del 1967, quando Israele si impossessa anche della Striscia di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme Est (oltre alla penisola del Sinai e alle alture del Golan).
È così che i palestinesi sono stati espulsi e divisi: circa 2,3 milioni vivono nel lager della Striscia di Gaza, circondati da filo spinato. 3,5 milioni vivono in Cisgiordania, dove la Autorità Nazionale Palestinese (Anp) di Abu Mazen collabora con le forze israeliane. Qui, solo l'anno scorso, sono stati uccisi 150 palestinesi. Altri 2 milioni vivono senza diritti nel territorio definito «Israele» (che ha dieci milioni di abitanti), che riconosce pieni diritti solo a chi può vantare una discendenza ebraica da tre generazioni. Altri 6 milioni di palestinesi vivono da profughi in Libano, Giordania ecc., senza possibilità di ritornare nella terra da cui sono stati espulsi per lasciare spazio ai coloni ebrei affluiti da tutto il mondo. Coloni a cui apposite leggi di Israele consentono di appropriarsi di case e terre di quelli che sono definiti «assenti», cioè di quanti sono stati espulsi.
Il sionismo è un colonialismo particolare: non mira a sfruttare la popolazione ma ad annientarla per impadronirsi della terra.

 

Secondo, presentano Israele come «Stato democratico»

Il refrain dei difensori di Israele è che sarebbe uno «Stato democratico», l'unico del Medio Oriente.
Non dicono che si tratta di uno Stato che si proclama «ebraico», basato su oltre 60 leggi razziali che distinguono tra cittadini (gli ebrei) e abitanti arabi o di altre etnie. Solo i primi godono di pieni diritti mentre gli altri sono discriminati in ogni ambito lavorativo e sociale. Non dicono cioè che si tratta di uno Stato confessionale, teocratico, integralista (nella vulgata occidentale «integralisti» sono gli islamici).
Nei «territori occupati» (Striscia di Gaza e Cisgiordania), inoltre, questo sedicente «Stato democratico» opprime con modalità bestiali i palestinesi: incarceramenti, torture, stupri si aggiungono all'oppressione economica, al blocco della Striscia di Gaza, formalmente non occupata dal 2005 ma in realtà da vent'anni circondata e periodicamente bombardata, privata di energia elettrica e persino dell'acqua. Secondo dati Onu l'80% degli abitanti della Striscia di Gaza vive in condizioni di povertà estrema e il 50% è disoccupato.

 

Terzo, difendono il «diritto di difendersi» di Israele

Non solo i commentatori borghesi ma anche i dirigenti della sinistra riformista di tutto il mondo, anche quando fingono di difendere i diritti dei palestinesi, si affrettano sempre a precisare che Israele «ha diritto di difendersi». Fingono di ignorare che si tratta di un insediamento coloniale, costruito distruggendo città e villaggi che lì esistevano da secoli. In questo modo ignorano persino il loro (borghese) diritto internazionale, che pure riconosce alle popolazioni dei Paesi occupati di contrastare gli occupanti. Peraltro per i riformisti è considerata come «occupazione» solo quella dei Territori, mentre legittimi sarebbero gli insediamenti che occupano gran parte della Palestina, essendo stati realizzati, nel 1947, con il timbro ufficiale dell'Onu: insediamenti coloniali che ora portano il nome di «Israele».

 

Quarto, equiparano antisionismo e antisemitismo

Il leitmotiv più diffuso è comunque l'equiparazione di antisionismo e antisemitismo.
In virtù di questa falsificazione, varie «democrazie» occidentali (in queste settimane Francia e Germania, ad esempio) hanno cercato di proibire e reprimere le manifestazioni pro-Palestina.
Ma la realtà è che ci sono nel mondo decine di associazioni di ebrei antisionisti, che si stanno mobilitando.
Per completare l'accusa di antisemitismo, si fa anche un indebito riferimento all'Olocausto perpetrato dai fascisti di Hitler (nazisti). Ma anche in questo caso devono occultare il fatto che nella realtà storica (come ben documenta Schoenman) i sionisti si allearono e fecero traffici economici, paradossalmente, in varie occasioni, con i fascisti tedeschi e Mussolini: vedendo nelle persecuzioni antisemite in Europa uno stimolo all'emigrazione che poteva favorire il progetto sionista (6). Non solo: Schoenman dimostra come i sionisti furono complici silenti dello stesso Olocausto, rifiutandosi di sostenere gli ebrei che chiedevano aiuto per organizzare una resistenza dentro e fuori i campi di sterminio di Hitler.

