Referendum Cgil: la nostra posizione
Nota del Dipartimento sindacale del Pdac
Venerdì 12 aprile il maggiore sindacato italiano, la Cgil, ha depositato in Corte di cassazione quattro quesiti referendari, avviando così la complessa macchina per la convocazione del referendum popolare. I quesiti riguarderanno l’attuale legislazione in materia di reintegro in caso di licenziamenti illegittimi, indennizzi in caso di licenziamento, obbligo di causale per i contratti a termine ed estensione al committente della responsabilità solidale in caso di infortuni ai lavoratori in appalto.
Sgombriamo subito il campo da equivoci: Alternativa comunista sosterrà i referendum, non solo e non tanto perché, in caso di esito favorevole, apporterebbero miglioramenti alla legislazione sul lavoro, ma perché una sconfitta referendaria si tradurrebbe, inevitabilmente, nella consacrazione politica del Jobs act e di una tra le peggiori stagioni di attacchi diretti ai lavoratori: ricordiamo che il Jobs act, scritto sotto dettatura di Confindustria e su «consiglio» di Draghi con la famosa lettera della Bce, fu il proseguimento dell’era montiana e della «riforma» Fornero: prima hanno monetizzato i licenziamenti, poi hanno reso strutturale la precarietà. Contrastare quella stagione a tutti i livelli (compreso quello referendario) è un dovere morale e politico a cui i lavoratori non devono sottrarsi!
Come da nostra consuetudine crediamo sia importante spiegare qui le nostre critiche, in aperta polemica con la direzione della Cgil e denunciando la connotazione di classe della democrazia borghese, delle sue istituzioni e dei suoi istituti.
La democrazia borghese non è democratica
Quando parliamo di referendum è bene chiarire come il principale strumento di democrazia diretta dell’ordinamento italiano sia compresso e deviato sui binari della compatibilità con lo Stato borghese.
Infatti, il referendum, che può solo cancellare un testo di legge senza aggiungere nulla, è rivolto ai «cittadini», non ai lavoratori: una distinzione tutt’altro che marginale, poiché milioni di lavoratori immigrati privi di cittadinanza — che sono le principali vittime delle leggi che si vorrebbero abrogare! — non avranno accesso alle urne; potranno invece votare coloro che si avvalgono di quelle stesse leggi per sfruttarli. A questo va aggiunto che per richiedere un referendum servono mezzo milione di firme e che per validarlo è necessario il raggiungimento di un quorum di metà dell’intero corpo elettorale, vale a dire che almeno 26 milioni di persone dovranno andare a votare, altrimenti il referendum verrà cestinato.
In queste condizioni le chiavi della macchina referendaria sono nelle poche mani dei principali partiti parlamentari e dei sindacati confederali, inoltre i mezzi di comunicazione sono nelle mani dei padroni!
La direzione della Cgil negli anni del massacro sociale
Mentre i governi dei «tecnici», con l’appoggio di tutti i maggiori partiti, fecero carta straccia di diritti conquistati in un decennio di durissime lotte operaie, il maggiore sindacato italiano non solo non chiamò la base alla lotta, ma aprì una stagione di concertazione scandita da accordi interconfederali che hanno bandito il conflitto sociale in favore delle trattative a porte chiuse e senza lotte, contrattualizzando nei rinnovi dei Ccnl proprio quelle norme che oggi vorrebbero abrogare. Tutta l’impalcatura delle regole che disciplinano le cosiddette «relazioni industriali» è improntata a scongiurare le lotte e gli scioperi, illudendo così la classe lavoratrice che sia possibile una soluzione pacifica e vantaggiosa per entrambe le principali classi sociali.
12 anni dopo la riforma Fornero, 10 anni dopo l’accordo vergogna sulla rappresentanza, 9 anni dopo il Jobs act e 6 anni dopo il Patto per la fabbrica possiamo, oltre ogni ragionevole dubbio, dimostrare che la concertazione ha prodotto un massacro senza eguali nella storia dell’Italia repubblicana e che il concetto di «pace sociale», tanto caro a Confindustria e ai governi ad essa asserviti, si è tradotto nel seppellire l’ascia di guerra del proletariato e caricare di munizioni i fucili della borghesia.
Sulla base del quadro storico che abbiamo appena descritto è chiaro che siamo di fronte a una grande operazione di marketing da parte della direzione della Cgil: da una parte si cerca di dare una resettata alle nefaste politiche di collaborazione di classe degli ultimi anni, dall’altra si vuole creare un alibi per non aprire una stagione di conflitto generalizzato, perché è nel silenzio della concertazione che i burocrati opportunisti si arricchiscono sulla pelle dei lavoratori: la lotta di classe, al contrario, fa cadere loro le maschere!
