SULLA LOTTA DEL POPOLO CURDO
di Alejandro Iturbe *

Il mondo si è commosso per la
lotta dei combattenti curdi della città di Kobane, situata in Rojava (nome con
il quale questo popolo chiama la regione del Kurdistan siriano). Nonostante
l’inferiorità militare, e con un’ampia partecipazione di giovani miliziane,
hanno sconfitto due volte le truppe dello Stato Islamico e hanno ripreso il
controllo della città.
Da un lato questa vittoria ha messo al primo piano della
politica mondiale la storica lotta dei curdi per avere un proprio Stato.
Dall’altro, diverse correnti internazionali presentano lo Stato che si sta
costruendo in Rojava come una specie di “socialismo di base”, e altri come una
messa in pratica dei principi anarchici (un Paese governato da un non-Stato)
In questo articolo, cerchiamo di affrontare in modo
sintetico la storia moderna del popolo curdo e le sue lotte, la sua situazione
generale nei Paesi nei quali è diviso, cominciando da un’analisi sul carattere
di classe dello Stato del Rojava e da una breve analisi dei partiti e delle
organizzazioni politiche che operano in ciascuna di queste regioni,
specialmente il cosiddetto Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), che ha
una forte influenza tra le popolazioni curde di Turchia e Siria.
Origine e divisione del popolo curdo
La storia dei curdi nella regione che oggi occupano è
iniziata nell’antichità: si stabilirono in Asia Minore all'incirca nel mille
a.C. Durante il Medioevo la regione fu dominata dall’impero arabo e, più tardi,
dall’impero turco-ottomano. Durante questo periodo, nonostante abbiano
conservato il proprio idioma, la maggioranza dei curdi adottò il ramo sunnita
della religione musulmana, anche se un’importante minoranza mantenne la sua
religione tradizionale (pre-cristiana): lo yazidismo.
Durante la Prima guerra mondiale (1914-1918), l’impero
ottomano si alleò con i cosiddetti Imperi centrali (Germania e
Austria-Ungheria) e venne sconfitto. Dopo questa sconfitta le potenze
imperialiste vincitrici (Inghilterra e Francia) disintegrarono questo impero e
lo divisero in aree sotto la loro influenza.
Nei decenni seguenti, in diverse di queste aree, concessero
l’indipendenza a nuovi Paesi. Ma lo fecero con criteri arbitrari, cercando di
mantenere un controllo su una regione molto ricca di petrolio. In alcuni casi
“divisero per comandare”, separando territori che naturalmente avrebbero dovuto
rimanere uniti, come nel caso di Siria e Libano, o della creazione del Kuwait
(storicamente appartenente all’Iraq). In altri, crearono frontiere che contenevano
nazionalità minori (alle quali non riconobbero il diritto ad avere uno Stato
proprio).
Nel caso dei curdi, il Trattato di Sèvres (1920) riconosceva
il loro diritto all’autodeterminazione e proponeva anche la creazione di uno
Stato curdo (anche se solamente su un terzo dei territori rivendicati da questi
popoli e dove sono maggioranza assoluta). Tuttavia questo trattato non entrò
mai in vigore e venne rimpiazzato dal Trattato di Losanna (1923) secondo il
quale il popolo curdo venne diviso in quattro Paesi (Turchia, Iran, Iraq e
Siria), più un piccolo settore in Armenia e Azerbaigian (allora parte dell’ex
Urss).
Da allora, i curdi hanno lottato da un lato contro
l’oppressione che pativano in questi Paesi e, dall’altro, per conquistare un
loro Stato unitario.
Territorio e popolazione del Kurdistan
Il territorio del Kurdistan storico abbraccia 400.000 km2
(190.000 in Turchia, 125.000 in Iran, 65.000 in Iraq e 15.000 in Siria).
In questi territori si trovano una parte importante delle riserve petrolifere
irachene e iraniane, e la quasi totalità del petrolio siriano.
Anche se non ci sono censimenti rigorosi, si stima che ci
siano tra 30 e 40 milioni di curdi: 16 milioni in Turchia (12 nel Kurdistan
turco e 4 in altre regioni del Paese), più di 8 milioni in Iran, 7 milioni in
Iraq e 2 milioni in Siria. C’è inoltre una diaspora consolidata in altri Paesi
di circa 2.000.000 (principalmente in Europa, dei quali 700.000 sono in
Germania).
I curdi sono attualmente una della più grandi nazionalità al
mondo senza uno Stato proprio, e sicuramente la più grande in Medio oriente.
Nei Paesi nei quali vennero divisi, sono oppressi e discriminati, e quando
lottano per le loro rivendicazioni storiche sono duramente repressi.
La lotta dei curdi e la repressione contro di loro
Ricordiamo alcune delle lotte condotte dai curdi:
· Nel XIX secolo ci furono varie insurrezioni contro l’impero ottomano, ma furono tutte sconfitte.
· Nel 1925 un’insurrezione venne sconfitta dalle truppe turche, già negli anni della Repubblica guidata da Kemal Ataturk.
· Nel 1946, in Iran, una lotta guidata da Mustafá Barzani (padre dell’attuale leader dei curdi iracheni) ottenne la creazione della Repubblica di Mahabad che durò meno di un anno. Venne sconfitta dall’esercito iraniano e i suoi capi vennero giustiziati.
· Negli anni ’70 ci fu un aumento della lotta armata nel Kurdistan iracheno e Saddam Hussein approfittò della guerra con l’Iran per lanciare attacchi con armi chimiche contro la popolazione curda.
· Negli anni ’90, come parte della repressione contro la lotta dei curdi, l’esercito turco distrusse 3.000 villaggi di questa popolazione.
I processi più recenti li vedremo nei punti successivi.
Perché sosteniamo il diritto dei curdi ad avere un proprio Stato unitario?
Storicamente la politica del marxismo rivoluzionario di
fronte alle nazionalità oppresse (cioè quelle che soffrono un’oppressione
all’interno di uno Stato dominato da una nazionalità oppressora, come accade in
Spagna o con i ceceni in Russia) si basa su due premesse. La prima è appoggiare
la loro lotta concreta contro l’oppressione che soffrono. La seconda e
fondamentale è la difesa incondizionata del loro diritto di autodeterminazione.
Cioè, difendere la possibilità da parte loro di decidere ciò che vogliono fare:
se rimanere con pieni diritti nello Stato di cui fanno parte oggi (molte volte
in modo forzoso) o rendersi indipendenti e creare un proprio Stato.
Come marxisti rivoluzionari non siamo a favore
dell’atomizzazione degli Stati esistenti. Al contrario, lottiamo per la
creazione di Stati plurinazionali e federali, costituiti liberamente, sempre
più grandi. Ma se una nazionalità oppressa decide che vuole la sua
indipendenza, appoggiamo e difendiamo incondizionatamente questa decisione. Non
si tratta di un programma teorico, lo applichiamo anche quando siamo al potere
e ci riguarda direttamente. Per esempio, nel 1917, il governo bolscevico
guidato da Lenin e Trotsky accettò e rispettò al decisione del popolo
finlandese di creare il proprio Stato e di non unirsi alla nascente Urss.
Il caso curdo è particolare: è evidente che si tratta di una
nazione oppressa, ma non lo è da un solo Paese, dato che è divisa e oppressa da
quattro Paesi. Per questo, l’unica forma di esercitare la sua
autodeterminazione è rompere questa divisione e riunificarsi. Così, come
punto di partenza, riconosciamo e difendiamo il diritto dei curdi a separare i
loro territori storici dagli Stati di cui fanno parte e a costituire il loro
Stato indipendente (e appoggiamo pienamente la loro lotta in questo senso).
Crediamo che, in questo caso, non si tratterebbe di una atomizzazione degli
Stati ma, al contrario, di una riunificazione di carattere progressivo.
Questa posizione non è nuova per la Lit-CI né per la sua
organizzazione turca: è già stata espressa in varie edizioni della rivista Correo
internacional negli anni ’90, nel
quadro della lotta di questo popolo contro gli attacchi del regime di Saddam
Hussein, in Iraq, e la feroce repressione dei vari governi turchi.
Un dibattito sulla “questione curda” in Siria
Nel quadro di questa analisi e della posizione che
esponiamo, esiste un dibattito sulla “questione curda” in Siria. In un lavoro
pubblicato alcuni anni fa, Salameh Kaileh (un noto intellettuale marxista
siriano, oggi residente in Egitto) sostiene che la “questione curda in Siria” è
totalmente differente che in Iraq (l’autore non analizza quello che succede in
Iran né in Turchia): mentre in Iraq esistono territori storicamente curdi, così
non sarebbe nel caso della Siria.
