Partito di Alternativa Comunista

Tutto il nostro appoggio alla lotta del popolo palestinese!

Tutto il nostro appoggio alla lotta del popolo palestinese!
Per la fine dello Stato di Israele!

Dichiarazione della Lega Internazionale dei Lavoratori – Quarta Internazionale
 
 

 
palestina
 
Il 17 marzo scorso, migliaia di abitanti arabi palestinesi di Gerusalemme Est (territorio che si trova sotto la giurisdizione diretta dello Stato d’Israele) sono scesi in piazza per protestare contro diverse misure del governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, nel cosiddetto Giorno dell’Ira. Nei giorni seguenti, le proteste sono continuate in varie parti della Cisgiordania, come Hebron, con nuovi scontri tra i palestinesi e le truppe di occupazione.
È stato il picco più alto di uno scontro che sta crescendo, insieme alla repressione del governo. Per esempio, il 5 marzo scorso, truppe speciali della polizia israeliana hanno lanciato gas lacrimogeni e granate assordanti contro un gruppo di arabi che stavano inscenando proteste, ferendone cinquanta, in maggioranza anziani, e impedendo persino i soccorsi. Una settimana dopo, sono stati chiusi per alcuni giorni i varchi tra Gerusalemme Est e il resto della Cisgiordania (territorio sotto l’amministrazione formale dell’Amministrazione Nazionale Palestinese – Anp) per evitare il montare delle proteste.
Due provvedimenti del governo di Netanyahu hanno provocato l’ira dei palestinesi. Il primo è stato la costruzione di una sinagoga nella cosiddetta “spianata delle Moschee”, la regione più tradizionale e sacra per gli arabi a Gerusalemme Est che, oltre a mettere a rischio quelle moschee, stabilisce restrizioni per l’accesso degli arabi alle stesse.
Il secondo è la continuità degli insediamenti di coloni ebrei e la costruzione delle loro abitazioni, sia nei quartieri arabi di Gerusalemme che nei suoi dintorni, consolidando così “l’assedio” che isola sempre di più questa città dalla Cisgiordania.
Questi eventi rappresentano un fatto nuovo. Negli ultimi anni, gli attacchi israeliani, un autentico genocidio e un assedio di fame, e la risposta del popolo palestinese si erano concentrati soprattutto nella Striscia di Gaza, ubicata nell’ovest della Palestina sul mare Mediterraneo. Ora, il centro della lotta si è spostato a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, nel settore orientale. La Cisgiordania è controllata dal governo fantoccio dell’Anp, la cui “polizia palestinese” ha represso le proteste, come quelle contro il Muro della Vergogna costruito dai governi israeliani, o in appoggio a Gaza contro il genocidio perpetrato da Israele sul finire del 2008.
 