 

Perché l'imperialismo sostiene Israele

Alcuni si chiedono perché i governi occidentali siano, senza eccezione, schierati a difesa di Israele, nonostante i massacri perpetrati. Il motivo è semplice: Israele è l'avamposto dell'imperialismo in Medio Oriente. È grazie ad Israele che mantengono un controllo militare di un'area cruciale per le sue ricchezze naturali e la sua collocazione geografica.
È per questo che gli Stati Uniti ripianano ogni anno con iniezioni di miliardi di dollari il deficit permanente di Israele.
La verità è che Israele è una gigantesca base militare imperialista, che produce ed esporta principalmente armi e strumenti di intelligence usati anche dalle polizie occidentali per la repressione delle lotte nei rispettivi Paesi.

 

Perché la sinistra riformista difende il miraggio dei Due Stati

Tutta la sinistra riformista internazionale difende il presunto diritto di Israele ad esistere e quindi a difendersi. Lo hanno ribadito anche in questi giorni i dirigenti di Syriza in Grecia, di Die Linke in Germania, eccetera, arrivando persino a solidarizzare... con Israele per gli attacchi palestinesi.
Questa posizione viene articolata nella proposta-miraggio dei Due Stati (Israele e Palestina) che dovrebbero convivere nella terra di Palestina.
È questa la posizione che, di là da sfumature, condividono in Italia Rifondazione Comunista, Potere al Popolo eccetera (7).
A volte alcuni (ad esempio Pap) parlano di un futuro «Stato multietnico», ma si tratta di un gioco di parole perché non si precisa mai dove e come potrebbe sorgere se al contempo si pretende di difendere l'esistenza dello Stato coloniale.
La favola dei «Due Stati» è stata assunta già da metà degli anni Ottanta dalla componente maggioritaria dell'Olp, Al Fatah (all'epoca diretta da Arafat). Ed è stata poi ufficializzata con gli accordi di Oslo 1 e Oslo 2 (1993 e 1995) tra Arafat e Rabin. Questi accordi prevedevano la istituzione di una autonomia palestinese (Anp) su una piccola parte del territorio di Palestina (pezzi della Cisgiordania e la Striscia di Gaza) in cambio del riconoscimento da parte dell'Olp di Israele. Fu la definitiva capitolazione della direzione borghese palestinese e la rinuncia allo stesso programma originario dell'Olp, un programma peraltro non socialista, che comunque prevedeva la liberazione di tutta la Palestina storica, «dal fiume (Giordano, ndr) al mare».
La soluzione dei Due Stati, che viene spesso presentata come realistica, è in realtà una clamorosa truffa per vari motivi. Primo, ammette in premessa il primo furto di terra palestinese, quello del 1947, accettando che ai palestinesi sia riservata una piccola parte della loro terra, per di più senza continuità territoriale. Secondo, implicitamente lascia da parte la questione del diritto al ritorno dei profughi: dove potrebbero andare, infatti? Terzo, ignora che la stessa Israele ha progressivamente eroso la parte della Cisgiordania che doveva costituire lo Stato palestinese, occupandola con 700 mila coloni che, difesi dall'esercito israeliano e dalla polizia collaborazionista di Abu Mazen, sistematicamente espellono i palestinesi.
Si sente dire spesso che questa politica di Israele deriverebbe dal fatto che c'è un governo di estrema destra, quello di Netanyahu. In realtà nei primi trent'anni di esistenza di Israele, in forma continuativa, ci sono stati governi diretti dai laburisti (8), poi alternati con il Likud: e questo non ha comportato nessuna differenza sostanziale proprio perché è il progetto sionista, a prescindere dal colore del governo di turno, che prevede l'occupazione dell'intera Palestina. Fu il laburista Ben Gurion a organizzare la prima pulizia etnica; ed è stato il laburista Rabin (premio Nobel per la pace...) a ordinare ai soldati di spezzare le mani degli adolescenti palestinesi che tiravano sassi ai soldati durante la prima Intifada scoppiata nel 1987.
Dunque perché le direzioni riformiste accreditano la finzione dei «Due Stati», che è rigettata dalla stragrande maggioranza dei palestinesi? Perché accettano la definizione di «territori occupati» con riferimento solo a quelli annessi da Israele nel 1967, quando tutto Israele è edificato su un territorio occupato?
La risposta presuntamente realista dei dirigenti riformisti (emuli inconsapevoli di von Bismarck, non esattamente un modello rivoluzionario) è che «la politica è l'arte del possibile». Laddove il «possibile» implica il riconoscimento del sistema capitalistico (che criticano nei sermoni domenicali) mentre l'orizzonte non contempla rivoluzioni ma solo elezioni, non il dominio della maggioranza (i proletari) ma solo cambi di governo per gestire in modo «più umano» questo sistema barbaro (in cui, nel frattempo, non disdegnano di occupare qualche poltrona o sgabello). In Palestina «il possibile» è coniugato nella forma di una «apartheid» per i palestinesi.
A rendere ancora più inverosimile una prospettiva che si vorrebbe «realistica», c'è poi il richiamo all'Onu e al fantomatico «diritto internazionale»: come se l'una e l'altro non fossero dominati dagli interessi dominanti. Un richiamo ancora più grottesco, considerando che lo Stato coloniale fu tenuto a battesimo proprio dall'Onu e dall'Onu difeso fino ad oggi, seppur votando periodiche risoluzioni umanitarie che hanno lo stesso effetto di battersi il petto e dire tre avemaria per espiare i peccati.
Si aggiunga poi che i piani dell'imperialismo, secondo le ultime dichiarazioni di Biden, contemplano la possibilità, una volta terminata la macelleria israeliana, di usare proprio il mantello dell'Onu (e i caschi di colore blu) per occupare la Striscia di Gaza; affidandola infine ad Abu Mazen, già distintosi per zelo collaborazionista in Cisgiordania.

