Partito di Alternativa Comunista

Partito democratico: crisi di un progetto politico

Partito democratico: crisi di un progetto politico
La borghesia perde uno dei suoi cavalli mentre la crisi avanza
 
 
di Valerio Torre
 
 
Avevamo già accennato di passata, analizzando i disastrosi risultati elettorali dell’Abruzzo prima e della Sardegna poi (1), alla crisi violenta in cui è venuto a trovarsi il Partito Democratico, già duramente attraversato dagli scandali venuti alla luce nello stesso Abruzzo, in Toscana, in Campania, a Pescara ed a Potenza. Una crisi, naturalmente, che non può essere ritenuta “elettorale”, né “morale”, ma che deve trovare una diversa chiave di lettura, come tenteremo di fare qui.
La nascita del Pd
La nascita del Pd costituisce un progetto cosciente sponsorizzato dalla grande borghesia finanziaria ed industriale italiana. Questa, dopo il crollo per via giudiziaria della c.d. “prima Repubblica”, si trovò a perseguire i propri interessi di classe in un quadro segnato da grande instabilità politica che limitava l’azione dei vari governi chiamati a succedersi. Un tale scenario non poteva, dunque, essere favorevole per l’adozione delle “riforme” (liberalizzazioni, privatizzazioni, cancellazione dello stato sociale, flessibilità dei lavoratori, depotenziamento della contrattazione collettiva) cui il capitale aspirava.
Già attraverso le riforme elettorali, con la progressiva cancellazione dei tratti di proporzionalismo presenti nel nostro sistema e l’affermazione del maggioritario, la borghesia spingeva l’Italia verso il bipolarismo. Tuttavia, l’obiettivo della stabilità e della governabilità era ancora lungi dall’essere conseguito, poiché le competizioni elettorali erano l’occasione per il coagularsi nei due campi di forze anche abbastanza eterogenee tra loro, che mantenevano nelle coalizioni un alto tasso di litigiosità.
La compiuta evoluzione in senso liberale dei Ds ha favorito il progetto borghese di semplificazione del quadro politico; e la nascita del Pd, con l’aggregazione degli eredi dei vecchi Pci e Dc, ne rappresenta lo sbocco “naturale”: due partiti eredi delle tradizioni socialdemocratica e popolare italiana potevano e dovevano confluire in un unico contenitore espressione del liberalismo democratico con solidi legami (vale a dire, solido controllo) con le grandi organizzazioni sindacali del Paese.
Il parto che ha condotto alla nascita del Pd è stato travagliato e tutt’altro che lineare: non era facile riunire i due partiti senza sbilanciarne la risultante in una direzione o nell’altra. Alla fine, l’individuazione di Walter Veltroni alla segreteria sembrò la più appropriata, trattandosi di un leader che, pur provenendo dal Pci, ha sempre proclamato la propria distanza dall’idea comunista. Un bagno di folla per l’investitura da segretario e – oplà! – il gioco era fatto.
Veltroni, dal canto suo, fedele sia alla propria personale impostazione politica, sia al compito che gli era stato affidato, ha dapprima iniziato – con il governo Prodi ancora in carica – il dialogo con Berlusconi sulla legge elettorale (2). Poi, ha iniziato a costruire la sua “creatura” in senso interclassista (3), caratterizzandola progressivamente come il partito del superamento del conflitto fra capitale e lavoro, tendenzialmente capace di rappresentarli entrambi; e, caduto il governo Prodi, con una propensione “autosufficiente” rispetto alla sedicente sinistra radicale. Era, insomma, il partito del “fare”, del “buongoverno” a partire dai territori, e dei “buoni sentimenti”: sullo sfondo di tale progetto, c’era anche il tentativo di sfondare al centro erodendo i consensi moderati a Berlusconi.
 