Nonostante la crisi e il discredito dell’Amministrazione Nazionale Palestinese, la strategia dell’imperialismo continua ad essere quella dei “due Stati”
Non è casuale che ciò accada. I fatti di Gerusalemme mostrano le conseguenze della politica degli “accordi di Oslo”, firmati nel 1993 dal governo israeliano e dalla direzione palestinese di Al Fatah, con a capo Yasser Arafat, appoggiati dal governo dell’allora presidente degli Usa, Bill Clinton. In cambio del riconoscimento dello Stato di Israele e dell’abbandono della lotta contro di esso, Al Fatah ottenne di poter costituire l’Anp nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.
Nelle intenzioni dei firmatari si trattava delle basi di un “futuro Stato palestinese”, nel quadro della soluzione dei “due Stati” (uno ebreo e un altro palestinese) per la regione. Uno Stato che, ove fosse sorto, non avrebbe avuto un’indipendenza economica e geografica. Tuttavia, l’Anp è, in realtà, un’amministrazione coloniale con poteri molto limitati (simile ai “bantustan” sudafricani all’epoca dell’apartheid) e una profonda dipendenza finanziaria da Israele e dagli aiuti esteri.
A partire dal suo controllo dell’Anp, Al Fatah smise di essere la corrente che esprimeva maggioritariamente la lotta del popolo palestinese contro Israele e la sua direzione e i principali quadri si trasformarono in una corrotta borghesia che vive della rapina dei fondi dell’Anp. Peggio ancora, si trasformarono in agenti di Israele e dell’imperialismo e nei suoi complici nella repressione al popolo palestinese, attraverso la polizia dell’Anp. Perciò è del tutto corretto quando si confronta l’Anp con i judenrat (in tedesco, “consiglio ebreo”), le autorità ebree dentro i ghetti, create nel 1941, che agivano agli ordini delle autorità naziste.
Questa realtà ha provocato un profondo discredito nella relazione di Al Fatah col popolo palestinese, precipitato nella sua sconfitta e nella vittoria di Hamas nelle elezioni dell’Anp del 2006. Ciò che successivamente si è trasformato nello scontro tra le due organizzazioni, cioè nel colpo di Stato di Mahmud Abbas (presidente dell’Anp e massimo dirigente di Fatah). Il golpe fu sconfitto a Gaza e le forze di Abbas furono espulse, ma riuscirono a mantenere il controllo della Cisgiordania. Di qui, i continui attacchi di Israele alla Striscia di Gaza per cacciare Hamas: obiettivo che non è stato raggiunto e che ha fatto radicalizzare ancor di più la volontà di lotta del popolo palestinese.
Il popolo palestinese ha già dimostrato con la sua condotta, ed anche attraverso il voto, che non accetta quest’amministrazione collaborazionista e corrotta di Al Fatah e l’Anp. Ma ciò non altera un dato essenziale: la strategia politica dell’imperialismo statunitense è, più che mai, basata sulla formazione dei due stati, uno ebreo e l’altro palestinese, che convivano sotto il comando sionista. Proprio la formazione dell’Anp da parte di Al Fatah ha rappresentato un trionfo di quella politica che continua ad essere il filo conduttore della politica dell’imperialismo e di tutte le istituzioni internazionali.
 
Gli attriti fra Obama e Netanyahu si producono nel quadro di un accordo strategico Usa-Israele
La stampa mondiale si è molto soffermata sui contrasti che si sono verificati tra il governo di Barack Obama e la politica del governo Netanyahu. Evidentemente, questi attriti esistono, ma è necessario vedere perché si sono prodotti e, fondamentalmente, quali sono i loro limiti: non si tratta di una rottura tra gli Usa e Israele, bensì di contrasti “tattici” di fronte alle realtà che ciascuno di quei governi deve affrontare.
Lo Stato d’Israele fu creato dall’imperialismo, nel 1948, come una “enclave coloniale militare”, una specie di grande base armata contro il mondo arabo-musulmano e le sue lotte. La sua creazione, da una parte, usurpò lo storico territorio del popolo palestinese (una parte del quale fu violentemente espulso), dall’altro, diede origine ad un Stato dall’ideologia e dalla legislazione razzista, simile a quelle dei nazisti o dell’apartheid sudafricano. Per il compito che gli fu assegnata a partire dalla sua creazione, Israele è un “alleato strategico” per l’imperialismo statunitense (concetto che è stato chiaramente riaffermato da Obama) e la sua esistenza sarà sempre difesa fino alla fine dall’imperialismo.
Perché gli attriti allora? Il governo di Obama deve affrontare una situazione prodotta dalla sconfitta militare dell’occupazione dell’Iraq ed il corso sempre più sfavorevole della guerra in Afghanistan, che hanno segnato la sconfitta del progetto di Bush del “nuovo secolo americano”. Per questo motivo, attraverso patti e negoziati, cerca di continuare a depotenziare i diversi “punti caldi” di questa situazione mondiale.
La crisi della politica degli accordi di Oslo, l’impasse assoluto dei negoziati che ne sarebbero dovuti discendere e la recrudescenza della situazione in Palestina vanno contro quest’obiettivo. Affinché non rimangano dubbi, il generale Petraeus, capo del comando centrale degli Stati Uniti ed all’epoca responsabile per le truppe di occupazione in Iraq, ha dichiarato al Senato degli Usa: “Questo conflitto fomenta il sentimento antistatunitense a causa della percezione della nostra preferenza per Israele” In altri termini, ha sostenuto che l’assenza di progressi nei negoziati tra palestinesi ed israeliani e la percezione che Washington favorisce Israele nel conflitto colpiscono interessi vitali degli Stati Uniti.
Per questo motivo è di interesse politico e militare degli Usa che siano riattivati quei negoziati, progredendo anche nella creazione di un mini-Stato palestinese, per tentare di tranquillizzare una regione chiave e poter affrontare meglio gli altri conflitti come Iraq ed Afghanistan-Pakistan.
E ciò è tanto importante per le sorti della regione strategica del Medioriente che il Quartetto, commissione formata dagli Usa, dall’Unione Europea, dalla Russia e dall’Onu, si è pronunciato all’unisono contro la politica di nuovi insediamenti in Cisgiordania. Ban Ki Moon, segretario generale dell’Onu si è recato in Israele dopo la riunione del Quartetto per riaffermare questa posizione.
Indubbiamente, l’imperialismo vuole perseguire questa politica attraverso i suoi agenti, Mahmud Abbas ed Al Fatah, e non Hamas. Ma per questo, oltre ad attaccare Hamas, c’è bisogno che il governo israeliano faccia alcune concessioni all’Anp per “mantenere vivo” il negoziato. Ma il governo Netanyahu sta facendo tutto il contrario e così aggrava solo le tensioni. Allo stesso tempo, il governo di Obama si logora non potendo progredire nella sua politica. Queste sono le ragioni delle sue critiche al governo israeliano, nel quadro del mantenimento della “alleanza strategica”.
In questi termini si è espressa la segretaria di Stato, Hillary Clinton: “I nostri obiettivi continuano ad essere gli stessi”, ha dichiarato. “Rilanciare i negoziati tra israeliane e palestinesi su un percorso di ricerca che porterà ad una soluzione dei due Stati. Non è successo nulla che possa in qualche modo compromettere il nostro impegno per darvi seguito”, aggregò. (La Nación, 19/3/2010). Ma, siccome questa politica non è riuscita a risolvere i problemi più gravi in Medioriente, c’è stato un logoramento di Obama nei confronti dei Paesi arabi ed in relazione al suo potere di influenzare i governanti d’Israele.
 