 

La cantilena sui civili

C'è un punto che accomuna le organizzazioni riformiste e gran parte di quelle che noi definiamo «centriste» (cioè oscillanti tra una confezione rivoluzionaria e un contenuto riformista): è la retorica sulle «vittime civili».
Premesso che da marxisti nell'umanità distinguiamo le classi, non i civili dai militari; e considerato che in Israele tutti i civili (che sono tutti occupanti abusivi) sono periodicamente richiamati alle armi, o vivono armati fino ai denti come i coloni in Cisgiordania; il punto è che una resistenza popolare, che non dispone di aerei e carri armati né di un esercito, non può attenersi a un presunto codice morale di combattimento nella lotta impari con l'occupante.
Che la retorica sui civili sia parte integrante della propaganda filo-sionista dei mass media borghesi è comprensibile. Meno comprensibile che certi sedicenti comunisti inizino ogni discorso piangendo le «vittime civili di ambo le parti».
Se mai si volesse applicare un ideale codice di combattimento, dovremmo condannare la fucilazione degli ostaggi (civili, incluso il vescovo Darboy) da parte della Comune di Parigi; o l'uso di ostaggi da parte dei bolscevichi durante la guerra civile in Russia; o la Resistenza operaia in Italia; o la lotta di liberazione condotta dal Fln in Algeria, eccetera. Esempi che facciamo non a caso, in quanto si tratta di eventi che le organizzazioni che si definiscono «comuniste» rivendicano. Ma evidentemente è più facile rivendicare l'uso della forza quando riguarda lontani fatti storici, che scontrarsi con l'opinione pubblica borghese e difendere oggi il diritto dei palestinesi a combattere contro le forze di occupazione con ogni mezzo necessario.
Trotsky, in quel magnifico pamphlet che è Moralisti e sicofanti (9),  suggerì agli antenati dei riformisti e centristi attuali di scrivere un codice morale della guerra civile, che metta al bando l'uso degli ostaggi, di fucili e bombe a mano e i bombardamenti di civili... avvertendo tuttavia che «fin tanto che questo codice resterà inaccettato quale regola di condotta per tutti, oppressori e oppressi, le classi in lotta cercheranno di riportare la vittoria con ogni mezzo, mentre i moralisti piccolo-borghesi (... resteranno) prigionieri della morale della classe dirigente (...)». Sante parole!