Il breve regno di Veltroni: dalla caduta di Prodi alle sconfitte elettorali in Abruzzo e Sardegna
La costruzione del Pd, tuttavia, avveniva nel momento peggiore: sullo sfondo cioè dalla sempre più incalzante crisi economica che flagellava soprattutto quelle fasce di proletariato e di piccola e piccolissima borghesia che avevano visto nella nascita del governo Prodi, con le sue fallaci promessi di redistribuzione, un’occasione di riscatto sociale e che, prima di essere colpite dall’onda recessiva, erano state pesantemente attaccate dai provvedimenti governativi tutti tesi a spostare ingenti risorse verso le imprese e la grande borghesia (4); in un quadro di profondo malessere sociale sempre più dominato dall’insicurezza ed in cui cominciavano ad affiorare preoccupanti sintomi di qualunquismo, giustizialismo, xenofobia e razzismo; e, per finire, sulle macerie del governo Prodi, che frattanto cadeva per una manovra di palazzo, aprendo la strada ad un Berlusconi oggi forte di un’inattaccabile maggioranza parlamentare che gli sta consentendo di portare a compimento un ridisegno complessivo della società italiana sul più generale versante dei diritti e delle libertà democratiche.
Fedele alla sua idea di partito, Veltroni ha continuato per la propria strada, modellandolo su un basso profilo, limitandosi ad esercitare un moderato “diritto di tribuna” nelle aule parlamentari e cercando in ogni momento l’occasione per imbastire la concertazione con Berlusconi; che, dal canto suo, ha giocato come il gatto con il topo, alternando momenti di disponibilità al dialogo a momenti di netta chiusura, con l’evidente intento di logorare l’evanescente Pd. D’altronde, questa cosciente condiscendenza verso la maggioranza lo ha ulteriormente indebolito, regalando nel contempo a Di Pietro un inedito spazio di opposizione giustizialista e populista che ha avuto facile presa in alcuni settori popolari, come dimostrano i risultati elettorali in Abruzzo ed in Sardegna.
E la debolezza della direzione del partito non si è manifestata solo all’esterno, bensì anche all’interno: così, i temi “etici” (il caso Englaro, l’iter parlamentare del testamento biologico) sono stati ancor di più occasione di scollamento del tessuto del Pd, che ne è stato dilaniato.
L’esito di questo percorso ha fatto emergere le ostilità mai sopite di settori del partito nei confronti della leadership Veltroni. Da un lato, D’Alema ha iniziato a sottolineare quanto occorresse inserire nel Pd “elementi di socialdemocrazia”, lanciando da subito nella corsa per la segreteria il suo delfino, Bersani; dall’altro, quasi come un riflesso condizionato, quegli esponenti che nel partito sono i diretti esponenti degli interessi del Vaticano (Rutelli e i teodem), hanno cominciato a smarcarsi facendo intendere che potrebbe esservi sullo sfondo l’ipotesi di una loro scissione.
A questo punto, a Veltroni non è rimasto altro se non rassegnare le proprie dimissioni, indicando quale proprio successore il suo vice, Franceschini, che infatti è stato eletto segretario.
 
