Partito di Alternativa Comunista

Tunisia, Egitto, Libia. E' solo l'inizio...

Tunisia, Egitto, Libia. E' solo l'inizio...
LA RIVOLUZIONE E' TORNATA.
FATE LARGO!
Tre cose su cui riflettere

 
 
 di Francesco Ricci
Dopo la Tunisia e l'Egitto, l'ondata rivoluzionaria, nata ad Atene, cresciuta con rapide fiammate nelle capitali europee (gli scioperi che hanno paralizzato la Francia; le rivolte studentesche a Londra e Roma, ecc.), arrivata in Africa e in Medio Oriente, sta colpendo simultaneamente decine di Paesi. Yemen, Algeria, Bahrein, Giordania, Marocco, ma anche Iran e altri. Il fronte più avanzato è oggi in Libia.
Con decine di articoli del Pdac e della nostra Internazionale, la Lit-Quarta Internazionale, abbiamo seguito quotidianamente lo sviluppo dei fatti, li abbiamo analizzati nel dettaglio. Qui vogliamo provare a ricavare alcune generalizzazioni da questi fatti, fermandoci su tre cose che meritano l'attenzione di tutti i lavoratori e i giovani che lottano.
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Primo. i capitalisti in crisi non trovano soluzioni
Il primo pugno che ha fatto vacillare il capitalismo è arrivato sotto forma di crisi economico-finanziaria. La più grave dell'ultimo secolo. Il secondo pugno, un uppercut da stendere al tappeto, sono queste rivoluzioni quotidiane. Da qualche mese ogni giorno ne inizia una. Sembra di vedere una fune stretta in un nodo scorsoio: la crisi economica alimenta la lotta di classe, le esplosioni sociali sono difficilmente arginabili perché la crisi economica non consente ai governi impegnati nel recupero del tasso di profitto di fare concessioni, i sommovimenti rivoluzionari che sono generati da questo intreccio peggiorano la crisi economica. Il nodo scorsoio si stringe attorno al collo flaccido di presidenti, banchieri e industriali. Tanto più la notte si fa buia e tempestosa per i padroni, visto che  le rivoluzioni non esplodono in qualche isoletta ma nell'area che ospita le più importanti risorse energetiche del pianeta. Col rischio (per i governi imperialisti) di vanificare in qualche settimana tutti i "piani anti-crisi" (pagati dai lavoratori) varati in questi mesi dai governi di centrodestra e centrosinistra.
Cercano di prendere il controllo delle transizioni, sospingendo governi provvisori a loro fedeli. Ma, come si vede in Tunisia e in Egitto, le masse rovesciano questi governi dopo pochi giorni. Vorrebbero, gli imperialisti, intervenire militarmente. Ma hanno difficoltà perché i fronti sono troppi e già sono impegnati in una guerra, perdente, in Afghanistan.
Poche cose (diciamo tre) potrebbero rendere la situazione ancora più difficile, per loro. Prima cosa, una estensione della rivoluzione in Arabia Saudita (con l'Egitto, già compromesso, e Israele il triangolo che garantisce il loro dominio nell'area). Seconda cosa, una esplosione sociale in Cina. Terza cosa, un nuovo rimbalzo della lotta di classe in Europa. Stravolgendo ogni calcolo statistico, si dà il caso che tutte e tre queste eventualità siano già comparse. In Arabia Saudita sono iniziate le prime manifestazioni, subito represse. Anche in Cina (con tutto ciò che questo può comportare negli equilibri mondiali), sulla base degli scioperi operai vincenti dell'ultima fase sono in corso manifestazioni. E per quanto riguarda l'Europa, i fuochi covano ancora sotto la brace e in quache caso (ancora Atene, capitale di un Paese in bancarotta) le fiamme lambiscono i palazzi del potere.