Le ragioni di Netanyahu
Da parte sua, la politica del governo Netanyahu risponde alla combinazione di due ragioni. In primo luogo, per il suo stesso carattere di “invasore coloniale”, Israele deve schiacciare totalmente i palestinesi. Il suo obiettivo di massima sarebbe espellerli da Gerusalemme e dalla Cisgiordania; o, perlomeno, ridurli a piccole popolazioni senza possibilità di difesa. Per questo, Netanyahu gode di ampio appoggio interno nel non accettare le restrizioni all’espansione delle colonie e l’usurpazione delle terre arabe di Gerusalemme Est.
In secondo luogo, Israele non può accettare, sotto nessun aspetto che ci siano un Paese arabo o musulmano che possieda armamenti tali da poterlo sfidare, come potrebbe essere il caso dell’Iran se sviluppa la sua energia nucleare. Infine, ciò che giustifica l’esistenza di Israele come “bastione di Occidente”, cioè dell’imperialismo, è la sua capacità di intervento militare. Dunque, Israele conta sul fatto che i suoi alleati imperialisti finiranno per accettare, come sempre hanno fatto, le suoi iniziative genocide e le sue provocazioni. Ma c’è un limite a tutta questa manovra, che è proprio la dipendenza finanziaria e militare di Israele dagli Usa. Senza questo sostegno, Israele non avrebbe la minima possibilità di sopravvivenza.
Israele ha subito un colpo molto duro alla sua immagine di “superiorità ed invincibilità militare”, quando si è visto messo in discussione dalla sconfitta militare in Libano nel 2006 e per non essere riuscito a piegare la Striscia di Gaza, a dispetto di tutto l’armamento usato, l’assedio che mantiene ai suoi danni e il genocidio commesso nel 2009. Questa realtà ha provocato una crisi politica in Israele e, coerentemente con il loro carattere di abitanti di un’enclave coloniale, una svolta ancora più a destra degli elettori israeliani, verso posizioni sempre più razziste ed antiarabe.
Il governo di Netanyahu ha abbandonato qualunque simulacro di “democrazia” o apparenza di “sinistra” ed i suoi membri, come il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, o suoi alleati parlamentari, come Aryeh Eldad, del partito Ichud Leumi, espongono apertamente il loro razzismo di stampo nazista o il progetto di espellere i più di cinque milioni di palestinesi da Gerusalemme, Gaza e dalla Cisgiordania, per costruire il Grande Israele in tutto il territorio storico della Palestina.
Tuttavia, non è questo l’obiettivo immediato della sua politica. Ciò che Netanyahu cerca, approfondendo una politica già iniziata dal suo predecessore, Ehud Olmert, è posticipare la ripresa dei negoziati tipo Oslo per presentare, prima che ricomincino, fatti consumati che facciano accettare ai palestinesi la rinuncia alla loro lotta storica. E, nel frattempo, avanzare il più possibile sul territorio dell’Anp (fondamentalmente nel controllo di terre, corsi di acqua e strade di Cisgiordania e, specialmente, di Gerusalemme) affinché, anche se Israele si vedrà obbligato ad accettare la creazione di un “Stato palestinese”, questo non sia più che un pugno di villaggi e città totalmente dipendenti economicamente e militarmente da Israele e la cui amministrazione sia sotto il suo totale controllo, benché abbia formalmente la veste di “Stato indipendente”.
Ma applicando questa politica, come già abbiamo visto, aggrava gli scontri nella regione ed entra in contraddizione con la politica che Obama cerca di applicare, mentre approfondisce il suo logoramento per l’impossibilità di portarla avanti, il che genera tra tutti e due la crisi che oggi vediamo.
 