L’interregno (?) di Franceschini e la ricostruzione del Pd
Berlusconi ha subito gongolato: “Sono abituato a fare a meno dell’opposizione. Ho già mandato a casa sette leader della sinistra, l’ottavo seguirà la stessa sorte”. Ma la grande borghesia non ha apprezzato il sarcasmo.
Il Sole 24 Ore del 20 febbraio scorso segnalava che lo strapotere della governo a fronte dell’estrema debolezza dell’opposizione potrebbe determinare uno squilibrio pericoloso, col potenziale venir meno “dello slancio riformista della stessa maggioranza” ed il possibile aumento del peso politico di Di Pietro, con una ulteriore radicalizzazione dello scontro politico. E sottolineava anche il rischio che il presidente della repubblica possa in questo contesto assumere, in funzione di riequilibrio, un ruolo più “politico” e meno di “garanzia”. Il timore attuale del padronato è l’altra faccia della aspettative che esso riponeva nella nascita del Pd: una situazione politica come quella che potrebbe profilarsi col collasso completo dei democratici non sarebbe funzionale ai suoi interessi di ottenere “riforme” negoziate fra i poli e senza eccessive effervescenze sociali.
Intanto, la segreteria Franceschini, in controtendenza con quella Veltroni, si sta caratterizzando per una vitalità finora sconosciuta al partito. Beneficiando anche della tregua concessagli dai dalemiani (che aspettano il prossimo congresso d’ottobre per puntare sul loro cavallo Bersani), il neosegretario cerca di inchiodare il governo alla crisi economica dirompente in atto, sfidandolo ad approvare provvedimenti in favore delle classi disagiate. È evidente che la strategia non è tanto quella di ottenere per la via parlamentare quelle misure (già bocciate come “demagogiche” dalla maggioranza), quanto quella di rivolgersi ai settori di elettori sfiduciati dalla precedente leadership e che hanno abbandonato in massa il Pd rifugiandosi nell’astensionismo o nelle accoglienti braccia di Di Pietro. Il tragitto da qui al congresso – ed in particolare, la tornata elettorale di giugno – dirà se Franceschini sarà stato solo un segretario a tempo oppure se, avendo anche solo in parte invertito la rotta, potrà correre per consolidare quella che oggi è stata concepita solo come una leadership tampone.
Quel che è certo è che la ricostruzione rapida del Pd rientra, per quanto finora detto, fra gli auspici dei padroni (5). Ma ad una ricostruzione in senso “socialdemocratico” pensano sia i rappresentanti di quella socialdemocrazia in sedicesimo costituita da ciò che ormai resta della frantumata galassia del Prc (6), sia (per motivi solo parzialmente diversi) i centristi di Sinistra Critica che auspicano espressamente (7) la rinascita dalle ceneri del Pd di una sinistra socialdemocratica incarnata da Bersani, che costituirebbe – nella loro prospettiva – “un passo avanti”.
Verrebbe da ricordare a tutti questi smemorati cosa abbia rappresentato Bersani nel governo Prodi, un governo da loro appoggiato sia dall’interno (con l’attuale segretario del Prc a fare il ministro), sia dall’esterno (col voto – critico, certo – di Cannavò e Turigliatto): era il punto di riferimento della grande borghesia (industriale, assicurativa e bancaria) e delle corporazioni, che furono da lui favorite con le famose “lenzuolate” a scapito dei lavoratori e della piccola e piccolissima borghesia, sospinta verso una sempre crescente proletarizzazione dai provvedimenti di spostamento di grandi risorse economiche a vantaggio del grande padronato.
Le elezioni europee e le amministrative di giugno, nel quadro della crisi del capitalismo che si fa via via più acuta, costituiranno un banco di prova per il Pd. E lo saranno anche per il governo. Il progetto bipolare della borghesia in funzione di maggiori profitti è andato in crisi insieme al sistema che lo ha disegnato. La crisi del Pd – lo dicevamo all’inizio – non è elettorale, non implica alcuna “questione morale”: è invece la spia della crisi complessiva del sistema capitalistico. Quel sistema in cui, sullo sfondo di un massacro sociale sempre più violento, crescono le lotte dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati, delle donne. Quel sistema che viene “coperto da sinistra” da chi guarda alla ricostruzione, sia pure in senso “socialdemocratico” dei democratici.
Al contrario, noi siamo convinti che stavolta non siamo in presenza di un fenomeno congiunturale: il capitalismo è squassato dalle sue stesse convulsioni.
Per questo, se guardiamo alle vicende dei due poli in Italia lo facciamo perché costituiscono la spia del sistema che esse rappresentano. E proprio per questo diciamo che è giunta l’ora di costruire quella direzione rivoluzionaria delle lotte che manca da troppo tempo. È questo il momento!
 
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(1) Sul nostro sito web sono reperibili i relativi articoli.
(2) Un dialogo – tutto fatto di ammiccamenti e di “intese cordiali” – tanto più estenuante per Veltroni, quanto più ricostituente per Berlusconi, la cui leadership stava per essere messa in discussione dagli alleati ma che, grazie a quel confronto, recuperò dando smalto e protagonismo alla sua immagine.
(3) Inserendo industriali come Calearo ed il rampollo della famiglia Colaninno, Matteo; e lavoratori o rappresentanti della c.d. “società civile”.
(4) Cioè, i “grandi elettori” di Prodi.
(5) I quali assistono angosciati alle lacerazioni dei democratici, temendo che possano aprire la strada ad un “neoproprozionalismo” (De Mita, Con il Pd addio al bipartitismo, Il Sole 24 Ore, 4/3/2009); e, proprio per questo, elogiano il nuovo corso di Franceschini (Folli, Franceschini non è un super-eroe, ma sa le regole della politica, Il Sole 24 Ore, 3/3/2009).
(6) In funzione negoziale, per ripercorrere la strada di sempre delle coalizioni, locali e nazionale, allo scopo di puntare nuovamente al governo.
(7) Cannavò, Morire di governo, anche all’opposizione,
www.sinistracritica.org.

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