 
Secondo. I fatti rivoluzionari fanno piazza pulita di ogni teoria riformista
Della crisi economica tutte le varianti del riformismo hanno visto a lungo solo la zona d'ombra: licenziamenti, disoccupazione, precarietà. Ispirati cantori di sciagure, i riformisti ci hanno spiegato che la crisi "destrutturava" la classe operaia, o persino (aggiungevano i più audaci) la faceva scomparire definitivamente; decenni di riflusso delle lotte, un deserto senza oasi, tempi cupi. C'era da mettersi in testa che le uniche lotte possibili erano quelle difensive, minimali, probabilmente perdenti vista la debolezza dei lavoratori. Inutile pensare ad alternative di sistema, per un lungo periodo meglio accontentarsi di piccole ma ben più realistiche alternanze, fermare la destra, limitare il danno, imparare ad apprezzare il meno peggio, le piccole cose della vita in un mondo difficile e in definitiva immutabile. D'accordo, dove possibile, qualche ministro o sottosegretario della "sinistra radicale" avrebbe tentato in prima persona - col sacrificio e il sudore della fronte - di spostare tre aggettivi, inserire due virgole importanti, proporre un sinonimo desueto nelle politiche dei governi dei banchieri (di centrosinistra). E una volta caduti fuori dal governo (come è successo a Ferrero e Vendola), niente paura: si cerca di rientrare al prossimo giro. Sempre per battere le destre, aprire una fase nuova, e così via. Ma... Ma come possono metterla ora? Cosa possono dire oggi i Ferrero e i Vendola? L'architrave del loro riformismo governista, la giustificazione della collaborazione di classe con la borghesia si reggeva su una certezza ripetuta fino alla nausea: le rivoluzioni se mai ci sono state (qualcuno ci ha spiegato che erano solo dei golpe fortuiti) sono una cosa del passato, se c'è qualcuno che vuole assaltare il Palazzo d'Inverno è un matto, merita solo un sorriso di compatimento.
Provate a prendere adesso qualcuno di questi "realisti" riformisti e chiedetegli di ripetervi con parole sue cosa sta succedendo nel mondo. Come mai alla testa della rivoluzione egiziana c'è la classe operaia, con i suoi scioperi prolungati nel Canale di Suez, nei trasporti del Cairo (in corso anche in questi giorni).
Superato il primo imbarazzo (è un imbarazzo autentico, stavolta) vi daranno una di queste due risposte. Un primo gruppo (i nostalgici dello stalinismo) vi spiegheranno che "non sono cose che capitano per caso". Questi sedicenti rivoluzionari che non riescono a riconoscere una rivoluzione nemmeno quando ci vanno a sbattere contro col naso, vi parleranno di Cia, di Mossad, o di chissà chi che ci ha messo lo zampino (1). Come si può pensare, infatti, di essere davanti a vere rivoluzioni?
Alcuni in questi giorni sono arrivati a dire persino che la repressione sanguinaria di Gheddafi sarebbe un'invenzione della stampa imperialista. Immagini, evidentemente, girate in studio (siamo dalle parti di quelli che sostenevano che l'Apollo non fosse mai arrivato sulla Luna). A questo primo gruppo vanno iscritti d'ufficio anche vari gruppi para-bordighisti (il para sta dire che Bordiga, pur con i suoi mille limiti settari, non c'entra niente con questi presunti discepoli e sicuramente si dissocia dalla tomba). Non metterebbe conto di parlarne, trattandosi in tutto il Paese di quattro gruppi con quattro fogli per un totale di una dozzina di persone: li citiamo solo perché costituiscono un caso da manuale di come il leninismo non possa sopravvivere se conservato per decenni nella canfora e soprattutto perché i loro argomenti, apparentemente dotti, sono ripresi da tanti altri. Con gli occhiali sulla punta del naso e il loro manuale della rivoluzione in mano, comparano i fatti odierni con il loro presunto distillato degli insegnamenti di Marx e Lenin (i quali pure fanno sapere di volersi dissociare) per scoprire che i fatti non si accordano alle loro analisi, dunque l'errore non può che stare nei fatti. Rivoluzioni? ripetono in un involontario coro con i riformisti. Al più, ci spiegano, si può parlare di "rivolte" e, nel caso libico, di "rivolte tribali".
