Partito di Alternativa Comunista

Emergenza climatica: la Cop26 di Glasgow non ci restituirà il futuro

Emergenza climatica: la Cop26 di Glasgow non ci restituirà il futuro

 

 

 

di Giacomo Biancofiore

 

 

In Vallonia, regione meridionale del Belgio, le alluvioni hanno provocato diverse decine di morti e, probabilmente, se le notizie provenienti dalla Germania non fossero state drammatiche, avrebbe fatto particolare scalpore l’evacuazione di Liegi, cittadina di circa 200 mila abitanti. Dai Land del Nordreno Vestfalia e della Renania Palatinato è arrivato però un bilancio ben più critico: più di cento morti, migliaia di scomparsi e quasi 200 mila persone prive di corrente elettrica.

 

Vent’anni di disastri

A ottobre scorso, in occasione dell’International Day for Disaster Risk Reduction, la United Nations Office for Disaster Risk Reduction (Unddr) e il Centre for research on the epidemiology of disasters (Cred) hanno pubblicato il rapporto «The Human Cost of Disasters 2000-2019» che ha fornito dati sconcertanti: nel periodo dal 2000 al 2019 sono stati registrati 7.348 gravi eventi catastrofici che hanno causato la perdita di 1,23 milioni di vite, colpendo 4,2 miliardi di persone (molte delle quali in più di un’occasione).
Nel ventennio precedente si erano verificati circa la metà di questi eventi e la differenza può essere spiegata solo da un aumento dei disastri legati al clima, inclusi gli eventi meteorologici estremi: da 3.656 eventi legati al clima (1980-1999) a 6.681 disastri legati al clima nel periodo 2000-2019.
Particolare attenzione nel rapporto è stata attribuita al consistente aumento di incendi ed altri eventi meteorologici con forti impatti. C’è stato anche un aumento degli eventi geofisici, inclusi terremoti e tsunami, che hanno ucciso più persone di qualsiasi altro fenomeno naturale esaminato nel rapporto.

 

La situazione è precipitata

Quello che si evince dal rapporto, ma anche dalle relazioni della maggior parte degli scienziati del pianeta, è che gli ultimi decenni hanno fatto registrare un’accelerazione della distruzione della biodiversità del pianeta mai vista nei 500 anni precedenti.
Attualmente la ricerca scientifica individua in un numero tra 5 e 6 (sulla base di un nuovo studio condotto da Michael Rampino, professore presso il Dipartimento di biologia della New York University) le estinzioni di massa avvenute sulla Terra negli ultimi 500 milioni di anni. Spietato è il verdetto quasi unanime del mondo scientifico circa le conseguenze delle attività umane e del riscaldamento globale ad esse correlato di questi ultimi anni: stiamo andando incontro inesorabilmente all’ennesima estinzione della vita sulla Terra!

 

Un’estinzione diversa dalle altre

C’è una variabile che rende questa ipotetica nuova estinzione di massa diversa dalle altre: non è il risultato di un evento eccezionale, ma piuttosto la conseguenza di un processo distruttivo causato e amplificato dal modo di produzione capitalistico.
Chi scrive non può celare un fastidioso moto di rabbia di fronte ad una tale ormai acquisita ed inconfutabile affermazione, poiché le conoscenze scientifiche maturate in centinaia di anni non lasciano alcun dubbio circa il fatto che, per il suo stesso sostentamento, la vita sulla Terra è totalmente condizionata dalla biodiversità, poiché ne è parte e al tempo stesso dipendente da essa.
Nonostante il progresso scientifico e tecnologico, la precipitazione degli eventi è più repentina e inesorabile che in passato. Si pensi che nella ricca Europa solo qualche anno fa, magari in seguito ad alluvioni o tsunami in posti ai margini del mondo, si potevano ascoltare avvertimenti del tipo «è necessario intervenire e prevenire eventi estremi, prima che ci scappi il morto anche qui». Le centinaia di morti tedeschi e belgi, solo per citare gli ultimi casi, sono più che eloquenti circa gli auspici di interventi e prevenzione.

 

Le nature-based solutions

In uno dei momenti più critici della storia, con la concreta possibilità che il cambiamento climatico possa produrre una nuova estinzione, a peggiorare il panorama ci sono organizzazioni come la European Environment Agency (Eea) che, per mezzo di illustri e ben pagati studiosi, propongono soluzioni che oltre ad essere di una banalità disarmante sono oltremodo dannose per la confusione che alimentano. Secondo la Eea, per ridurre il rischio degli impatti dei cambiamenti climatici, riducendo quindi anche la perdita di biodiversità e il degrado degli ecosistemi, sarebbe sufficiente affidarsi alle nature-based solutions ossia agire «sull’adattamento, e quindi sull’aumento in resilienza». Come? Semplicemente seguendo 11 buoni esempi. Uno su tutti: «un programma per i tetti verdi che combina incentivi finanziari per installazioni volontarie con la regolamentazione per l'installazione obbligatoria di tetti verdi nei nuovi piani locali».