Sono stati i carnefici e vogliono schierarsi con le vittime…
Al netto delle destre reazionarie e liberiste, che si posizioneranno in modo avverso rispetto alla consultazione popolare, il referendum ha creato scompiglio nel Partito democratico, autore e attore protagonista assoluto della stagione di attacchi ai lavoratori di cui sopra. Infatti, non a caso, la recente dichiarazione di Elly Schlein, sprezzante del senso della vergogna, dove annuncia che firmerà per richiedere i referendum, è stata accolta con freddezza e tensione da alcuni esponenti del partito di cui è segretaria. Non dimentichiamoci che sono stati proprio i governi a guida Pd (o sostenuti dal Pd) a infliggere i colpi più pesanti alla classe operaia in materia di legislazione del lavoro e delle pensioni - legge Fornero (governo Monti), smantellamento dell’articolo 18 e Jobs Act (governo Renzi) - in alcuni casi anche col sostegno di partiti della sinistra riformista e «comunista» (come nel caso dell’introduzione del lavoro precario in Italia - pacchetto Treu - avvenuto ai tempi del primo governo Prodi con il voto a favore di Rifondazione comunista).
Il Movimento 5 stelle, che oggi vuole lavarsi la faccia davanti ai lavoratori sostenendo il referendum, forse si dimentica di aver votato i decreti sicurezza (dove si prevede la galera per i lavoratori che fanno un picchetto!) voluti dalla Lega Nord con cui ha condiviso l’esperienza di governo; oppure di aver sostenuto il governo Draghi, che ha sbloccato i licenziamenti lasciando migliaia di operai a casa e ripristinato la riforma Fornero delle pensioni: sono gli anni in cui quelli che oggi si presentano come Alleanza verdi e sinistra, nuova lista elettorale in cui si confondono, tra la mischia riformista, Europa verde, Sinistra italiana, Art. 1 e Possibile (già immissari di Leu), si sono comodamente posizionati sul divano dell’appoggio esterno (ricordiamo che Sinistra italiana, dopo aver appoggiato il governo Conte2, si spaccò proprio sul voto al governo Draghi, quando la maggioranza dei parlamentari di Leu votò la fiducia).
La sinistra sindacale
Oggi siamo nella fase della raccolta firme per la richiesta dei referendum che, qualora venissero approvati, si svolgerebbero nella primavera del 2025: è presto per vedere come si posizioneranno i vari sindacati conflittuali, ma molti fanno già spallucce snobbando la via referendaria, altri evidenziano i limiti dei quesiti proposti, definendoli blandi, propinando la linea del «si poteva osare di più»: nel primo caso critichiamo un approccio settario, volto a isolare le avanguardie operaie di lotta dalla maggioranza dei lavoratori; nel secondo caso crediamo che questa preoccupazione appartenga a coloro che credono che il referendum possa, di per sé e senza lotte, migliorare le condizioni dei lavoratori, quando invece la storia del movimento operaio ci ha insegnato che senza conflitto i padroni si riprendono tutto quello che hanno dovuto concedere sotto la pressione delle lotte.
Sosteniamo i referendum con la lotta per un programma di classe!
La nostra indicazione e il nostro appello a tutti i sindacati è di sostenere i referendum e andare votare «Sì». Al contempo, dare concretezza al sostegno: serve una stagione di lotte generalizzata, che ponga fine alla nefasta era della concertazione diretta dagli apparati di Cgil Cisl e Uil.
Lottare per un programma di classe, verso un vero sciopero generale che unisca tutte le lotte contro il capitalismo!
Ripristino dell’art. 18 originale esteso anche alle imprese con meno di 15 dipendenti.
Abolizione di tutti i contratti precari e assunzione a tempo indeterminato per tutti i lavoratori.
Abolizione di tutti gli appalti e i subappalti e assunzione diretta di tutti i dipendenti di questo settore.
Aumenti immediati di almeno 500 euro di tutti i salari per recuperare il potere d’acquisto e ripristino dell’adeguamento dei salari al costo della vita.
Riduzione dell’orario di lavoro settimanale a parità di salario fino all’assunzione di tutti i disoccupati.
Nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori delle banche e delle grandi industrie, a partire da quelle in crisi che delocalizzano.