 

I confusionari che cancellano la questione nazionale

Alcuni gruppi che si vogliono «internazionalisti», e financo «marxisti» (si tratta di un malinteso, chiaramente), sostengono che la chiave sta nell'unire il proletariato israeliano e quello palestinese contro le rispettive borghesie.
Sono gli stessi che, convinti di applicare un comandamento marxista, definiscono tutte le guerre come imperialiste e non riconoscono (non se ne abbiano a male Marx e Lenin) guerre giuste, e per questo ripetono davanti a qualsiasi conflitto che si tratta di tenere una posizione di disfattismo bilaterale (è quanto ad esempio fanno davanti all'invasione russa dell'Ucraina, rifiutandosi di sostenere la resistenza ucraina).
In Italia abbiamo un ricco campionario di questi gruppi, che negano la questione nazionale, a loro dire superata in epoca imperialista, così come negano ogni altra rivendicazione democratica (10). Cioè rimuovono la necessità di un programma transitorio che includa le questioni democratiche per costruire «un ponte» tra la situazione attuale e la rivoluzione (11).
Sono, riprendendo la definizione ironica di Lenin, gente che non si si alza dalla poltrona finché non vede sorgere una rivoluzione «pura» (12).
È la posizione espressa (con una indubbia coerenza) da vari gruppi che discendono, per via diretta o indiretta, dal bordighismo (per quanto accostarli a Bordiga sia far loro un complimento).
Ma è da segnalare che una variante analoga si ritrova anche in gruppi che si richiamano al trotskismo. È il caso di Scr e della Imt che in merito alla vicenda palestinese, pur schierandosi con i palestinesi (a differenza di quanto fanno con la resistenza ucraina), saltano a piedi uniti la questione nazionale e sembrano considerare Israele come un qualsiasi Stato capitalista, invece che una entità coloniale; contrappongono la rivendicazione democratica dell'autodeterminazione a quella socialista (l'esproprio della borghesia), rinviando la soluzione della questione nazionale al socialismo. A differenza dei bordighisti, usano argomenti meno impopolari nelle piazze che manifestano per la Palestina. Argomenti che hanno per di più, casualmente, il pregio di non ostacolare un accodamento ai riformisti, i quali non vogliono sentir parlare di distruzione dello Stato di Israele. Ecco così che Scr preferisce parlare di «disgregazione di Israele da un punto di vista di classe» (13).
Dietro l'apparente radicalità «classista» di questa posizione si cela o il vuoto tipico dei settari o (ed è il caso di Scr) l'opportunismo, come ebbe già a dimostrare Lenin cento anni fa nella sua polemica con analoghe posizioni di Bucharin (14). Il settarismo e l'opportunismo sono spesso le due facce della stessa medaglia.
Nel caso in esame non si considera poi che quello israeliano è uno Stato sui generis con un proletariato sui generis, composto da coloni: e coloni vanno considerati non solo quelli della Cisgiordania ma pure quelli che abitano nei confini di Israele godendo dello status di unici cittadini, con privilegi sanciti da leggi razziali che difendono una superiorità etnica degli ebrei in relazione agli arabi, e che soprattutto abitano nelle terre e nelle case che sono state espropriate ai palestinesi. Se, in nome di una presunta analisi «di classe», non si tiene conto di questo, non si capisce perché (salvo casi isolati) tutte le mobilitazioni del proletariato ebraico di Israele, incluse le più recenti contro Netanyahu, sono mosse da rivendicazioni contro singoli provvedimenti governativi ma non pongono mai in discussione l'esistenza di Israele.
Parlare dunque di una prospettiva di convivenza tra israeliani e palestinesi significa, in generale, avere le idee confuse sulla questione nazionale e sull'approccio marxista ad essa; significa, in particolare, sorvolare sulla necessaria distruzione di Israele, Stato coloniale che sopravvive non solo con il «normale» sfruttamento dei proletari ma come base militare finanziata dall'imperialismo.