Il viaggio di Lula
È in questo quadro che si verifica il viaggio nella regione del presidente brasiliano, Luis Iñacio Lula da Silva, che alcuni mezzi d’informazione hanno presentato come un “tentativo indipendente” di “aprire nuovi percorsi di pace” in Medioriente. La realtà è abbastanza diversa. Cosciente che le aspettative generate in settori arabi e palestinesi dalla sua presidenza stavano andando deluse, Obama ha inviato il suo “amico” Lula affinché, approfittando del suo prestigio mondiale di dirigente di “sinistra”, riuscisse a mantenere un dialogo aperto con questi settori evitando la loro immediata radicalizzazione. In questo senso, il viaggio di Lula, lungi dall’essere “indipendente”, ha, in realtà, avuto il significato di  svolgere un ruolo da “braccio sinistro” della sua politica.
Lula è stato molto chiaro nell’esprimere che tutto il suo sforzo era destinato a tranquillizzare la situazione, perfino pressando Netanyahu per potere arrivare alla soluzione dei “due Stati”, come ha detto nel parlamento israeliano. In altri termini, una politica completamente vincolata al piano strategico imperialista ed all’accettazione dello Stato razzista di Israele.
Allo stesso tempo, è necessario dire che il Brasile mantiene forti legami commerciali con Israele, espressi nell’accordo Mercosur-Israele, ed importanti investimenti nella regione, specialmente in Libano. Cioè, si è trattato una visita che cercava anche di “salvaguardare gli affari”.
Purtroppo, ancora oggi, la grande maggioranza della sinistra mondiale si mantiene nel campo della soluzione dei “due stati”, in nome della “pace”. Appoggia, in generale, l’Anp come “rappresentante legittima del popolo palestinese”, e puntano in prospettiva alla creazione del mini-Stato palestinese, scommettendo sugli sforzi dell’Onu e tentando solo di discutere dove devono cadere le frontiere o il ruolo di Gerusalemme, ma accettando l’esistenza dello Stato razzista d’Israele e la convivenza con esso.
 