In questo lavoro, l’autore segnala che, al momento
dell’indipendenza della Siria (nel 1946) “non c’era una zona propria dei curdi
e il loro numero era molto limitato”, oltre ad essere distribuiti in zone
distanti e isolate. Per questa ragione, “quando i leader curdi posero la
questione curda alle Nazioni unite, nel 1947, non fecero riferimento alla
Siria…”.
Kaileh pensa che la “questione curda” in Siria maturò “in un
momento successivo, soprattutto alla fine degli anni ’50 del XX secolo, e anche
oltre, a partire dagli anni ’60, cioè quando l’immigrazione curda in Siria è
aumentata”. Anche se non lo indica in questo lavoro, questo fu conseguenza
della brutale repressione che i curdi soffrivano in Turchia. A causa di questa
immigrazione “il numero dei curdi aumenta sempre più, ci sono ora città
totalmente curde e il popolo dei curdi siriani si concentra in una parte dei
territori della Siria”.
Questa realtà “pone la questione di come si possa risolvere
il tema: ignoriamo la storia e partiamo dalla situazione attuale?”. A questa
contraddizione, Kaileh risponde: “si
deve prendere in considerazione la storia. […] Per questa ragione, [il
Rojava] non può essere
considerato come se fosse una regione curda (o terra curda)”. A
partire da questo criterio centrale, sostiene la rivendicazione dell'unità dello
Stato-territorio siriano e, perciò, si oppone al diritto di autodeterminazione
dei curdi di Siria.
Da questo punto di vista, non si dovrebbero incoraggiare “i
conflitti nazionali che tutto ciò che fanno è aumentare la reciproca
intolleranza”. Intolleranza che è stata fomentata anche dalla politica del
regime degli Assad e del partito Baath (che denuncia soprattutto per aver
sottratto la cittadinanza siriana ai curdi nel 1962).
Conseguentemente a questo, la sua proposta per risolvere la
“questione curda” in Siria passa attraverso “l’istituzione di uno Stato civile
[in Siria] che parta dalla consacrazione del principio di cittadinanza per
tutti i siriani: arabi, curdi, turcomanni, ceceni, armeni ecc.”. Cioè il
rovesciamento del regime degli Assad e l’instaurazione di pieni diritti
democratici per tutti gli abitanti e le nazionalità all’interno dell’attuale
territorio siriano. In questo quadro, oltre alla piena cittadinanza siriana, i
curdi avranno “il diritto di parlare la loro lingua e di esprimere la loro
cultura popolare, aprire scuole e insegnare la loro lingua in generale”.
In questo stesso articolo, Kaileh rivendica il diritto dei
curdi a costruire il proprio Stato-nazione nei suoi territori storici. Ma
questo diritto non si applica in Siria, perché non esistono tali “territori
storici”.
Non concordo con la proposta di Kaileh, che considero
politicamente sbagliata. Credo che questa posizione sbagliata sia il risultato
dell’errore di metodo con il quale si guarda al problema curdo in Siria. Limita
questo tema all’analisi interna alla nazione, Stato e territorio siriano e non
lo pone nella sua vera dimensione: una lotta internazionale di un popolo diviso
e oppresso in quattro Paesi arabi e musulmani. In questo senso, è una lotta che
attraversa tutta la situazione regionale e internazionale, affrontando i regimi
che governano questi Paesi e anche l’imperialismo.
È a partire da questa questione globale che si deve
analizzare il tema della loro situazione in Siria. È una situazione eccezionale
nella quale, dato che c’è stato un tardivo processo di popolamento,
predominerebbe il diritto della nazione, Stato e territorio siriano su quello
dei curdi? Crediamo di no. In primo luogo, questo processo di popolamento fu un
sottoprodotto della situazione dei curdi in Turchia. In secondo luogo, come lo
stesso Kaileh riconosce, esistono città e regioni totalmente curde che hanno
una continuità geografica con il Kurdistan turco (nelle quali, d’altra parte,
vive, senza nessuna discriminazione né persecuzione, una minoranza araba
siriana, inclusi settori che sono fuggiti dalla guerra civile). Cioè, anche se
non esistessero questi “territori storici”, durante il XX secolo sono sorti
territori puramente curdi in Siria, la cui separazione può darsi senza
pregiudicare il resto della nazione, Stato e territorio siriano.
Affrontando il tema solo dal punto di vista siriano, la
“questione curda” si riduce a quella di una nazionalità “interna” oppressa alla
quale Kaileh offre un programma di ampi diritti civili: cittadinanza siriana,
uso della loro lingua, diritto ad avere proprie scuole e a sviluppare la loro
cultura ecc. Ma questo programma democratico non arriva nemmeno a comprendere
il diritto di autodeterminazione dei curdi della regione nella quale sono la
maggioranza [Rojava].
Il dibattito, inoltre, deve rispondere a un problema molto
concreto sul quale bisogna prendere una posizione: in Rojava è sorto nei fatti
uno Stato curdo autonomo. Gli diamo il nostro sostegno e proponiamo che sia un
punto d’appoggio per la riunificazione del Kurdistan? O, al contrario,
proponiamo loro di retrocedere, che si integrino come province siriane e
lascino la lotta per un Kurdistan unito ad un futuro indeterminato? Così come
abbiamo indicato, abbiamo una risposta molto chiara e netta in questo senso.
Il Rojava (Kurdistan siriano)
I curdi occupano una piccola parte del nord della Siria
(15.000 km2, 7% del territorio del Paese) e sono approssimativamente
2 milioni di persone (10% della popolazione). Sono distribuiti in tre cantoni o
province, nei dintorni delle tre città principali: Afrin o Efrin (900.000),
Jazira o Cezire (650.000) e Kobane (450.000). Questi cantoni non hanno
continuità geografica all'interno del territorio siriano (Efrin è separata
dalle altre due da un territorio non curdo). La continuità si stabilisce con il
Kurdistan turco.
I curdi sono sempre stati molto perseguitati e discriminati
in Siria. A tal punto che, oltre a non veder riconosciuta la loro lingua, dal
1962 fino a poco tempo fa non avevano nemmeno diritto alla cittadinanza
siriana.
Nel 2012, nel quadro della guerra civile tra i ribelli e il
regime di Bashar al Assad, si produsse una rivolta armata contro il regime.
Avendo grandi difficoltà ad affrontarlo direttamente, Assad fece un accordo di
fatto con la direzione dei curdi: li riconobbe come cittadini siriani e
concesse loro un'autonomia di fatto, chiedendo in cambio che non si separassero
dal Paese e che non si unissero ai “ribelli”. In questo momento inizia il
processo che andiamo ad analizzare.
L’economia del Rojava non era molto sviluppata sotto il
dominio siriano. La terra era proprietà dello Stato siriano e si dava in
concessione per una virtuale monocultura di grano e la possibilità di allevare
alcuni bovini da sussistenza. C’era anche l’estrazione del petrolio (di
proprietà statale siriana), anche se i principali giacimenti sono al di fuori
dei cantoni curdi (pur essendo nella loro area di influenza). Il quadro
economico era completato dal commercio e da alcune piccole industrie
manifatturiere. Le banche erano statali e anche i principali edifici e servizi.
Settori della popolazione si videro obbligati a emigrare verso le città del sud
della Siria per trasformarsi in lavoratori con bassi salari.
Quando la nuova amministrazione curda si fece carico di
tutte queste proprietà, distribuì parte della terra a cooperative
autorganizzate che stanno lavorando per espandere i profitti e per aumentare e
diversificare le coltivazioni. Si è continuato ad estrarre del petrolio (i
principali giacimenti e raffinerie sono attualmente nelle mani dello Stato
Islamico, anche se con molte difficoltà operative a causa dei bombardamenti
imperialisti), che viene raffinato in diesel di bassa qualità, si vende nel
cantone stesso o viene distribuito alle cooperative o alle altre istituzioni.
La produzione delle cooperative si vende al dettaglio o la compra
l’amministrazione (che controlla tutto il processo e i prezzi).
L’amministrazione fornisce ad ogni famiglia una razione di pane e di alimenti
di base (informazione prese da “Rojava: una rivoluzione nella vita quotidiana”
di Rebecca Coles).
