La burocrazia
Cgil costretta a proclamare
lo sciopero generale
MA IL 6
SETTEMBRE DEVE DIVENTARE
L’INIZIO DI UN
AUTUNNO BOLLENTE
Contro governo e
padronato
di Fabiana Stefanoni
Dopo aver lasciato, per un’intera
estate, alla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia il ruolo di portavoce
unico delle cosiddette “parti sociali” (espressione con cui ci si riferisce a
Confindustria e sindacati, portatori di un presunto interesse comune di padroni
e operai), dopo aver siglato il 27 giugno il putrido accordo tra le direzioni di
Cgil, Cisl, Uil e Confindustria (che abbiamo analizzato in altri articoli sul
nostro sito web), la Camusso ha infine proclamato
per il 6 settembre uno sciopero generale di otto ore.
La notizia non dovrebbe destare
stupore: in tutta Europa – dalla Spagna al Portogallo, dalla Grecia alla Francia
– da due anni si susseguono scioperi generali contro le misure adottate dai
governi borghesi (di centrodestra e centrosinistra) per scaricare la crisi sulle
spalle dei lavoratori, delle giovani generazioni, dei precari, degli immigrati.
Eppure, la proclamazione dello sciopero generale da parte della Cgil è, in
effetti, una novità: per quasi tre anni, fino allo scorso 6 maggio, la
principale confederazione sindacale italiana si è rifiutata di indire uno
sciopero generale. Ora, a distanza di tre mesi, è la volta di un nuovo sciopero
generale. In realtà, è uno sciopero che per la burocrazia Cgil rappresenta al
contempo l’ammissione di una sconfitta (l’accordo del 28 giugno si è rivelato un
boomerang per il sindacato, aprendo la strada alle manovre di Sacconi, Tremonti
e Berlusconi che hanno colto la palla al balzo per ridurre ulteriormente il
ruolo della Cgil nella contrattazione) e il tentativo di rientrare nel
gioco.
L’accordo del
28 giugno e il ruolo della burocrazia Cgil
L’accordo del 28 giugno non è, come
cercano di far credere i dirigenti della sinistra Cgil (a partire dai vertici
della Fiom Landini, Airaudo, Cremaschi), un incidente di percorso. L’immagine
della Marcegaglia, della Camusso, di Angeletti e Bonanni che si stringono le
mani come i quattro moschettieri - immagine che abbiamo pubblicato due mesi fa
sul nostro sito - condensa il senso stesso dell’agire della burocrazia Cgil: lo
scopo era e rimane quello di tornare al tavolo della concertazione, per svolgere
un ruolo prezioso per il padronato italiano, quello di becchino delle lotte. La
Marcegaglia e i settori maggioritari del padronato italiano hanno ben compreso
l’importanza del coinvolgere la burocrazia Cgil nel massacro in corso: un patto
con la più grande confederazione sindacale, in tempi di prepotente ascesa delle
lotte in tutta Europa, può garantire al padronato ancora qualche speranza di
arginare l’esplosione della mobilitazione di massa nel nostro Paese. Non ci
stupiamo, quindi, che la stessa Marcegaglia – nominata portavoce unico del patto
infame tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria – abbia pochi giorni fa chiesto
proprio di “non isolare la Cgil” e dichiari anche oggi, all’indomani
dell’indizione dello sciopero, di tenere molto a “mantenere rapporti forti,
solidi e duraturi con tutti i sindacati che hanno firmato l’accordo del 28
giugno” (si veda l’intervista del 24 agosto su la Repubblica).
Ma il
governo Berlusconi, ormai invischiato nelle proprie contraddizioni e avviato a
larghi passi verso il declino, gioca una partita a sé: la decisione di far
saltare l’accordo tra sindacati e Confindustria forzando sul contratto nazionale
dimostra che esiste uno scollamento tra la maggioranza della grande borghesia
industriale, di cui la Marcegaglia è portavoce, e alcuni settori del mondo della
finanza e delle banche, su cui Tremonti e Berlusconi oggi ripongono le loro
ultime speranze. E’, quindi, nella competizione tra settori del padronato che va
inquadrato il ruolo della burocrazia Cgil: gli accordi del 28 giugno hanno
rappresentato un patto tra sindacati e quei settori (maggioritari) della grande
borghesia che non si riconoscono più in Berlusconi e che puntano a un cambio di
governo (preferibilmente un governo tecnico per evitare le elezioni, altrimenti
un governo di centrosinistra).