Oggi, più che mai, bisogna appoggiare la lotta dei palestinesi!
È in questo quadro che si stanno creando le condizioni per una “terza Intifada”. Ma questa non sarà come la precedente solo contro Israele, ma anche contro l’Anp e le sue autorità. I fatti di Gerusalemme Est indicano questa possibilità. Oggi, la politica sempre più dura del governo di Benjamin Netanyahu, fa sì che Mahmud Abbas, Al Fatah e i loro alleati, non possano offrire al popolo palestinese neanche una minima concessione formale che giustifichi l’accettazione dell’Anp.
Hamas, da parte sua, non solo ha appoggiato le recenti proteste ma è stato uno dei promotori del Giorno dell’Ira. Nei giorni seguenti, le masse sono spontaneamente scese in piazza senza che ci sia neppure stato bisogno di un appello di Hamas. Tuttavia, la cosa più preoccupante, è che, nell’attuale contesto di estensione della lotta palestinese, Hamas mantiene due politiche profondamente sbagliate. Da una parte, i negoziati col governo egiziano di Hosni Mubarak, un chiaro complice di Israele e dell’imperialismo nella politica di isolare e prendere per fame la Striscia di Gaza. Per esempio, sta costruendo un muro con tecnologia ultramoderna concessa dall’imperialismo per ostacolare il funzionamento dei tunnel clandestini attraverso i quali passano alimenti e medicine dall’Egitto a Gaza.
Dall’altro, mantiene fermo l’appello ad Abbas e Fatah (gli agenti dello Stato d’Israele e l’imperialismo in Palestina!), per formare un governo di “unità nazionale”. Questo tipo di “unità nazionale” coi collaboratori dell’occupazione servirebbe solo a ingannare i combattenti e preparare la svendita finale della causa palestinese.
Da parte nostra, come Lega Internazionale dei Lavoratori – Quarta Internazionale (Lit-Quarta Internazionale) riaffermiamo il nostro appoggio incondizionato alla lotta del popolo palestinese e ripudiamo questi nuovi attacchi e la repressione del governo di Netanyahu.
Al contempo, segnaliamo che è necessario trarre le conclusioni di tutto ciò che è negli ultimi anni. In primo luogo, che la politica prodotta dagli accordi di Oslo si è trasformata in una trappola contro la lotta del popolo palestinese per il carattere di “amministrazione coloniale” dell’Anp. In secondo luogo, che perfino se si dovesse creare un mini-Stato palestinese, esso non avrà nessuna possibilità di esistenza reale ma sarà condannato a vivere sotto il tacco di Israele, come un’amministrazione coloniale incaricata di controllare il suo popolo.
Ciò significa che non ci sarà nessuna vera soluzione senza la distruzione dello Stato razzista di Israele (autentica causa dei conflitti nella regione) e la costruzione di uno Stato palestinese unico, laico, democratico e non razzista, in cui i palestinesi espulsi possano ritornare nelle loro terre ed in cui gli ebrei che accettino i diritti dei palestinesi alla terra, e lo vogliano, possano convivere in pace.
Questo compito pone la necessità di una Terza Intifada per sconfiggere Israele. In questa lotta, non può esserci nessuna unità con gli agenti del sionismo e dell’imperialismo in seno al popolo palestinese, come Mahmud Abbas e l’Anp. L’unità palestinese che serve veramente è quella che organizzi e sostenga la Terza Intifada e, in quella lotta, spazzi via anche l’Anp. È necessario allora che Hamas smetta di fare appello all’unità con Al Fatah e, insieme alle altre forze di resistenza, faccia invece appello ad affrontare gli invasori sionisti ed i suoi complici dell’Anp.
Una lotta che avrà anche altri compiti concreti, come rovesciare governi filoimperialisti e sodali di Israele, come il regime dittatoriale di Hosni Mubarak in Egitto, che gioca un ruolo sinistro nell’isolamento della Striscia di Gaza. In altri termini, facciamo appello a rivendicare da organizzazioni come Hezbollah – che guadagnò un immenso prestigio tra le masse arabe e musulmane per il suo trionfo contro l’esercito israeliano in 2006 – a rompere con la loro politica di “unità nazionale” coi settori borghesi filoimperialisti del Libano e ad intervenire attivamente in questa lotta contro Israele. Ma perché questa lotta per distruggere Israele sia vittoriosa, non può essere affidata al solo popolo palestinese. È necessaria una lotta dell’insieme dei popoli arabi e musulmani, che continuano ad essere profondamente solidali coi palestinesi, come evidenziato dalle mobilitazioni a Beirut (Libano) e Istanbul (Turchia). E perché quella lotta sia vittoriosa è fondamentale che sia assunta dalle masse lavoratrici di tutto il mondo che si mobilitino internazionalmente fino a sconfiggere quello Stato razzista e genocida che svergogna l’umanità.
Perciò, facciamo appello a realizzare una grande campagna di solidarietà col popolo palestinese come accadde in occasione del genocidio perpetrato a Gaza. Bisogna mettere in marcia i lavoratori e popoli ed estendere il boicottaggio commerciale ad Israele (senza ricevere prodotti di quell’origine o consegnarli con quella destinazione) in tutto il mondo, seguendo l’esempio dei portuali australiani, sudafricani ed altri sindacati durante l’assedio a Gaza. Bisogna esigere dai governi l’immediata rottura delle relazioni diplomatiche e commerciali con lo Stato razzista di Israele. Bisogna instancabilmente mantenere attiva la mobilitazione per la liberazione del Paese palestinese.
 
 
San Paolo, marzo 2010

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