A Kobane, e anche a Jazira, l’attacco dello Stato Islamico pose
questo sistema sotto una “economia di guerra”, ma ad Efrin (non interessata da
questi scontri) si continuò a sviluppare. In un'intervista sull’economia del
Rojava (1), Amaad Yousef, ministro dell’Economia del cantone di Efrin, spiega
che la regione è sempre stata caratterizzata dalla povertà, perché il governo
centrale “non permetteva di aprire fabbriche, inibiva lo sviluppo, o qualsiasi
forma di arricchimento della regione”. In questi anni hanno chiuso anche
diversi piccoli e medi produttori di olive e di olio
A partire dall’esistenza del governo autonomo, oltre
all’impulso delle cooperative agricole e della piccola produzione di diesel,
nel cantone funzionano già “50 fabbriche di sapone, 20 di confezionamento di
olive, 250 impianti di lavorazione di olio, 70 fabbriche di materiali edili,
400 fabbriche tessili, 8 calzaturifici, 5 fabbriche di nylon, 15 fabbriche di
lavorazione del marmo”, alle quali si aggiungono due mulini (per lavorare il
grano) e due hotel. Inoltre “si è costruito un pozzo per fornire acqua
potabile”.
Durante questo processo la popolazione del cantone è
raddoppiata, con curdi che venivano da Kobane o che ritornavano dalle città
siriane, così come un settore di arabi non curdi (si stimano in circa 200.000).
Secondo Yousef, al momento c’è la piena occupazione nel cantone.
Sul funzionamento finanziario spiega che utilizzano ancora
la moneta siriana (libra), ma le banche statali siriane non operano più e sono
state fondate entità bancarie curde nei cantoni. Il pagamento degli interessi è
strettamente controllato, anche se dice che “la gente conserva i suoi soldi
sotto il materasso”.
Infine, spiega che “il capitale privato non è proibito,
tuttavia si accorda con le nostre idee e il nostro sistema. Stiamo sviluppando
un sistema incentrato sulle cooperative e le comuni. Tuttavia questo non indica
che siamo contro il capitale privato. Si completano a vicenda, si può
aggiungere capitale privato morale a certe parti dell’economia”.
La Costituzione e le comuni del Rojava
Nel quadro della sua autonomia, la popolazione del Rojava ha
approvato il suo Contratto sociale (Costituzione). Analizziamola sotto due
aspetti: quello economico e quello relativo al sistema politico.
Rispetto all’economia e alla proprietà, si stabilisce che
“le risorse naturali, sopra e sotto la terra, sono ricchezza pubblica della
società. I processi di estrazione, gestione, licenze e altri accordi
contrattuali legati a dette risorse saranno regolati dalla legge”. Inoltre “gli
edifici e i terreni sono proprietà della società”, e “amministrati dal
governo”. Dice anche che tutti abitanti hanno “diritto all’uso e al godimento
dei loro beni privati”.
Afferma che “il sistema economico deve orientarsi a offrire
benessere generale e, in particolare, si concedono finanziamenti per la scienza
e la tecnologia. Avranno il fine di garantire le necessità quotidiane delle
persone e di garantire una vita degna. Il monopolio è proibito per legge. I
diritti lavorativi e lo sviluppo sostenibile saranno garantiti”. Infine, come
abbiamo già visto nel rapporto del ministro dell’Economia di Efrin, “il
capitale privato non è proibito, tuttavia si accorda con le nostre idee e il
nostro sistema”.
In relazione al sistema politico, si parte dal presupposto
di non costruire “uno Stato”, ma una “democrazia di base” (ciò che chiamano
“confederalismo democratico”), strutturata in forma piramidale.
Alla base si situano le “comuni”. Ogni comune rappresenta
300 persone sulla base dei quartieri. Hanno un copresidente e vari comitati che
intervengono nella risoluzione dei problemi concreti fino alla definizione dei
problemi politici più generali. Da lì in su ci sono “coordinamenti di comuni”
fino ad arrivare ai coordinamenti di ciascun cantone, che hanno anche loro
copresidenti e vari comitati. A tutti i livelli ci sono comunità di donne.
Infine si arriva al livello del Rojava nel suo insieme, che
comprende un parlamento e 22 ministeri. Finora queste cariche sono state
designate con l’accordo di vari partiti e organizzazioni, ma, in futuro,
dovranno essere eletti con voto popolare. I comandanti della forza militare
(Ypg) sono designati dal comitato militare cantonale con l’accordo dei comitati
di base.
La corrente maggioritaria nella struttura politica è quella
del Pkk, che qui adotta il nome di Pyd (Partito dell’Unione democratica).
Questo partito ha creato due istanze di coalizione per governare: il Tev-dem
(Movimento per una società democratica) e il Kck (Gruppi di comunità del Kurdistan).
Oltre al Pyd, esistono un’organizzazione chiamata Daf (Azione rivoluzionaria
anarchica) e delle espressioni più dirette della base, senza carattere di
partito.
Qual è il carattere di classe dello Stato del Rojava?
Su questo punto così importante, vogliamo essere
particolarmente cauti, perché stiamo lavorando solamente con le informazioni
giornalistiche e “dall’esterno”, senza una conoscenza diretta della situazione.
È una discussione apertasi recentemente nella quale si lavora con ipotesi e
possibili alternative.
Durante la dominazione siriana, non esisteva una borghesia
curda in Rojava nel senso più stretto della parola. Per essere più precisi,
diremo che era molto debole: quasi una proto-borghesia o una piccola borghesia
agricola, commerciale e artigianale. Questo aspetto è molto importante
nell’analisi della situazione attuale.
A partire dal 2012 nasce, nei fatti, uno Stato curdo in
Rojava. Lo definiamo “Stato” perché (anche se non si rivendica indipendente
dalla Siria né è riconosciuto internazionalmente come tale) ha un proprio
governo autonomo e, centralmente, delle proprie forze armate (le milizie del
Ypd). Questo Stato ha ereditato la terra e i servizi pubblici che prima erano
proprietà dello Stato siriano. Diventa cioè proprietario delle principali risorse economiche e,
allo stesso tempo, si basa su una struttura economica arretrata, quasi senza
borghesia. Questa è, a nostro parere, la base oggettiva della situazione
attuale.
È una situazione molto particolare, quasi eccezionale nella
storia moderna. Possiamo caratterizzare il Pyd come una direzione non operaia o
piccolo-borghese che ha preso il potere e ora controlla uno Stato. Un evento
con queste caratteristiche non è nuovo: è già successo in passato in paesi come
la ex Yugoslavia, la Cina, Cuba, il Nicaragua… in queste situazioni, c’era una
contraddizione acuta tra la sovrastruttura (regime e governo), che non era
controllata dalla borghesia, e la struttura economica del Paese (che continuava
ad essere capitalista).
Una contraddizione che poteva risolversi attraverso due
alternative. Nella prima, questa direzione avanzava oltre le sue intenzioni
originali nella sua rottura con la borghesia e l’imperialismo e li espropriava,
cominciando così la costruzione di un nuovo Stato operaio (è stato quello che è
successo nella ex Yugoslavia, in Cina e a Cuba); nella seconda, la direzione
non avanzava nella rottura, né nella espropriazione, e ricostruiva uno Stato
borghese “normale” (quello che è successo in Nicaragua). Non esistono alternative
“intermedie”.
La situazione del Rojava presenta una differenza con quella
dei Paesi ai quali ci siamo riferiti. Mentre in quelli esisteva un certo grado
di sviluppo capitalistico e, per tanto, borghesie nazionali e imperialiste alle
quali si poteva espropriare, in Rojava, a causa dello sviluppo storico
precedente, le principali leve dell’economia rimasero nelle mani del nuovo
Stato, che pianifica centralmente le attività economiche. Tuttavia si arriva a
questa situazione senza che la direzione abbia dovuto favorire una politica di
espropriazione.
Come elemento molto importante, dobbiamo considerare che si
tratta di uno Stato molto piccolo e fondato su una base economica debolissima.
Quello che è in discussione, quindi, è uno sviluppo quasi iniziale, diremmo una
“accumulazione primitiva” (nel caso di Kobane anche di ricostruzione di questa
base debolissima), per garantire il funzionamento economico elementare.
Per le condizioni oggettive attuale, la direzione del Pyd
potrebbe avanzare in questa accumulazione primitiva attraverso la costruzione
di un piccolo Stato operaio. Saremmo quindi in presenza di una variante molto
particolare della “ipotesi altamente improbabile” indicata da Trotsky nel
Programma di transizione. Anche in questo caso, non concordiamo con la
definizione di “socialismo di base” che utilizzano alcune correnti.