Siccome la storia, secondo il loro manuale, procede per pesantissimi cicli di marmo "oggettivi", che l'intervento soggettivo non può nemmeno scalfire, a quanto scrive uno di questi giornali mentre la guerra civile infiamma la Libia e masse di giovanissimi, senza paura, accerchiano Tripoli: "è presto per prendere una posizione definitiva sugli avvenimenti libici". I para-bordighisti devono prima studiare. Trotsky, già ottant'anni fa, definiva questa corrente "una morta setta". Difficile trovare per gli eredi una espressione più appropriata.
Un secondo gruppo fornisce un'altra descrizione di quanto sta accadendo: "è una pacifica rivolta contro dei dittatori, fatta (sia ben chiaro) con facebook e twitter". In questa seconda risposta si condensa il tentativo, anche qui, di far coincidere i fatti con la propria teoria.
Siccome (Bertinotti docet) la "non-violenza" è un dogma, la storia (ci spiegano) non passa più attraverso lo scontro violento tra le classi (come ha fatto negli ultimi secoli, e, a noi pare, continua a fare ancora) ma si risolve con le pacifiche rivolte dei fiori, immateriali, fatte su internet e con i blog... Se poi la teoria di facebook come surrogato della lotta operaia e della stessa guerra civile si rivela palesemente estranea ai fatti reali, si aggiunge che in ogni caso sono situazioni "molto diverse dalla nostra" (nel canovaccio rientrano vari luoghi comuni: "fanno la rivoluzione perché non avevano una democrazia parlamentare", "è una questione di fame, mentre qui da noi..."). Chiaro, qui da noi a risolvere le cose ci penserà il prossimo governo di Rosy Bindi, o Bersani o Vendola, con Ferrero a sostenerli "criticamente". Non solo, aggiungono i riformisti-governisti-pacifisti: è meglio che pure in Africa non si esageri troppo con la violenza di piazza (che ignora i precetti basilari del galateo riformista): per questo invocano un "intervento della diplomazia internazionale" (entità astratta che sarebbe, secondo loro, separabile dagli eserciti imperialisti), e in particolare un "ruolo di pace dell'Europa" (leggi: dell'imperialismo europeo).
E si potrebbe andare avanti a lungo. Basta farsi un giro sui siti internet della sinistra italiana e internazionale (a livello internazionale, in grande imbarazzo sono, ad esempio, tutti i sostenitori di Chavez, a sua volta sostenitore di Gheddafi) (2). Altri, ad esempio Luca Casarini, ci spiegano che quando si parla di "fare come l'Egitto" deve essere chiaro che una cosa simile "non è riproducibile a queste latitudini per storia, contesti e problemi". Problemi tanti (uno, seppure secondario, sono le posizioni che sostiene Casarini), ma la storia la lasci stare: basta perdere un'oretta su un mediocre manuale per scoprire che anche a queste latitudini si sono fatte (e in qualche caso quasi vinte) delle rivoluzioni.
Questo è il dibattito surreale a sinistra di fronte alle rivoluzioni reali di queste settimane. Certo ci sono eccezioni (rare) ma prevalgono le prese di distanza (specie dalla rivoluzione libica), i distinguo, la confusione. E non poteva essere diversamente: la rivoluzione non rientra e non può rientrare negli schemi di compromesso tra le classi dei riformisti o dei centristi (cioè i semi-riformisti). A questa gente la rivoluzione piace solo quando è una stella lontana anni luce, un puntolino luminoso da osservare col cannocchiale.
 
Terzo. Il problema fondamentale da risolvere resta la direzione rivoluzionaria
All'inizio del Programma di transizione Trotsky sbeffeggia coloro che teorizzano la "immaturità" del socialismo, dicendo che chi afferma una cosa simile è o un ignorante o un mistificatore, cioè un riformista che imbroglia le cose a suo esclusivo vantaggio personale. E aggiunge che tuttavia perché possano esserci rivoluzioni socialiste vittoriose è necessario risolvere il problema storico della direzione proletaria. Per questo conclude: "La crisi storica dell'umanità si riduce alla crisi della direzione rivoluzionaria." (3)
Le rivoluzioni in corso in Tunisia, Egitto e Libia smentiscono questa legge fondamentale del marxismo, confermata da due secoli di storia? Alcuni si sono avventurati per questa strada, sostenendo che se sono possibili delle rivoluzioni, come quelle che hanno cacciato Ben Alì e Mubarak e quasi cacciato Gheddafi, in assenza di una direzione comunista, ciò significa che è sufficiente la cosiddetta "autorganizzazione" delle masse.