Senza questa premessa, difficilmente si
comprenderebbe che differenza passi tra l’accordo del 28 giugno (che prevedeva
lo smantellamento del contratto nazionale e la limitazione del diritto di
sciopero previa l’approvazione tramite referendum truffaldini) e la proposta di
Sacconi (che prevede la stessa cosa, senza referendum). In realtà, la burocrazia
Cgil ha letto tra le righe del decreto ciò che a essa interessa: che questo
governo non ha interesse a tornare alla concertazione e preferisce forzare la
mano. Il motivo per cui la Camusso, dopo aver affondato la testa nel fango a
fine giugno, ha deciso di rialzarla chiamando i lavoratori allo sciopero
generale, può essere così efficacemente riassunto: dimostrare al governo che in
questa fase gli conviene riassumere la Cgil nel gioco concertativo.
La piattaforma
e le modalità di indizione dello sciopero
La piattaforma dello sciopero
generale Cgil è una conferma di quanto diciamo. E’ una piattaforma che ricalca,
grossomodo, la cosiddetta “contromanovra” del Pd (la cui maggioranza dirigente,
se escludiamo la componente ex-Margherita, sosterrà, non senza qualche timore di
esplosione sociale, lo sciopero). La Cgil chiede lo stralcio di alcuni punti
della manovra, ma allo stesso tempo propone una ricetta “per uscire dalla crisi”
che non mette minimamente in discussione gli interessi di fondo e i privilegi
della grande borghesia italiana. Tanto per fare qualche esempio: si accetta il
pagamento del debito come necessità ineludibile, chiedendo solo l’allungamento
di due anni della decorrenza dei vincoli di bilancio; si chiede l’emissione
immediata di Eurobond, come se questo offrisse qualche vantaggio ai
lavoratori; si rivendica il federalismo; si insiste sul ruolo fondamentale dei
fondi pensioni, definiti addirittura come una risorsa strategica (forse perché
l’apparato Cgil ha molti interessi economici nella gestione degli stessi?); si
approva il taglio alle spese dei ministeri; si chiedono maggiori incentivi
pubblici per le imprese; addirittura, si chiede un potenziamento
dell’apprendistato (cioè di contratti da fame per i giovani lavoratori) con
incentivi alle industrie che ne fanno uso. Se escludiamo qualche rivendicazione
di facciata a difesa dei cosiddetti “beni comuni” e la richiesta di una
tassazione delle “grandi ricchezze” e dei “grandi immobili”, la piattaforma
della Cgil ben poco toglie alla classe padronale.
Un discorso simile va fatto, ancora una
volta, sulle modalità di indizione dello sciopero. Come dimostrano le lotte che
stanno solcando l’Europa in questi mesi, anche uno sciopero su piattaforma
concertativa, come lo sciopero del 6 settembre, può diventare l’occasione di
un’esplosione sociale. Mai come ora, l’indizione di una grande manifestazione a
Roma avrebbe permesso di assediare i palazzi del potere borghese, mettendo in
seria difficoltà il governo. Ma non è questo che vuole la burocrazia Cgil, che
fa la voce grossa solo per reclamare un po’ di attenzioni e tornare a ricevere
morbide carezze da governo e padronato: per questo, ancora una volta, le
manifestazioni saranno territoriali, divise provincia per provincia, sempre per
non disturbare troppo.