Essenzialmente perché, così come ci hanno insegnato i nostri maestri del
marxismo, si può parlare realmente di “socialismo” solamente se si parte, come
minimo, dal livello più alto di sviluppo economico raggiunto dal capitalismo.
In ogni caso, saremmo di fronte ad uno stadio molto iniziale di una economia di
transizione.
Tuttavia, con l’estrema cautela alla quale ci riferivamo
all’inizio di questo punto, crediamo che non sia questo il progetto del
Pkk-Pyd, né è quello che sta facendo. Ci pare che, al di là dell’ideologia e
del linguaggio “ecosocialista” e del “confederalismo democratico”, quello che è
in corso è la costruzione di uno Stato borghese “atipico”, un po’ differente da
quelli che conosciamo abitualmente, tanto per le basi oggettive quanto per
l’espressione parziale di questa stessa ideologia. A nostro modo di vedere, la
Costituzione del Rojava e la politica del Pyd non fondano le basi di uno Stato
operaio (vedere il riferimento all’accettazione del capitale privato) ma di uno
Stato capitalista con molto intervento statale.
Questa realtà si spiega tanto per il carattere di classe
piccolo-borghese della direzione del Pyd come per quello della sua base sociale
(anche questa piccolo-borghese) senza che ci sia la pressione o l’azione del
proletariato per le proprie rivendicazioni e per il proprio programma. Nè la
necessità di un “controgolpe” contro una borghesia nazionale e un imperialismo
che domina l’economia nazionale e attacca il processo (così come Che Guevara
definì il processo cubano tra il 1959 e il 1961).
Una questione centrale da considerare nelle dinamiche
possibili è il contesto regionale. Il Rojava è uno Stato piccolissimo con una
base economica molto debole. Questo contesto è di grande instabilità e di
profondo rischio. Da un lato è aggredito dallo Stato Islamico e isolato dalla
Turchia. Una recrudescenza di questa situazione potrebbe spingere tutto il
processo verso una “economia di guerra” (come è successo a Kobane). Dall’altro,
contraddittoriamente, altri elementi di questa situazione regionale (come la
guerra civile in Siria) “proteggono” il suo isolamento.
Come economia piccola e poco sviluppata, il Rojava può
sopravvivere per un certo tempo (e fino a raggiungere un certo sviluppo) in
modo isolato. Però, in una prospettiva più strategica, un piccolo Stato, questo
piccolo Stato, non ha futuro. Che accadrà per esempio se lo Stato Islamico è
sconfitto in Siria e Assad (con l’appoggio della Russia e dello stesso imperialismo)
ne uscirà rafforzato? È un'illusione pensare che il dittatore siriano manterrà
la tregua di fatto che oggi mantiene con i curdi e non vorrà tentare di
avanzare per recuperare il Rojava e riunificare tutto il territorio
dell’odierna Siria.
In questo senso, la politica internazionale favorita dalla
direzione del Pyd è sbagliata e pericolosissima. Un’ala maggioritaria propone
un’alleanza con Putin e la Russia (il cui asse centrale oggi è attaccare i
ribelli anti-Assad). Un altro settore propone di approfondire l’alleanza con
l’imperialismo yankee (secondo il modello del leader kurdo iracheno, Barzani).
Sono politiche che congiunturalmente possono offrire alcuni vantaggi ma non
considerano che, nel futuro, i curdi del Rojava diventeranno “moneta di scambio”
per questi “alleati” nel gioco più grande dei loro interessi in Siria e in
Medio oriente.
Il terreno conquistato in Rojava dai curdi potrà essere
difeso realmente se, da un lato, si approfondisce l’alleanza con i ribelli
siriani (che aiutò a sconfiggere lo Stato Islamico a Kobane) e si estende alla
lotta per rovesciare Assad e, dall’altro, si utilizza come base per avanzare
nella lotta per uno Stato curdo unitario. Il Rojava sopravviverà come parte di
questa lotta regionale (e, più in generale, come parte della rivoluzione in
Medio oriente) o, sfortunatamente, sarà condannata a perire.
Le ragioni della vittoria a Kobane
Il mondo è rimasto colpito quando le milizie curde di Kobane
hanno sconfitto le forze dello Stato Islamico e le hanno cacciate dalla città.
Finora (nonostante tutta la tecnologia militare usata dall’imperialismo e da
Putin nella regione, e anche quelle utilizzate dal regime di Assad) è stata
l’unica vittoria reale sullo Stato Islamico in Siria. L’impatto aumentava
vedendo le immagini dei battaglioni con molte giovani donne curde combattenti, alcune
delle quali a capo di questi battaglioni.
Eppure, la difesa di Kobane è sempre stata in inferiorità
militare. Le forze dello Stato Islamico contavano su un armamento molto più
moderno e pesante, preso dall’esercito iracheno o acquistato grazie agli introiti
della vendita del petrolio delle zone che controllano. Inoltre, in questa
battaglia hanno perso molti dei loro migliori combattenti, in gran parte molto
esperti e provenienti dall’estero (i comandanti curdi hanno reso noto che, tra
i caduti dello Stato Islamico, hanno identificato uomini provenienti da 27
Paesi).
Ma la storia ha già dimostrato in molte occasioni che la
superiorità militare non basta per garantire la vittoria e che i fattori politici, come il morale e la
convinzione dei combattenti, possono essere importanti quanto, o più, della
“pura” questione militare. Basta vedere, per esempio, la lotta tra lo Stato di
Israele e il popolo palestinese.
Quali sono stati, quindi, i “fattori politici” che hanno
permesso questa vittoria delle masse popolari curde a Kobane? In primo luogo, i
curdi (un popolo fortemente oppresso e storicamente combattivo) lottavano per
la loro liberazione nazionale, per il loro diritto all’autodeterminazione e, nel
caso di Kobane, per la loro stessa sopravvivenza. Avevano quindi una morale
rivoluzionaria.
Le forze dello Stato Islamico venivano da una serie di
vittorie facili in Iraq: molti dei battaglioni dell’esercito di questo Paese
fuggivano senza dar battaglia e lasciavano sul campo grandi quantità di
armamenti. Ma a Kobane si scontrarono con una resistenza feroce che contendeva
loro casa per casa il dominio della città e che colpiva in modo efficacie con
tattiche di guerriglia.
In queste condizioni, le stesse forze dello Stato Islamico
(molti dei cui combattenti hanno ugualmente delle convinzioni ideologiche)
cominciarono a demoralizzarsi. Un giornalista straniero nella regione informava
che “l’aura di invincibilità di cui godeva lo Stato Islamico si è dissolta e ci
sono anche informazioni che parlano di decine di jihadisti che abbandonano
l’organizzazione di Abu Bakr al Baghdadi” (2). Ad aggravare ancora di più la
demoralizzazione delle truppe dello Stato Islamico, li fatto che a sconfiggerli
era non solo una milizia più piccola e peggio armata, ma anche composta in gran
parte da donne, cosa che le colpiva nella loro ideologia reazionaria.
Le donne curde (in particolare quelle giovani) sono state le
grandi protagoniste di questa vittoria. Perché? Un fattore, senza dubbio, è
stato il loro destino personale se lo Stato Islamico avesse vinto e preso la
città. Nel migliore dei casi le aspettava la morte, preceduta sicuramente dallo
stupro. Nel peggiore essere trasformate in schiave e mercanzia sessuale, come
era già successo in Iraq con le giovani della minoranza yazida. La storia della
comandante Arin Mirkan, immolatasi in un attentato nel quale morirono numerosi
combattenti dello Stato Islamico, è stata una prova dell’eroismo a cui erano
disposte queste donne nella loro lotta.
Nei grandi fatti della lotta di classe del XX secolo, come
le rivoluzioni e le guerre, quando i parametri culturali quotidiani vengono
rapidamente demoliti, le donne hanno giocato un ruolo importante e decisivo. È
stato così nelle rivoluzioni russa e cinese, nelle rivoluzioni e guerre civili
in Messico e in Spagna, nella resistenza contro il nazismo durante la Seconda
guerra mondiale ecc. In poco tempo si sono guadagnate spazi e ruoli che prima
sembravano impossibili.