Le cose, a nostro giudizio, non stanno così. Intanto i comunisti, da Marx a Lenin e Trotsky, non hanno mai sostenuto che l'azione di un partito rivoluzionario sostituisca l'azione delle masse. Questa è una caricatura del marxismo. Hanno piuttosto sostenuto, i marxisti, che senza un partito d'avanguardia (cioè al contempo distinto dalla classe e integrato nelle sue lotte) che raggruppi i settori più avanzati, sulla base di una chiara delimitazione programmatica, senza un programma transitorio per guadagnare la maggioranza del proletariato politicamente attivo al progetto socialista, senza una Internazionale rivoluzionaria, cioè un partito mondiale che lavori all'estensione della rivoluzione, senza tutto ciò ogni processo rivoluzionario è destinato a essere sconfitto. Trotsky usava una immagine efficace per rendere visibile questo problema: "Senza una organizzazione dirigente l’energia delle masse si volatilizzerebbe come il vapore non racchiuso in un cilindro a pistone. Eppure il movimento dipende dal vapore e non dal cilindro o dal pistone.” (4)
Non si trattava di affermazioni campate in aria: Trotsky si basava sulla esperienza russa. Qui le masse avevano prodotto una forma molto avanzata di "autorganizzazione" (ma sarebbe meglio dire "organizzazione") della lotta: i soviet. Eppure senza l'intervento politico del partito bolscevico i soviet sarebbero rimasti sotto l'egemonia dei partiti riformisti che subordinavano la lotta delle masse al sostegno al governo borghese delle sinistre. Marx ed Engels, diversi decenni prima, aveva spiegato la sconfitta della Comune del 1871 con l'assenza di una direzione marxista in grado di contrastare l'egemonia delle altre correnti riformiste o centriste anarchiche che erano maggioritarie all'interno degli organismi di "autorganizzazione" delle masse.
Lasciamo per un attimo la teoria marxista e torniamo ai fatti odierni. Risulta evidente che tutti i limiti di queste rivoluzioni sono determinati appunto dall'assenza di una direzione comunista, di un partito d'avanguardia marxista rivoluzionario. In Egitto abbiamo visto nelle piazze masse oceaniche: certo non si può dire che sia mancata una mobilitazione di massa. E questa mobilitazione è stata in grado di cacciare Mubarak. Eppure le masse proletarie non sono in grado di conquistare il potere, che rimane nelle mani di governi provvisori borghesi (per quanto traballanti). Lo stesso dicasi per la Tunisia (dove pure le masse continuano a non fidarsi dei governanti di ricambio). In Libia il problema immediato è, ovviamente, la sconfitta militare di Gheddafi. Ma la questione non si risolverà con questo. L'autonominato "governo provvisorio" è nelle mani della borghesia. Una borghesia nazionale che, in Libia, come in Egitto, come in Tunisia, non è in grado di portare a termine i compiti democratici della rivoluzione, perché è subalterna in varie forme all'imperialismo, e per questo cerca di deviare il corso della rivoluzione.
Pur nella diversità delle tre situazioni, e dell'evolversi dei fatti che abbiamo analizzato separatamente in molti articoli a cui rimandiamo, in tutte e tre le rivoluzioni sarebbe necessario, perché possano svilupparsi in senso favorevole agli interessi di larghe masse, un programma indipendente del proletariato che articolasse le rivendicazioni democratiche coniugandole con quelle socialiste. Assemblee costituenti rivoluzionarie, la rottura degli accordi con l'imperialismo, l'esproprio del latifondo e delle aziende nazionali e multinazionali. Solo un governo operaio e contadino basato sui comitati di lotta, sui comitati dei soldati passati con la rivoluzione, difeso dall'armamento generalizzato degli insorti e dunque sulla rottura rivoluzionaria dello Stato borghese, potrebbe assolvere a questi compiti, sviluppando quindi la rivoluzione come rivoluzione socialista, e sul terreno internazionale aprisse la prospettiva di una federazione socialista di repubbliche arabe. E' il programma della rivoluzione permanente (fondamento del trotskismo) che trova una conferma clamorosa nei fatti di queste settimane: cioè il programma su cui la Lega Internazionale dei Lavoratori lavora per contribuire a ricostruire la Quarta Internazionale.