 

La necessità di un'altra direzione

La nostra posizione – e quella storica del trotskismo originario – è basata sul rifiuto della partizione Onu del '47 e per questo sosteniamo l'obiettivo della distruzione di Israele come passaggio ineludibile di una futura convivenza della maggioranza palestinese (inclusi i milioni di profughi) con una minoranza ebraica non sionista (dunque non israeliana) in una Palestina non razzista e unica: dal Giordano al mare.
Non si tratta, ovviamente, di dividere in tappe il processo ma di includere la questione nazionale palestinese in un programma transitorio che abbia come sbocco la rivoluzione e la costruzione di Stati socialisti del Medio Oriente. Per realizzare tutto ciò bisogna sostenere non una pacificazione, come vorrebbero i riformisti, ma un'estensione del conflitto che coinvolga tutto il proletariato arabo, col sostegno attivo del movimento dei lavoratori e giovani dei Paesi imperialisti. Le piazze di tutto il mondo in queste settimane dimostrano che non si tratta di un sogno. Certo lo sviluppo del movimento dipenderà in gran parte dall'intervento coerente dei rivoluzionari.
Per questo è necessaria la costruzione di un'altra direzione, rivoluzionaria, del movimento operaio internazionale e in Palestina (15). Ma la costruzione di questa nuova direzione non può avvenire nel vuoto. Passa per il sostegno incondizionato alla resistenza palestinese e la partecipazione alla lotta per espellere i sionisti da quella terra che oggi sulle cartine geografiche è indicata come «Israele».

 

(7 novembre 2023)

 

 

Note

(1) Tra i tanti libri di Ilan Pappé tradotti in italiano segnaliamo in particolare: La pulizia etnica della Palestina, 2006, ed. it. Fazi, 2008; La prigione più grande del mondo, 2017, Fazi, 2022; 10 miti su Israele, 2017, Tamu edizioni, 2022; e una gigantesca Storia della Palestina moderna, 2003, Einaudi, 2014.

(2) I. Pappé, La pulizia etnica della Palestina, pp. 4-5.

(3) I. Pappé, ivi, p. 117.

(4) R. Schoenman, The Hidden history of Zionism, 1988: ne esistono traduzioni in varie lingue (reperibili anche in pdf su internet) ma non in italiano.

(5) Chi volesse approfondire origini e storia del sionismo può trovare utili: N. Weinstock, Storia del sionismo, 1969, Massari editore, 2006 e A. Léon, Il marxismo e la questione ebraica, 1946, Samonà e Savelli, 1972. Leon, ebreo polacco, dirigente della Quarta Internazionale, morì a soli 26 anni nel campo di concentramento di Auschwitz. Segnaliamo anche una importante ricerca di Shlomo Sand, L'invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, 2010.

(6) R. Schoenman, op. cit.

(7) Sulle posizioni di Rifondazione Comunista si veda la risoluzione approvata dal Comitato Politico Nazionale (26 ottobre 2023) http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=54636

La posizione di Potere al Popolo è espressa in «Che succederà adesso in Palestina e che dobbiamo fare noi» (18 ottobre 2023) https://poterealpopolo.org/palestina-cosa-dobbiamo-fare/

in cui Pap rivendica che Israele si ritiri «rientrando nei confini del 1967», e si rispettino gli accordi di Oslo.