A questo dobbiamo aggiungere che l’ideologia del Pyd-Pkk è
molto progressiva rispetto alle donne, e questo si esprime nell’organizzazione
civile e militare. In una intervista Çınar Salih, rappresentante del cosiddetto Tev-dem (Movimento
per una società democratica) spiegava che “la nostra rivoluzione è una
rivoluzione delle donne. In Rojava non esiste nessun campo della vita nel quale
le donne non assumono un ruolo attivo… Crediamo che una rivoluzione che non
apra il cammino per la liberazione delle donne non è una rivoluzione” (3).
In questo modo, la lotta delle donne curde del Rojava si è
trasformata in una luce brillante nella regione del Medio oriente, dove diverse
forze reazionarie vogliono mantenere le donne in un ruolo arretrato e oppresso.
Si è trasformata anche in un bellissimo simbolo per la lotta delle donne in
tutto il mondo.
Così come abbiamo detto, i bombardamenti imperialisti sullo
Stato Islamico sono stati un fattore totalmente secondario: dei 1.200 morti che
sono stati stimati per lo Stato Islamico in questa guerra, quasi 1.000 sono
morti nei combattimenti con le milizie del Ypg (che ebbero più di 3.000 morti,
tra combattenti e civili).
Lo stesso portavoce del Pentagono, il vice ammiraglio John
Kirby, ha riconosciuto che “la vittoria non sarebbe stata possibile” senza la
partecipazione delle milizie curde. Allo stesso tempo, uno specialista
statunitense sul tema curdo in Turchia e Siria sosteneva: “Nessuno di questi
elementi [i bombardamenti aerei delle forze imperialiste] cambia il fatto che
il ‘cuore’ di questa vittoria appartiene ai combattenti del Ypg che hanno
opposto una resistenza molto forte sul campo, che ha impressionato il mondo
intero” (4).
Infine, come altro fattore molto importante, le milizie di
Kobane sono state appoggiate dai peshmergas, i miliziani provenienti dal
Kurdistan iracheno (che fornirono le poche armi pesanti sulle quali si contava
per la difesa della città), e da battaglioni di combattenti “ribelli” siriani.
Realtà che rafforza le nostre proposte di rafforzare l’alleanza con i
“ribelli”, da un lato, e di avanzare nella lotta per uno Stato curdo unitario.
Un dibattito con gli anarchici
Prima di avanzare nell’analisi della situazione dei curdi in
altri Paesi, vogliamo soffermarci un po’ sulle caratterizzazioni di
organizzazioni e intellettuali anarchici del Rojava e di altre parti del mondo.
Con loro, siamo dallo stesso “lato”, in difesa delle masse popolari curde e in
appoggio della loro lotta. Ma la loro concezione e le loro proposte politiche
non corrispondono alle necessità attuali né a quelle future di questa regione
e, se applicate, porterebbero a un cammino pericolosissimo verso la sconfitta.
Per questa corrente, in Rojava si stanno applicando le
concezioni anarchiche: governare e difendere un Paese dalla base della
popolazione senza che esista uno Stato. Crediamo che questa analisi sia
sbagliata.
Da un lato, riflette il vecchio dibattito tra marxisti e
anarchici rispetto al quale riaffermiamo la posizione dei nostri maestri: nelle
attuali condizioni di sviluppo dell’umanità non si può governare e difendere un
Paese senza uno Stato e le sue istituzioni.
Tuttavia, al di là del dibattito teorico, questa definizione
non riflette la realtà. Affermiamo che in Rojava esiste uno Stato e che, in
realtà, è molto forte in relazione alla dimensione del Paese. In primo luogo
esiste una forza armata con un comando centralizzato (la Ypg), colonna portante
di qualsiasi tipo di Stato. In secondo luogo ci sono istituzioni politiche le
quali a loro volta si centralizzano in un parlamento e in un governo. Infine,
questo Stato e questo governo giocano un ruolo determinante nella
pianificazione e nello stimolo dell’economia.
Chiarito che c’è quindi uno Stato, bisogna definire il
carattere di questo Stato. In primo luogo il suo carattere di classe (un
problema concettuale che gli anarchici non considerano). Per noi, come abbiamo
già analizzato, si tratta di uno “Stato borghese atipico”. In secondo luogo, i
suoi meccanismi di funzionamento e quelli delle sue istituzioni.
Le definizioni di questa corrente partono da una premessa
falsa: ogni Stato (indipendentemente dal suo carattere di classe) è lo
strumento centrale dello sfruttamento e, pertanto, è antidemocratico. Come
conseguenza, ogni struttura democratica costruita dal basso verso l’alto
applica i principi anarchici.
Questa premessa falsa si basa su una doppia
contrapposizione. Da un lato con le democrazie borghesi, nelle quali
effettivamente la democrazia è tale nella forma e non nel contenuto dato che,
come diceva Marx, è una forma mascherata di dittatura della borghesia.
Dall’altro lato, con l’Urss burocratizzata dallo stalinismo, nella quale non
esisteva democrazia politica per i lavoratori e le masse, e che fu presentata
come il “modello del socialismo”. Ma questa Urss burocratizzata era in realtà (sul
terreno delle istituzioni politiche) una caricatura profondamente sfigurata del
vero modello istituzionale e di funzionamento dello Stato operaio che
proponiamo per la transizione al socialismo.
Un modello messo in pratica tra il 1917 e il 1919, fino a
che una durissima guerra civile (provocata dall’attacco congiunto di vari
eserciti imperialisti e dei controrivoluzionari russi contro il giovane Stato
operaio) obbligò a lasciarlo momentaneamente da parte. Questo modello sovietico
si basa precisamente sui soviet (consigli di deputati operai e contadini) come
istituzione centrale.
Costituisce una democrazia costruita dalla base: gli operai
votavano i loro rappresentanti nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro, e i
contadini nelle loro assemblee (cioè, milioni di persone intervenivano in modo
diretto nella vita politica). Da lì in su si eleggevano i rappresentanti ai
soviet distrettuali, provinciali e nazionale. I rappresentanti e deputati
sovietici potevano essere revocati e rimpiazzati dalla loro base se non
compivano il mandato votato nelle riunioni e nelle assemblee. Il governo
centrale era eletto dal soviet nazionale che (ugualmente a quelli di livello
inferiore) agiva contemporaneamente come organismo legislativo ed esecutivo
(era il responsabile dell’applicazione delle risoluzioni approvate). Era uno
Stato basato su una democrazia costruita dal basso verso l’alto e, allo stesso
tempo, aveva un contenuto di classe: operai alleati con i contadini poveri. Non
potevano né votare, né essere eletti ai soviet i borghesi e tutti quelli che
sfruttavano la forza lavoro altrui e, allo stesso tempo, era destinato a
reprimere i borghesi e ad eliminarli come classe.
Come elemento complementare, diciamo che la maggioranza
delle correnti anarchiche russe dell’epoca si opposero a questa costruzione
partendo dalla premessa della lotta contro ogni forma di Stato (anche se alcuni
dirigenti operai anarchici lo appoggiarono in maniera individuale). Di fatto,
si allearono con l’opposizione controrivoluzionaria e i settori più radicali
organizzarono anche un attentato contro Lenin nel 1918.
Come abbiamo detto, il governo di Lenin e Trotsky ebbe la
necessità di lasciare da parte momentaneamente questa piena democrazia a causa
della guerra civile. Ma il progetto era di riprenderla completamente al termine
di questa. Lo stalinismo fece “di necessità virtù” e avanzò qualitativamente
nella burocratizzazione dello Stato e delle sue istituzioni, sostenendo che
quello fosse “il vero modello”. Ma Trotsky e i trotskisti russi combatterono lo
stalinismo e la burocratizzazione dell’Urss (e tentarono di difendere la
democrazia sovietica); come trotskisti, noi non ci consideriamo responsabili
della caricatura costruita e difesa dallo stalinismo, né del suo fallimento.
Vogliamo terminare questo dibattito con gli anarchici
riferendoci a due questioni per le quali pensiamo che le loro proposte (oltre
che utopistiche) siano molto pericolose. La prima si riferisce alla non
definizione del carattere di classe delle istituzioni politiche del Rojava.
Accettiamo che oggi esista in Rojava una “democrazia dal basso verso l’alto”.
Ma, nella misura in cui si tratta di uno Stato borghese, cosa succederà a
questa nella misura in cui si sviluppi una borghesia nella regione e che
aumentino anche le pressioni dell’imperialismo, di Putin e della borghesia
curda irachena in cambio del loro “aiuto”. Per noi, si va verso una
contraddizione acuta tra la politica che potrebbe avere la direzione del Pyd
(svuotare di contenuto questo funzionamento o eliminarlo apertamente) e il suo
funzionamento attuale. In qualsiasi caso, la prospettiva sarà quella della
necessità di lottare per difenderla. La politica degli anarchici disarma di
fronte a questa possibile lotta e, per questo, porta alla sconfitta.
