
Nel rispondere alla prima parte della domanda rischio di essere ripetitiva, perché hanno già detto l'essenziale i compagni che mi hanno preceduta in questo ciclo di interviste [le interviste precedenti, a Ricci e Lotito, si possono leggere sul sito web www.alternativacomunista.org, ndr). Penso che attualmente sia ancora forte il controllo che le direzioni sindacali opportuniste e burocratiche esercitano sulla classe lavoratrice. Gli apparati di Cgil, Cisl e Uil dirigono la stragrande maggioranza della classe lavoratrice e conservano per ora il monopolio dell’agitazione delle grandi masse proletarie. In particolare, la classe operaia industriale, che è quella che esercita un ruolo centrale nel sistema produttivo, per ora non conosce significativi fenomeni di rottura rispetto agli apparati tradizionali: basta pensare al ruolo della Fiom tra i metalmeccanici.
Questo enorme potere degli apparati sindacali concertativi non ha paragoni nel resto d'Europa: è un fenomeno che penso abbia precise radici storiche. Negli anni Sessanta e Settanta, i principali settori della classe operaia di fabbrica, nei grandi poli industriali del Paese (Piemonte-Lombardia-Veneto), hanno dato vita a lotte radicali e di massa che, per anni, sono sfuggite totalmente al controllo delle direzioni sindacali burocratiche. E' proprio in virtù di quelle lotte - spesso promosse da militanti delle organizzazioni della cosiddetta "estrema sinistra" - che la borghesia italiana è stata costretta a fare concessioni significative in un contesto capitalistico: dallo Statuto dei lavoratori (ottenuto dopo 15 milioni di ore di sciopero a Mirafiori nel solo 1969) al riconoscimento dei consigli di fabbrica fino a numerose concessioni sul terreno dei servizi pubblici e sociali (scuola, sanità, casa).
Tuttavia, il fallimento di quella stagione di lotte - dovuto in primo luogo, a nostro avviso, alla mancanza in Italia di un partito rivoluzionario e internazionalista con influenza di massa - ha finito per portare nuova linfa agli apparati sindacali tradizionali, che hanno saputo approfittarne per consolidare il loro ruolo di mediazione tra padroni, classe lavoratrice e governi borghesi. Parafrasando Lenin, questi "agenti della borghesia nel proletariato" hanno rafforzato il loro ruolo di pompieri. Oggi gli effetti di questo processo sono sotto gli occhi di tutti: i padroni si stanno riprendendo quello che erano stati costretti a concedere, dallo Statuto dei lavoratori (si pensi al Jobs Act) agli spazi di rappresentanza sindacale (Testo unico sulla rappresentanza): e le direzioni di Cgil, Cisl e Uil non hanno nessuna intenzione di alzare il livello dello scontro.
Penso che sia una vicenda emblematica, purtroppo. Ci dice che, anche al di fuori degli apparati di Cgil, Cisl e Uil il quadro non è roseo. E questo va al di là della mio caso. Quell'espulsione era un pretesto per eliminare una componente scomoda all'interno del sindacato, che conduceva una battaglia per l'unità del sindacalismo di base e per la democrazia interna, di cui io ero una figura riconosciuta. Ci tengo però a sottolineare come questa vicenda rimandi a un problema che non riguarda solo Usb (tra l'altro, ho avuto molta solidarietà da parte di tanti attivisti di quel sindacato): è un problema di gran parte del sindacalismo conflittuale e di base in Italia. I sindacati "di base" sono nati sull'onda di dure lotte auto-organizzate, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta. Inizialmente, nel vivo dei conflitti, portavano con sé tutte le caratteristiche positive delle lotte che rappresentavano: discussione democratica nelle assemblee, radicalità, unità di classe. Col rifluire delle lotte, si sono imposte spesso logiche di apparato, non certo paragonabili a quelle dei grandi sindacati concertativi, ma comunque di ostacolo allo sviluppo delle mobilitazioni: settarismi e autoreferenzialità; carenza di dibattito democratico e di momenti assembleari o congressuali; assenza di democrazia operaia (ovverosia di discussione con i lavoratori delle scelte dei sindacati, imposte invece dall'alto); nessun vincolo di mandato per i sempiterni leader nazionali (a volte vecchissimi leader, senza nessun ricambio nonostante il passare dei decenni...). Tutto questo ha contribuito a creare frammentazione delle lotte, con l'incapacità spesso di creare persino momenti di solidarietà reciproca o scioperi unitari.
Ne vedo molti, e credo che se, nonostante tutti questi ostacoli, si aprirà finalmente una stagione di lotte e di massa, alla fine saranno gli aspetti positivi a prevalere. Prima di tutto, la base dei sindacati - sia quelli conflittuali che quelli concertativi - ha dimostrato di saper andare al di là delle indicazioni dei propri dirigenti nazionali. Voglio citare la straordinaria esperienza di No Austeriy, dove realtà sindacali e di lotta appartenenti a sindacati diversi si sono unite in uno stesso coordinamento, mettendo al primo posto la solidarietà reciproca e la costruzione dell'unità delle lotte rispetto alle logiche settarie o di apparato. E voglio anche ricordare che, in alcuni settori, in particolare quello della logistica e delle cooperative, gli operai hanno deciso di organizzarsi con il sindacato di base e conflittuale, mettendo in scacco non solo padroni e padroncini, ma anche i burocrati di Cgil, Cisl e Uil. Questi operai hanno animato le lotte più dure degli ultimi anni e, anche grazie al coordinamento No Austerity, hanno costantemente ricevuto la solidarietà di operai e lavoratori di altri sindacati: fianco a fianco nelle lotte davanti ai cancelli contro il comune nemico (i padroni) e indipendentemente dall'appartenenza sindacale.