Il sindacalismo
di base: un primo, insufficiente, passo
avanti
Le organizzazioni del sindacalismo di base (che inizialmente
si erano limitati a proclamare scioperi inutili di due ore nel pubblico impiego
e di quattro ore nei trasporti, tra l’altro in date diverse: è il caso di Usb)
hanno già deciso di indire un loro sciopero lo stesso giorno dello sciopero
generale della Camusso. Si tratta di una scelta, finalmente, in controtendenza
rispetto all’usuale propensione settaria e autoproclamatoria delle direzioni dei
sindacati di base. Fino ad oggi, ad esempio, la direzione di Usb ha sempre
rivendicato con fermezza l’impossibilità di convergere sugli scioperi Cgil e
persino, talvolta, degli altri sindacati di base, al punto da accanirsi contro
la minoranza interna (Unire le lotte – Area Classista Usb, che ha dato battaglia
contro il settarismo nella questione degli scioperi) fino ad espellere con
motivi pretestuosi la sottoscritta (coordinatrice dell’area) proprio
all’indomani dell’adesione dell’area a uno sciopero di altri sindacati.
Ma, anche in questo caso, c’è il rischio che non si riesca ad
organizzare una risposta all’altezza dell’attacco in corso: i sindacati di base
che fino ad oggi hanno proclamato lo sciopero (Usb, Cub, Slai Cobas, Si.Cobas,
Usi, Snater, ecc.) hanno deciso, a loro volta, di organizzare manifestazioni
territoriali, per di più separate da quelle della Cgil: un modo per parlare a
pochi intimi anziché intercettare le masse lavoratrici. Hanno inoltre presentato
piattaforme rivendicative che, benché siano più avanzate di quella della Cgil,
paiono essenzialmente rivolgersi contro la speculazione, la finanza e l’evasione
fiscale, non cogliendo la necessità di sferrare l’attacco al capitalismo nel suo
complesso.
Ciò che manca, sul fronte sindacale a sinistra della Camusso, è
una piattaforma transitoria, che sia basata sulla parola d’ordine dell’esproprio
(sotto controllo operaio) della grande industria. Più in generale, le cosiddette
sinistre sindacali annaspano in piattaforme riformiste in tempi in cui spazi di
riformismo non esistono più. Si propone una politica esitante, centrata su un
generico antiliberismo, sulla sola lotta alla “speculazione” e all’“evasione
fiscale”, proprio nel momento in cui non bisogna esitare, ma andare all’attacco
del capitalismo in tutte le sue espressioni: l’iniziativa che l’area di
Cremaschi in Cgil ha lanciato per inizio ottobre insieme a dirigenti di alcuni
sindacati di base e alle organizzazioni politiche riformiste e centriste
(settori di Rifondazione, Sinistra Critica, Pcl e altri piccoli gruppi
stalinisti come la Rete dei comunisti e i Carc) rappresenta il più emblematico
condensato di questa politica (come dimostra, del resto, il ruolo esercitato
anche dalla stessa area cremaschiana nel sostegno agli ammortizzatori sociali,
usati dal padronato come il principale strumento di contenimento del conflitto
sociale da quando è esplosa la crisi economica nel 2007).
Partecipare
allo sciopero generale: ma per trasformarlo in qualcosa di
diverso
Come ci hanno insegnato le
rivoluzioni arabe, in un contesto economico e sociale segnato dall’acuta crisi
del capitalismo basta una scintilla per dare il via a movimenti rivoluzionari in
grado di rovesciare persino regimi secolari. Ora il vento rivoluzionario sta
attraversando l’Europa: dalla Spagna al Portogallo, dalla Grecia
all’Inghilterra, gli eventi degli ultimi mesi dimostrano che la crisi del
sistema economico, come sempre nella storia, ridà fiato alle lotte di massa.
L’Italia è il fanalino di coda, anche grazie al fatto che il più grande
sindacato di casa nostra, la Cgil, ha finora solo finto di chiamare i lavoratori
alla lotta. Oggi, allora, è necessario aderire allo sciopero generale: ma per
farne l'inizio di una stagione di lotte di massa anche nel nostro Paese. Perché
ciò avvenga occorre trasformare quello sciopero in una mobilitazione ad oltranza
con la costruzione di comitati di lotta in ogni città e luogo di lavoro, in un
percorso che sfoci in un grande sciopero prolungato fino a piegare governo e
padronato. Per questo, Alternativa Comunista sarà in piazza il 6 settembre, con
una piattaforma anticapitalista e socialista.