La seconda si riferisce alla questione militare, attualmente
basata su gruppi di milizie popolari. Tanto la struttura delle milizie come le
tattiche guerrigliere proprie di questo modello (ancora di più se c’è una
morale rivoluzionaria e un appoggio di massa) possono essere molto efficaci se
si tratta di una lotta difensiva contro un nemico che, anche se superiore
militarmente, non ha base popolare.
Ma se il compito che ci si pone è superiore e offensivo, le
milizie non possono essere lo strumento militare centrale (anche se possono
essere un elemento complementare). Le milizie curde possono difendere Kobane
dalle forze dello Stato Islamico, ma se si tratta di sconfiggerlo in modo
definitivo serve uno strumento militare superiore: un esercito completo, con le
sue divisioni, e un comando strategico centralizzato. Quanto abbiamo detto per
lo Stato Islamico è ancora più vero se ci riferiamo al compito di rovesciare
Assad (appoggiato da Putin e Hezbollah), e ancora di più se si tratta di
lottare per uno Stato curdo unitario che dovrà affrontare, per esempio, l’esercito
turco e quello iraniano.
Proporre le milizie popolari come forma eterna (perché
questo è adeguato a un non-Stato) è idealismo utopistico che non prepara la
costruzione dello strumento militare necessario per i compiti politici che sono
posti nella realtà.
In Iraq c’è una borghesia curda privilegiata
Attualmente in Iraq, i curdi vivono una situazione
particolare. In questo Paese occupano la parte nord, quello che si chiama
Kurdistan iracheno o, secondo la denominazione di questo popolo, “Kurdistan del
sud”, la cui città principale è Mosul. È una delle zone più ricche di petrolio
della regione.
Negli anni ’80, durante la guerra Iraq-Iran, un’offensiva
del regime di Saddam Hussein portò al “genocidio di Anfal”, con dure
conseguenze per la popolazione, una parte della quale dovette fuggire dal
Paese. Dopo la prima guerra del Golfo (1991), molti rifugiati cominciarono a
tornare e la regione ottenne l’autonomia. Tra il 1994 e il 1997 si sviluppò una
guerra civile nella quale si affrontarono le milizie del Pdk (Partito
democratico del Kurdistan) e quelle dell’Unione patriottica del Kurdistan (Upk,
una scissione del primo), che vide la vittoria del Pdk.
Quando ci fu l’invasione imperialista, nel 2003, la
direzione del Pdk, guidata da Masud Barzani (figlio del fondatore del partito,
uno dei leader della effimera Repubblica di Mahabad, in Iran), in cambio di
promesse di maggiore autonomia si unì alla coalizione delle forze guidate
dall’imperialismo, che invase l’Iraq e rovesciò il regime di Saddam Hussein.
A partire da questo accordo, la Costituzione del 2005
conferisce al Kurdistan iracheno il carattere di “entità federativa autonoma”,
con diritto a eleggere il proprio governo e il proprio parlamento, ed anche ad
avere delle relazioni estere proprie. Ci sono sempre stati rappresentanti curdi
nei governi filo-imperialisti di tutto il periodo dell’occupazione. Jalal
Talabani, un curdo, arrivò perfino a essere presidente del Paese.
Attualmente, nei fatti, il Pdk ha cominciato ad amministrare
il proprio Stato, anche se formalmente continua ad essere parte dell’Iraq. Fino
alle recenti vittorie delle forze sciite appoggiate dall’Iran (che hanno
recuperato la regione di Tikrit), le milizie curde dell’Iraq erano le uniche
che avessero combattuto efficacemente e che riuscivano a frenare lo Stato
Islamico in questo Paese, mentre l’esercito iracheno fuggiva vergognosamente.
La borghesia curda migliorò notevolmente la sua situazione:
passò dal ricevere il 13% al 30% del valore del petrolio estratto ed esportato.
Cosa che, unita ad una buona produzione agricola, l’ha trasformata in una della
più ricche dell’Iraq, con una economia molto solida. Questa è la base su cui
poggia il Pdk che, oltre al suo carattere borghese, si è trasformato in una
organizzazione chiaramente legata all’imperialismo. Un dato importante
caratterizza questo partito e il suo governo: il Kurdistan iracheno è il
principale esportatore di petrolio verso la Turchia, dove il governo di Erdogan
opprime e reprime i loro fratelli.
Tuttavia, anche se il Pdk e la borghesia che rappresenta
sono soddisfatti della situazione attuale, la situazione di questa regione
presenta tratti più complessi. Perché, oltre alla sua alleanza politica,
economica e militare con l’imperialismo yankee, e le relazioni commerciali con
il governo turco, il governo di Barzani e la borghesia curda dell’Iraq sono soggetti
anche alla pressione delle loro masse popolari. Per questo Barzani si è visto
obbligato a inviare armi a Kobane (anche se attraverso gli aerei imperialisti)
e a permettere che battaglioni di miliziani peshmergas andassero a
combattere insieme con i loro fratelli di Siria.
Ma quello che non vuole Barzani è “dare un calcio al tavolo”
e irritare l’imperialismo yankee (o il suo alleato turco). Per questo ora si
limita a chiedere l’indipendenza del Kurdistan iracheno (anche se senza forzare
la situazione). Questo obiettivo sarebbe, in sé stesso, progressivo, un passo
avanti nella lotta di questo popolo, perché darebbe un punto d’appoggio se
fosse posto al servizio della lotta curda nel suo insieme. Ma nelle mani di
Barzani e del Pdk significa lasciare da parte la lotta per la costruzione di
uno Stato curdo unitario e abbandonare alla loro sorte i curdi di Turchia, Iran
e Siria.
Iran
In Iran, i curdi sono circa 8 milioni (10% della popolazione
del Paese). Abitano fondamentalmente nel nordovest del Paese, nella zona di
frontiera con l’Iraq. È una delle regioni meno sviluppate dell’Iran, dedita
all’agricoltura e all’allevamento e con poche industrie. La principale città è
Mahabad, con circa 300.000 abitanti. In termini generali, sono poco integrati
nella società iraniana.
In questo Paese, nel 1946, si realizzò per la prima volta il
sogno di una regione curda indipendente (la Repubblica di Mahabad), sconfitta
in meno di un anno. Dopo la rivoluzione del 1979, la proclamazione della
repubblica islamica sciita e l’installazione del regime degli ayatollah, la
situazione dei curdi si aggravò per la questione religiosa, dato che la
maggioranza sono musulmani sunniti. La guerra Iran-Iraq (1980-1988) venne
utilizzata dal regime per aumentare gli attacchi a questo popolo.
I curdi affrontano una chiara discriminazione per accedere
agli impieghi pubblici, a causa di un metodo di selezione conosciuto come
“gozinesh”. Soffrono anche persecuzioni per ragioni strettamente politiche e,
con l’avvento al potere di Ahmadinejad, nel 2005, la lotta all’opposizione
venne accentuata e i partiti politici curdi la subirono ugualmente agli altri
movimenti nazionali, agli oppositori politici e ai difensori dei diritti umani.
Recentemente (nel maggio 2015), i curdi si ribellarono in
seguito alla morte di una giovane curda che tentava di sfuggire a uno stupro da
parte di alcuni uomini delle forze di sicurezza del regime, in un hotel di
Mahabad. Le proteste si estesero ad altre città curde nel giro di poche ore, e
portarono all’arresto di centinaia di curdi.
In questo Paese opera il Partito per una vita libera nel
Kurdistan (Pjak), fondato nel 2004. L’ala militare di questo partito è
conosciuta come Unità di difesa del Kurdistan dell’est (Yrk), che
periodicamente si scontra con le “guardie islamiche”. Il Pjak ha relazioni
politiche con il Pkk e con i resti dell’Upk.
Turchia: il centro della questione del popolo curdo
In Turchia vive quasi la metà del popolo curdo (16.000.000,
il 20% della popolazione totale del Paese) e i curdi sono l’assoluta
maggioranza in circa un terzo del territorio turco (quasi 200.000 km2).
La principale città di questa regione è Diyarbakir (in turco), chiamata Amed o
Amet dai curdi, con quasi un milione di abitanti. Secondo i dati che abbiamo
potuto raccogliere, 12 milioni sono nelle aree curde e 4 milioni sono emigrati
verso le principali città del Paese, come Istanbul.