(8) Dal 1948 al 1967 in Israele il governo è stato presieduto ininterrottamente dai laburisti (Ben Gurion, Golda Meir, Yitzhak Rabin); poi fino al 1984 dal Likud (conservatori, con Menachem Begin e Yitzhak Shamir); poi in alternanza tra gli uni e gli altri e, dal 2009 fino ad oggi, salvo brevi periodi, da Benyamin Netanyahu (Likud).

(9) L. Trotsky, Moralisti e sicofanti contro il marxismo, 1939, https://www.marxists.org/italiano/trotsky/1939/6/moralisti.htm

(10) È la classica posizione «ultra-sinistra» con cui polemizzarono tanto Lenin come Trotsky. Quest'ultimo ad esempio scrisse: «Il diritto all'autodeterminazione nazionale è naturalmente un principio democratico e non socialista. Ma i principi autenticamente democratici sono sostenuti e realizzati nella nostra epoca solo dal proletariato rivoluzionario: è anche per questa ragione che essi sono così strettamente intrecciati con i fini socialisti».

In «L'indipendenza dell'Ucraina e i confusi settari», 1939,

https://www.marxists.org/italiano/trotsky/1939/7/indUcraina.htm

(11) L. Trotsky, Programma di transizione, 1938, Massari editore, 2008. Qui (pp. 126-127) Trotsky scrive: «I settari non vedono che due colori: il rosso e il nero. Così, per non cadere essi stessi in tentazione, semplificano la realtà. Si rifiutano di distinguere tra i due schieramenti della guerra civile in Spagna per il fatto che entrambi gli schieramenti hanno un carattere borghese. Per lo stesso motivo, ritengono necessario mantenersi «neutrali» nella guerra tra Giappone e Cina. (...) Questi sterili politicanti di norma non hanno bisogno di un ponte nella forma delle rivendicazioni transitorie perché non hanno alcuna intenzione di passare sull'altra sponda. Semplicemente si trastullano senza muoversi, autocompiacendosi con la continua ripetizione delle stesse vuote astrazioni. Gli eventi politici sono per loro un'occasione per fare dei commenti, non per agire».

(12) V.I. Lenin, «Risultati della discussione sull'autodecisione», 1916, in Opere Complete. Qui Lenin irride chi crede che «da un lato si schiera un esercito e dice: "Siamo per il socialismo", da un altro lato si schiera un altro esercito e dice: "Siamo per l'imperialismo", e questa sarà la rivoluzione sociale! (...) un punto di vista pedantesco e ridicolo (...). Colui che attende una rivoluzione sociale "pura" non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione».

(13) Si veda la dichiarazione della Imt (di cui Scr è sezione italiana): «Basta ipocrisia! Difendere Gaza» (11 ottobre 2023),

https://www.rivoluzione.red/basta-ipocrisia-difendere-gaza-la-dichiarazione-della-tmi/

In cui si legge: «In ultima analisi, solo la creazione di un fronte unito tra il popolo palestinese e la classe operaia e i settori progressisti della società israeliana creerà la possibilità di dividere lo Stato israeliano su linee di classe, aprendo la strada a una soluzione duratura e democratica della questione palestinese».

(14) La polemica di Lenin con Bucharin (e Radek, Piatakov e altri), che sosteneva che la questione dell'autodeterminazione dei popoli non fosse più all'ordine del giorno in epoca imperialista e fosse anzi da respingere in quanto irrealizzabile o reazionaria, è contenuta in alcuni testi del 1916, in particolare si vedano: «Risposta a Kievski» [alias Piatakov, ndr], «Intorno a una caricatura di marxismo» e «Sulla tendenza nascente dell'economismo imperialistico». Tutti e tre contenuti nel volume 23 delle Opere complete, Editori Riuniti, 1966, pp. 9-74.

(15) Ci ripromettiamo di dedicare un prossimo articolo all'analisi delle direzioni storiche e attuali dei palestinesi: partendo dall'Olp e dalle sue varie componenti per arrivare alle forze che hanno diretto l'azione del 7 ottobre, tra cui figura non solo Hamas ma anche il Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp) e altre formazioni.

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