 

Veri e propri criminali

Ora, se il tema non fosse di straordinaria drammaticità potremmo farci anche una grassa risata, ma il seguito che hanno questi veri e propri incoscienti criminali va ben oltre ogni limite. Si pensi a quei riformisti, che pur di mostrare strade di compatibilità con il sistema capitalista, dall’alto (anzi dal basso) delle loro finte battaglie ambientaliste piccolo-borghesi, corrompono quotidianamente giovani di tutto il pianeta avanzando la soluzione degli «alberelli del sindaco» per far fronte alla madre di tutte le catastrofi!
Purtroppo per questi mediocri burocrati, di fronte all’evidenza delle conseguenze causate dall’emergenza climatica e dall’incapacità del modello economico capitalista (pena la sua stessa esistenza) di porvi rimedio, la futilità di queste soluzioni sta diventando evidente persino a coloro che si tenevano ben lontani dalla critica al capitalismo.
La totale incapacità di preservare la natura, mitigare i cambiamenti climatici, migliorare la salute e il benessere dell’umanità, ma anche i fallimenti delle politiche eco-compatibili nei settori socioeconomici come il turismo, l'energia e i trasporti stanno mostrando in modo sempre più implacabile che ci avviamo spediti verso la disintegrazione dell’intera società capitalista e che non vi sono alternative credibili alla rivoluzione socialista mondiale.

 

La sorte da cambiare

Il futuro che ci attende è ben delineato anche da chi propone improbabili soluzioni. Costoro sanno bene, e non mancano di ricordare, che il mancato raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi del 2015, in particolare l’incapacità di mantenere il riscaldamento globale sotto 1,5 gradi, comporta «eventi meteorologici estremi in aree dove ciò era raro, alternanza di alluvioni e siccità, con i danni immaginabili all’agricoltura, aggravati da malattie importate da climi più caldi cui i nostri raccolti e le nostre foreste faticano a resistere, e ovviamente moltiplicazione degli incendi boschivi; città sempre meno vivibili, soggette a periodi di caldo e freddo egualmente intensi. Stessa cosa per le nostre infrastrutture, anch’esse concepite per climi temperati e non per un’alternanza di stress da freddo e caldo estremi. Danni alla salute. Più le temperature medie aumentano, più aumentano gli estremi e gli stress su persone, l’ambiente, le strutture fisiche» come ammette candidamente Mauro Petriccione che dal marzo 2018 è a capo della direzione generale Azione per il clima della Commissione europea che svolge, tra l’altro, i negoziati internazionali sul clima per conto dell’Ue.

 

Cop26: la nata morta

Quello che Petriccione e soci non dicono è che la Cop26 di Glasgow è ben diversa da quel palcoscenico dove migliaia di delegati da tutto il mondo, tra cui capi di Stato e di governo, esperti climatici e attivisti, si riuniranno per definire l’ennesimo inutile piano d’azione coordinato per affrontare l’emergenza climatica.
La Conferenza scozzese di novembre è già morta oggi, altro che «consenso globale e iniziative di cooperazione per una giusta transizione ecologica»!
Le premesse della Cop26 sono quasi tutte racchiuse nelle consuete logiche degli Stati imperialisti che non troveranno mai un vero accordo sul mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno per sostenere i Paesi in via di sviluppo, sull’aumento della riduzione delle emissioni di gas serra, né tantomeno sull’adattamento dell’economia all’emergenza climatica o sul ruolo dei mercati del carbonio per sostenere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 stabiliti dall'Accordo di Parigi.
In definitiva, al di là delle dichiarazioni dei leader mondiali ai vari summit, la Cop26 rappresenterà l’ennesima colossale operazione di greenwashing politico in occasione della ripresa globale post-pandemia. Sebbene vi sia chi ingenuamente continua a sperare nel «lavoro» dei camerieri al servizio del sistema capitalista, sappiamo bene che la borghesia mondiale non ha né l’intenzione né la capacità di trovare soluzioni al problema del cambiamento climatico. Questo sistema, che ha nel suo Dna lo sfruttamento sfrenato e la distruzione delle risorse per l’accumulazione di capitali, non potrà che lasciare irrisolte le questioni cruciali che porteranno alla distruzione definitiva degli ecosistemi.

 

L’unica via d’uscita

Il gruppo dei Least developed countries (Ldc), l’Alliance of small Island States e l’African group of negotiators (le organizzazioni che rappresentano più della metà dei Paesi del mondo) hanno presentato un piano che definisce la loro posizione sulle questioni chiave di negoziazione alla Cop26.Qu esto piano si basa su una richiesta di accelerazione degli obiettivi di riduzione delle emissioni; l’obbligo da parte dei Paesi ricchi di rispettare la promessa di versare 100 miliardi di dollari l'anno ai Paesi poveri a titolo di finanziamenti per il clima e la conferma da parte di tutti i Paesi ricchi del rispetto delle scadenze comuni quinquennali per i loro piani climatici nazionali. Mentre i governi dei Paesi africani restano dunque in premurosa attesa, l’impatto più devastante continuano a subirlo le popolazioni più povere del pianeta: la perdita di case e di terre fertili, oltre a portare alla fame e costringere alla migrazione, favorisce lo sviluppo di epidemie e pandemie che tolgono la vita a milioni di persone. Questo aumento esponenziale delle disuguaglianze tra Paesi poveri e Paesi ricchi, tra sfruttati e sfruttatori è il risultato più evidente del fallimento del modello economico capitalista.
È a partire da questo insanabile conflitto tra capitale e lavoro che bisogna lavorare all’obiettivo improcrastinabile della rivoluzione socialista, l'unica via d'uscita per risolvere davvero i problemi della distruzione degli ecosistemi e del riscaldamento globale che rappresentano molto più che una minaccia alla vita sul pianeta.
Non importa quanto grandi siano gli ostacoli che dovremo affrontare, il nostro compito è convincere i lavoratori e la popolazione povera del pianeta che la causa rivoluzionaria è la loro stessa causa. Solo in tal modo potremo evitare che una manciata di ricchi, una minoranza assoluta nel mondo, dopo aver disposto delle nostre vite e delle risorse del pianeta conduca la Terra verso la catastrofe.

 

 

 

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