Già dai tempi di Kemal Ataturk (dopo una promessa non
mantenuta di autonomia) i curdi sono stati fortemente oppressi, discriminati e
repressi in questo Paese. Lo Stato turco non riconosce l’esistenza di una zona
curda e la considera parte delle regioni dell’Anatolia orientale e
sudorientale, non permette l’uso del curdo come lingua ufficiale o come seconda
lingua. Inoltre li discrimina economicamente: la disoccupazione lì è cinque
volte la media nazionale.
Le principali attività economiche sono l’agricoltura (grano)
e l’allevamento (capre e pecore), oltre al commercio, l’estrazione mineraria
(rame), la poca produzione turca di petrolio e il trasporto del petrolio
dall’Iraq. Ci sono anche alcune attività industriali, specialmente a Diyarbakir
e nella sua area di influenza, legate alla lana, al tabacco e ad altre
produzioni (distillati).
In questo quadro, esiste una borghesia curda legata a queste
attività economiche. Una delle sue espressioni politiche è il Partito popolare
democratico o per la pace e la democrazia (Hdp), organizzazione legale che è
riuscita a eleggere 80 deputati al parlamento turco.
Tuttavia, l’organizzazione politica di maggior influenza
“alla base” è il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan, guidato da Abdullah
Ocalan), dichiarato illegale e considerato “terrorista” (analizzeremo il Pkk a
parte).
Per lo Stato e la borghesia turca, la separazione del
cosiddetto Kurdistan del nord sarebbe un colpo molto duro per la riduzione
territoriale e di popolazione che significherebbe. Finora è stata negata
qualsiasi discussione anche sull’autonomia (senza parlare di una possibile
indipendenza).
Il processo del Kurdistan iracheno (controllato da Barzani e
dal Pdk) non ha toccato il governo di Erdogan e la situazione in Turchia. Anzi,
come abbiamo visto, questa regione gli fornisce il petrolio. Al contrario, il
processo del Rojava è stato un fattore destabilizzante della situazione, tanto
per la sua dinamica (ancora di più dopo la vittoria di Kobane) come per le
relazioni tra le popolazioni e l’influenza del Pkk da entrambi i lati della
frontiera. Per questo, la politica di Erdogan è stata quella di appoggiare lo
Stato Islamico in Siria.
In questo quadro, dal 2012 si sono aperti negoziati tra il
governo di Erdogan e il Pkk, in parte su pressione dell’Unione europea, che
chiede una risoluzione della “questione curda” come condizione per l’ingresso
della Turchia nell’Ue. Nel 2013, il Pkk ha dichiarato un cessate il fuoco
unilaterale delle sue milizie. I negoziati non sono andati oltre o, per meglio
dire, avanzano e retrocedono periodicamente.
Una contraddizione centrale è che il Pkk aspira ad un grado
importante di autonomia del Kurdistan turco mentre il governo di Erdogan
presenta un piano “di tipo colombiano”: abbandono delle armi e integrazione
nella vira politica, così il Pkk, sommato all’Hdp, otterrebbe municipalità e
amministrazioni regionali. Questa proposta ha anche un aspetto economico:
l’offerta alla borghesia curda di intermediazione nell’importazione del
petrolio dall’Iraq, ampliando così la base dei suoi affari.
Questa politica di Erdogan e del suo partito si dava in un
momento in cui l’Akp si indeboliva elettoralmente. Nelle elezioni del giugno
scorso, questo partito ha anche perso la maggioranza parlamentare e c’era la
possibilità della formazione di una coalizione parlamentare dei partiti laici
(Partito repubblicano del popolo, partito del kemalismo storico, e il Partito
di azione nazionalista) con l’Hdp, che avrebbe potuto formare un nuovo governo.
Questa congiuntura si è conclusa: nelle elezioni dello scorso novembre l’Akp ha
ottenuto la maggioranza e Erdogan si è rafforzato, per cui indurirà la sua
posizione verso i curdi.
Oltre a questo aspetto congiunturale, le relazioni con le
organizzazioni curde della Turchia sono permanentemente avvelenate e interrotte
dalla politica del governo dell’Akp verso il Rojava: il suo appoggio allo Stato
Islamico, la chiusura armata della frontiera con questa regione e l’ostilità
verso i rifugiati (ora si parla della possibile creazione di un “cordone
sanitario” che separi ermeticamente il Kurdistan turco dal Rojava).
Un altro fatto in questo senso è stato il cosiddetto
“massacro di Suruç”, in cui i terroristi dello Stato Islamico hanno attaccato
un accampamento di giovani turchi solidali con Kobane (espressione di un
movimento molto ampio esistente nel Paese) e ne hanno uccisi 30 (con la connivenza
del governo o di una parte di esso). In questo modo, la tregua dichiarata dal
Pkk è stata infranta più volte e ci sono stati scontri tra le sue milizie e le
forze militari turche.
Per tutto questo, i negoziati che stavano incorrendo tra il
governo di Erdogan e il Pkk (con anche visite di rappresentanti del governo a
Ocalan nella sua cella) oggi si sono interrotti, senza che sia chiaro se
riprenderanno e quando.
Questa realtà pone fortissime contraddizioni al progetto di
rafforzamento elettorale e parlamentare, e di accordo con il governo, dell’Hdp.
E ancora di più al Pkk che, da sinistra, accompagnava sempre più la politica
dell’Hdp.
Il Pkk, il suo cambio di ideologia e il suo progetto attuale
Attorno al processo del Rojava e al Pkk-Pyd (ancora più dopo
la vittoria di Kobane) comincia a costruirsi una corrente internazionale che
rivendica questo processo, promossa da settori che provengono dal
castro-chavismo e dall’anarchismo, che presentano questo processo come un
“nuovo socialismo”. Si tratterebbe di un riferimento alla realtà molto più
attrattivo di Cuba o del Venezuela attualmente. È importante, quindi,
affrontare l’analisi e la caratterizzazione di questa organizzazione.
Il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) è stato
fondato in Turchia nel 1978 da studenti curdi attivisti. A partire dal 1984
inizia la lotta armata contro lo Stato turco. Il suo principale dirigente è
Abdullah Ocalan (detto “Apo”), che attualmente ha 66 anni. Nel 1999, Apo è
catturato dalle forze di sicurezza turche e condannato a morte, ma nel 2002
questa condanna fu commutata in ergastolo.
L’ideologia originaria del Pkk combina l’adesione a concetti
politici e organizzativi del maoismo con il nazionalismo curdo. Dal maoismo ha
preso la concezione della rivoluzione a tappe, l’alleanza di classe con settori
borghesi nella prima tappa e la costruzione del socialismo in un solo Paese.
Non ha mai avuto una concezione della rivoluzione mondiale, ma nel suo
programma originario rivendicava la costruzione di uno Stato curdo unitario.
La sua struttura organizzativa adottò le forme delle
correnti maoiste più radicali: una stretta disciplina burocratica, il “culto
della personalità” del dirigente (Apo), e della sua struttura guerrigliera, il
metodo di dirimere le differenze politiche con l’assassinio degli oppositori
(una parte del Cc originario venne eliminata da Apo).
In prigione, Ocalan intavola una relazione con un dirigente
anarchico che lo convince rispetto ad alcune idee. A partire da lì, inizia una
svolta ideologica verso una concezione che chiama “confederalismo democratico”
(Cd). Vediamo alcuni concetti centrali di questa ideologia (5):
· Si oppone allo Stato-nazione classico, che considera “un'entità strutturata militarmente in maniera centralizzata” e che, per questo, nasce da eventi militari e conduce alla “militarizzazione” e alla “centralizzazione” della società.
· A questo contrappone “l’autodifesa” della società, che considera non solo una questione militare, ma che “presuppone anche la preservazione della propria identità, della propria coscienza politica e di un processo di democratizzazione”.
· Questo si esprime nella “autoamministrazione” politica, nella quale i “gruppi centrali, regionali e locali” si equilibrano, rappresentando la composizione contraddittoria della società (con le sue differenze di genere, etnia, età ecc.). Pensa che ogni centralismo statale non solo finisce per essere controllato dai monopoli, ma entra anche in contraddizione con la struttura eterogenea della società.
· Dice che “in certe circostanze, la coesistenza pacifica (del Cd) è possibile sempre e quando lo Stato-nazione non interferisca con le questioni fondamentali dell’autoamministrazione”.