Nel rispondere a questa domanda mi viene un po' da sorridere pensando che una delle accuse che ci fanno i nostri detrattori è che saremmo "settari". Sorrido perché i militanti del Pdac sono sempre presenti nelle lotte, a tanti picchetti, alle manifestazioni: partecipano attivamente alla costruzione dei coordinamenti di lotta e delle mobilitazioni, mettendo le nostre energie militanti a disposizione del rafforzamento dell'unità della classe lavoratrice. Gli operai, i precari, gli immigrati, le donne, i lavoratori in lotta ci conoscono per il nostro impegno militante al loro fianco. Per questo faccio un bilancio positivo del nostro intervento sindacale: abbiamo probabilmente fatto sbagli e errori, e ne discuteremo a fondo in questo congresso, come siamo abituati a fare, ma siamo sempre al fianco di chi lotta, e non solo a parole. Siamo settari solo nel senso che, a differenza di tanti altri, siamo intransigenti nella difesa delle posizioni che portiamo nelle lotte – unità e indipendenza della classe, democrazia operaia, necessità di una prospettiva socialista – e, per questo, di solito risultiamo sgraditi ai burocrati, piccoli e grandi, che hanno interessi materiali da difendere e dunque sostengono altre parole d’ordine. Non mi pare casuale il fatto che subiamo spesso attacchi dalle direzioni sindacali, con espulsioni, emarginazione, estromissioni dagli organismi dirigenti, ecc: i dirigenti opportunisti ci vedono come una minaccia, perché con le nostre rivendicazioni mettiamo in discussione i loro piccoli privilegi. Ma i lavoratori e gli attivisti sindacali combattivi capiscono chi sta dalla loro parte: è il loro giudizio quello che ci interessa.
Sono una precaria della scuola da circa dieci anni. Si parla troppo poco della condizione dei precari della scuola in Italia. Siamo un esercito di circa 300 mila, ogni anno veniamo licenziati a giugno e dobbiamo aspettare l’assunzione in autunno. La condizione dei precari si è aggravata negli ultimi anni, a causa dei pesanti tagli alla scuola pubblica imposti dai governi di centrodestra, centrosinistra e "tecnici". I posti per le supplenze si sono ridotti e gli stipendi arrivano sempre più in ritardo (talvolta anche di tre o quattro mesi). Oggi con la “cattiva scuola” di Renzi la condizione della scuola pubblica si aggrava: si vogliono trasformare le scuole in aziende, dirette da presidi-sceriffi che possono decidere chi assumere e chi no, chi trasferire e chi licenziare. Si aprono ulteriormente le scuole ai finanziamenti dei privati, di fatto cancellando la gratuità dell’istruzione pubblica. Soprattutto, dal nostro punto di vista di precari, spacciano per assunzione di migliaia precari quello che invece è un licenziamento di massa: se passa questo disegno di legge, saremo in decine di migliaia ad essere di fatto licenziati e per noi non ci sarà nessuna possibilità di lavoro nella scuola. Ma siamo sul piede di guerra e stiamo organizzando assemblee e proteste in tutte le città d’Italia: siamo agguerriti e convinti che con la lotta possiamo respingere questo disegno di legge.
Non siamo autocelebrativi: sappiamo che siamo ben lontani dall’obiettivo di costruire quel partito della classe lavoratrice che servirebbe subito in Italia. Ma siamo parte di un’organizzazione internazionale, la Lega Internazionale dei Lavoratori (Lit), che sta crescendo e, in altri Paesi – e non di secondaria importanza, come il Brasile, uno dei più grandi del mondo – sta dirigendo importanti processi di ascesa delle masse. Questo ci incoraggia e ci consente di ragionare in un quadro più ampio, internazionale. Ma, per finire con un’autocritica costruttiva, voglio dire che sì, c’è una cosa che vorrei cambiare nel mio partito: vorrei che ci fossero più donne nei nostri organismi dirigenti e nella nostra base. Il maschilismo della società in cui viviamo, che è strettamente connesso allo sfruttamento capitalistico, allontana le donne dall’attività politica e sindacale, o perché le costringe a dedicarsi prioritariamente alla cura dei figli e degli anziani (e ciò è sempre più evidente con i tagli alle strutture pubbliche), o perché le vuole dedite ad altre attività, ritenute più adatte alle donne. E’ un maschilismo che, in questo contesto di crisi capitalistica, diventa sempre più feroce, come dimostrano le continue violenze ai danni delle donne e il drammatico aumento dei femminicidi. Le organizzazioni del movimento operaio non ne sono immuni, tanto più se non si fa un intervento specifico su questo terreno: le compagne dirigenti o attiviste, nei sindacati così come nelle organizzazioni politiche, sono sempre poche e spesso si devono scontrare con atteggiamenti maschilisti, anche nei compagni.
Anche qui abbiamo l’esempio positivo di altre sezioni della nostra internazionale, la Lit, che considera la lotta al maschilismo una delle priorità. Ho partecipato come ospite all’ultimo congresso del Pstu in Brasile, la più grande sezione della nostra internazionale, ed è stato motivo d’orgoglio vedere che, anche grazie all’esperienza di anni di lotta organizzata contro il maschilismo, la maggioranza dei delegati al congresso erano donne, così come di donne è composta la maggioranza del gruppo dirigente. Che anche in Italia possa presto essere così, nel nostro partito: non è solo un desiderio ma un obiettivo che siamo impegnate e impegnati a realizzare.