L'insieme di questi compiti può essere risolto, ripetiamolo, solo da una direzione comunista rivoluzionaria in quei Paesi: una direzione ancora da costruire. Non è un compito da poco ma sono le stesse esigenze quotidiane della rivoluzione a far emergere, quotidianamente, questa esigenza imperiosa.
Chiaramente non sarà con qualche articolo che potremo contribuire a risolvere la cosa. Ma i lavoratori europei possono fare molto per aiutare lo sviluppo di queste rivoluzioni. In primo luogo contrapponendosi a ogni intervento militare (o comunque lo si chiami, "umanitario", "diplomatico" ecc.) dei propri governi imperialisti. In secondo luogo riprendendo il testimone della lotta che, in qualche modo, gli stessi lavoratori europei con le loro lotte hanno consegnato alle masse arabe.
La lotta rivoluzionaria in Nord Africa e in Medio Oriente può offrire un nuovo grande impulso alle lotte in Europa. Le lotte in Europa possono favorire lo sviluppo delle rivoluzioni arabe in rivoluzioni socialiste. Pur da fronti diversi, il proletariato dei diversi continenti combatte un'unica lotta. Quella per il rovesciamento della dittatura capitalistica e per l'instaurazione di governi dei lavoratori, cioè della dittatura proletaria.
Usiamo parole forti, importanti, quelle che servono, anche se fanno sorridere i burocrati riformisti, i predicatori del capitalismo come ultimo orizzonte dell'umanità, quelli che per anni si sono industriati per cancellare la parola rivoluzione, per farla dimenticare ai lavoratori e ai giovani, guadagnandosi così qualche trespolo nei sottoscala del potere borghese. Purtroppo per loro, a scapito del loro scetticismo, del loro falso realismo, dei loro risolini, grazie alla lotta coraggiosa dei giovani rivoluzionari libici, egiziani, tunisini, in poche settimane non solo sono crollati regimi che sembravano eterni come la piramide di Cheope ma, fatto ancora più importante, la parola rivoluzione ha riguadagnato il suo posto centrale nella scena politica internazionale, nella realtà viva di milioni di proletari.
Lasciamo pure che, per giustificare la loro politica di capitolazione, i dirigenti riformisti e i burocrati sindacali (quelli che annunciano scioperi generali... di quattro ore), ripetano che le rivoluzioni esistono solo nei sogni o in posti lontani. Lasciamo che ci spieghino che l'Italia e l'Europa non sono la Libia e l'Egitto, che qui non è utile andare in piazza e costruire uno sciopero generale prolungato. Sono gli stessi acuti analisti che poche settimane fa, con grande lungimiranza, ci spiegavano che l'Egitto non era la Tunisia. E subito dopo che la Libia non era l'Egitto...
La verità è che padroni e riformisti di tutto il mondo tremano insieme davanti a questo nuovo grandioso spettacolare scenario offerto dalla lotta di classe. E' il loro mondo che brucia. E anche se non vogliono usare il nome giusto della cosa, la cosa non cambia. E' la rivoluzione che è tornata. Fate largo!
 
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(1) e (2) Sugli argomenti con cui gli stalinisti si schierano contro la rivoluzione libica, in nome di un presunto "anti-imperialismo"; e sugli argomenti dei sostenitori di Chavez, rimandiamo all'articolo di Valerio Torre "Anche a sinistra c'è chi bacia l'anello di Gheddafi" (pubblicato sul nostro sito il 5 marzo).
(3) Lev Trotsky, Programma di transizione (Massari editore, 2008; nell'edizione da noi tradotta e curata).
(4) Lev Trotsky, prefazione a Storia della rivoluzione russa (Oscar Mondadori, 1978)
 

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