· In campo economico, parla di una “economia alternativa” e “antimonopolistica” con una “base ecologica”, che incrementi le risorse naturali e non le distrugga, e che soddisfi le necessità della società.
· Promuove un ruolo di rilievo per le donne. In un'intervista Çınar Salih, rappresentante del cosiddetto Tev-dem (Movimento per una società democratica) del Rojava spiegava: “la nostra rivoluzione è una rivoluzione di donne. In Rojava non c’è nessun campo della vira nel quale le donne non abbiano un ruolo attivo… Crediamo che una rivoluzione che non apra la strada per la liberazione delle donne non è una rivoluzione” (“Le Comuni e i Consigli del Rojava”, reportage di Janet Biehl).
Sulla questione curda a livello internazionale (6)
· Il diritto di autodeterminazione delle nazioni era interpretato come il diritto ad instaurare uno Stato-nazione.
· Il sistema degli Stati-nazione, tuttavia, si è trasformato in un serio ostacolo per lo sviluppo della società, della democrazia e della libertà dalla fine del XX secolo.
· L’unica maniera di uscire da questa situazione è instaurare un sistema democratico confederale il cui sviluppo sia direttamente legato al popolo e non alla globalizzazione basata sugli Stati-nazione.
· Per il Kurdistan, il confederalismo democratico è un movimento che non interpreta il diritto di autodeterminazione come l’instaurazione di uno Stato-nazione ma come lo sviluppo della sua stessa democrazia, al di là delle frontiere politiche. Una struttura curda si svilupperà attraverso la creazione di una federazione di curdi in Iran, Turchia, Siria e Iraq. Più tardi, per l’unione ad un livello più alto, si formerà un sistema confederale.
Non possiamo affrontare in questo articolo il dibattito sui
differenti aspetti teorici, storici e politici di queste concezioni di Ocalan e
del Pkk. Vogliamo concentrarci su due aspetti politico-programmatici centrali.
Il primo: con questo cambiamento ideologico, Ocalan e il Pkk
hanno abbandonato la lotta per la dittatura del proletariato e per la
costruzione di uno Stato operaio (anche se in una seconda tappa della
rivoluzione). Come abbiamo già segnalato, pensiamo che, al di là dell’ideologia
e del linguaggio “ecosocialista” e “confederalista democratico”, si nasconde il
progetto di costruire uno Stato borghese “atipico”.
In secondo luogo, una questione centrale per l’analisi e la
proposta affrontata da questo testo: Ocalan e il Pkk hanno abbandonato la lotta
per uno Stato curdo unitario. Al suo posto, si avanza la rivendicazione di
autonomia federative nei quattro Paesi già citati (senza rompere le frontiere
attuali) e una proposta simbolica di integrazione futura.
Questa posizione esprime, da un lato, un adattamento a una
realtà che è già accettata dall’imperialismo: l’autonomia esistente in Iraq e
la più recente ottenuta in Rojava. Dall’altro (anche se ora i negoziati sono
interrotti), ho l’impressione che il principale messaggio è diretto alla
borghesia e al governo della Turchia (e all’imperialismo), dato che lì risiede
la popolazione curda più numerosa e la base principale del Pkk. Sarebbe
qualcosa come “possono inquadrarci se ci danno uno spazio nostro e, in questo
caso, non rovesceremo il tavolo”.
Questo è il risultato inevitabile della svolta a destra di
una direzione piccolo-borghese e burocratica che (come espressione curda
dell’alluvione opportunista) ha abbandonato qualsiasi prospettiva di lotta per
il socialismo. La “soluzione” quindi può darsi solo dentro agli “scenari
possibili” che esisteranno nel capitalismo.
La rivendicazione della costruzione di uno Stato curdo
unitario non è una rivendicazione socialista ma democratico-borghese. Ma che si
trasforma in una favolosa proposta transitoria di mobilitazione perché, da un
lato, è una aspirazione profondamente sentita da milioni di curdi e,
dall’altro, potrà concretizzarsi solamente con una durissima lotta
internazionale contro le borghesie nazionali dei Paesi che li opprimono e contro
lo stesso imperialismo che, da decenni, nega loro questo diritto.
Rispetto a questa rivendicazione, si produce una situazione
simile a quella della “Palestina laica, democratica e non razzista in tutto il
suo territorio storico”, abbandonata da quasi tutte le direzioni palestinesi.
Anche le direzioni curde (come il Pkk-Pyd, l’Hdp e il Pdk) abbandonano la lotta
per uno Stato curdo unitario. Al contrario, noi dobbiamo portarla avanti, come
proposta programmatica e come appello alla lotta.
È certo che già esistono due autonomie curde, in Iraq e in
Siria: dobbiamo rivendicarle come conquiste delle masse popolari curde. Ma non
possono trasformarsi in un obiettivo in sé stesse, ma devono essere poste al
servizio della continuità della lotta per uno Stato curdo unitario.
Un breve abbozzo del nostro programma per il Kurdistan
Con la stessa cautela con cui deve essere considerato il
complesso di questa elaborazione (fatta sulla base di informazioni e materiali,
e non con la conoscenza diretta della realtà) vogliamo concludere con un breve
abbozzo del programma per il Kurdistan.
Questo programma deve partire, in primo luogo, dalla difesa
del popolo curdo di fronte all’oppressione, alla repressione e alle aggressioni
militari che subisce nei diversi Paesi. Questo include l’appoggio
incondizionato alla loro lotta.
In secondo luogo, come abbiamo già detto, sosteniamo il
diritto a costruire un loro Stato unitario (e a rendersi indipendenti dai
territori degli Stati che li opprimono) per il raggiungimento della loro autodeterminazione.
In questo senso, pensiamo che le autonomie ottenute in Iraq
e Rojava sono un passo in avanti in questa direzione e, per questo, devono
essere difese. Ma non devono essere considerate come “l’obiettivo finale",
bensì devono essere poste al servizio della lotta per ottenere uno Stato curdo
unitario.
Nel caso della Siria, dobbiamo favorire il rafforzamento
dell’alleanza con i ribelli per avanzare nella lotta per il rovesciamento della
dittatura di Assad.
Per tutto questo, non diamo nessun appoggio, né invitiamo ad
aver fiducia nelle direzioni curde attuali, sia per il loro carattere di classe
(borghese o piccoloborghese), sia per la politica che portano avanti (come
l’abbandono della lotta per uno Stato curdo unitario). Questo significa che, stando
dalla parte della lotta del popolo curdo, le combattiamo politicamente, facendo
appello a lottare contro le loro politiche che sono contrarie alla lotta
unitaria dei curdi (come gli accordi con l’imperialismo e con Putin) e li
sfidiamo ad applicare politiche che stimolino questa lotta. Nel caso
dell’autonomia in Iraq, si pone inoltre, in modo immediato, la lotta di classe
del proletariato curdo contro la borghesia curda rappresentata da Barzani.
Nel quadro di questo processo di lotta, facciamo appello a
costruire nuove direzioni curde che siano disposte a portare questa lotta fino
alla fine. In modo specifico, crediamo che vi sia le necessità urgente di
costruire un partito operaio, rivoluzionario e socialista curdo che, oltre a
stimolare e a intervenire attivamente in queste lotte, ponga la costruzione di
uno Stato curdo unitario come parte dei compiti per avanzare verso una
federazione di repubbliche socialiste del Medio oriente.
Note:
1) Pubblicata originariamente in Özgür Günden e riprodotta parzialmente nell'articolo di Leandro Albani, che integra un'edizione speciale del bollettino Resumen Latinoamericano “Incógnitas, desafíos y realidades – La economía en Rojava, territorio liberado kurdo”.
2) Las milicias kurdas echan al Estado Islámico de Kobane, Andrés Mourenza, Estambul, 28/1/2015, Agencia CET.
3) “As Comunas e Conselhos de Rojava”, reportage di Janet Biehl (preso da Resumen Latinoamericano y del Tercer Mundo, envío del 20/12/2014).
4) “Kobani: How strategy, sacrifice and heroism of kurdish female fighters beat ISIS”, Mutlu Civiroglu (KurdishQuestion.com)
5) Estratto del testo “Confederalismo Democrático” di Abdulah Ocalam, preso dalla traduzione in spagnolo del materiale già citato di Resumen Latinoamericano.
(6) Estratto da: To the kurdish people and the international community- Declaración del Confederalismo Democrático en Kurdistán, 20/03/2005.
* Dal sito della Lit-Quarta Internazionale (www.litci.org). Traduzione di Matteo Bavassano