Crisi del capitalismo
ALTRI NUVOLONI NERI ALL'ORIZZONTE
di Alberto Madoglio
Sembrava che, dopo lo scampato pericolo riguardo una possibile esplosione della zona Euro agli inizi di maggio, l'economia mondiale avesse intrapreso una costante, seppur lenta, strada verso la ripresa. Ma i dati degli ultimi tempi hanno, per l'ennesima volta, spento questi facili entusiasmi dei commentatori borghesi. I ministri delle Finanze dei Paesi del G8 e del G20 hanno dovuto riconoscere che "la ripresa mondiale è fragile, esposta al rischio di un cataclisma improvviso" (F. Rampini, pag. 6 di La Repubblica, 27/6/10)
L'agenzia di rating Fitch sostiene
che, se pur con un basso grado di probabilità nel medio periodo, "c'è un
maggior rischio che i Paesi europei cadano in una recessione double-dip (a doppia W, ciò che indica
che, dopo una ripresa debole, l'economia ricade rapidamente in una forte
recessione)" (V. Puledda, pag. 26, La
Repubblica, 2/7/10).
Nello stesso articolo
venivano forniti dati raggelanti: crollo del mercato immobiliare Usa, con il
dato peggiore dal 2001 (peggiore quindi di quello registrato all'apice della
recessione in corso); brusco calo della produzione manifatturiera a stelle e
strisce; discesa dell'indice manifatturiero cinese per il secondo mese
consecutivo (maggio- giugno 2010: la
Cina doveva essere la nuova locomotiva della ripresa
mondiale); minaccia di una bocciatura del debito pubblico spagnolo; maggior
calo degli investimenti in Italia (meno 12%) dalla recessione del 1993.
Non è finita qui. Secondo alcune
fonti la disoccupazione negli Usa, se venissero conteggiate quelle persone che
oramai disperano di trovare un lavoro, sarebbe del 16%; per l'Ocse, la
disoccupazione nei Paesi membri è la più alta dal dopoguerra. Dulcis in fundo, nel mercato degli strumenti
finanziari "derivati", ci sarebbero ancora in essere contratti pari a 600.000
miliardi di dollari (12 volte il PIL mondiale, e ormai tutti sappiamo che
disastri possa causare questa enorme massa di capitale speculativo), mentre i
risultati (riservati) degli "stress test"
(1) sulle banche europee, dimostrerebbero quanto la loro situazione
patrimoniale sia a rischio. Eppure...
Eppure qualche settimana fa
era sembrato che, alla fine, si fosse trovata la chiave di volta che avrebbe
sostenuto l'economia mondiale, e con essa le sorti future del sistema
capitalistico. Nella già citata riunione del G20, gli Usa erano riusciti dopo
lunghi sforzi, fatti di minacce, pressioni, e lavorio diplomatico, a convincere
la Cina ad
accettare la rivalutazione della sua moneta, lo Yuan (o renmibi). L'Impero di
Mezzo deve quindi assolvere a un compito centrale: visto che da oltre un
decennio è l'economia più dinamica del mondo, è ora che si faccia carico di
garantire la crescita mondiale: dato che gli Usa non possono più consumare come
prima, spetta ai cinesi sostituirsi ai compratori compulsivi del Nuovo Mondo.
La rivalutazione della moneta, li renderebbe d'incanto più ricchi e quindi il
cerchio verrebbe definitivamente chiuso: il mondo esporta, la Cina importa, le industrie dei
vari Paesi investono per assolvere alla nuova domanda creata all'interno della
Grande Muraglia, e tutti vissero felici e contenti.
Questo nelle fantasie, ma la
messe di dati negativi elencati all'inizio dimostra che le cose stanno
diversamente. Innanzitutto, non è detto che la rivalutazione di una moneta
trasformi d'incanto un'economia fondata sull'export in una che si sorregge sul
consumo interno.
Nel 2003 la Germania, superando gli
Usa, è diventata il maggior Paese esportatore mondiale. Quello che molti
dimenticano, o fingono di dimenticare, è che dal livello di cambio più basso
nei confronti del dollaro statunitense (nel 2001 con un euro si compravano
circa 80 centesimi di biglietto verde) si è arrivati nello scorso anno ad un
record positivo per la valuta europea di circa 1,5 dollari per un euro.
Quindi, nonostante una
perdita di competitività legata al cambio di quasi il 100%, le merci prodotte
dalle multinazionali comprese tra Reno e Oder, hanno continuato a invadere le
metropoli americane: secondo l'istituto di statistica tedesco nel 2009 gli Usa
assorbivano il 6,7% degli oltre 1300 miliardi di dollari di esportazioni
tedesche.
Le scelte macroeconomiche di
Berlino (aumento produttività del lavoro a fronte di bassi salari, rigida
disciplina di bilancio), legate a 10 anni di credito facile e finanze pubbliche
più allegre decise da Washington, hanno annullato le brusche fluttuazioni dei
cambi tra le due divise.
Possiamo immaginare che
governo e industrie cinesi che sono più di tutte le altre "export oriented",
cercherebbero di copiare quanto fatto dai tedeschi lo scorso decennio.
Ma non solo. Molte nazionali
europee, giapponesi, americane e di altre potenze economiche, producono in Cina
per poi esportare nei propri Paesi. Non è forse più probabile che un brusco apprezzamento
dello yuan (si parla del 20 o 40%), invece che favorire la ripresa mondiale,
renderebbe meno competitivi i prodotti di questi colossi industriali,
rischiando di contribuire ad un ulteriore peggioramento della congiuntura
economica? E se così non fosse, siamo sicuri che Pechino avrebbe ancora
interesse a sottoscrivere centinaia di miliardi di T Bond (2), o forse
diminuirebbe in maniera consistente il proprio investimento nel debito pubblico
americano, rendendo sempre più a rischio il bilancio di quel Paese?
E sul versante cinese cosa
potrebbe capitare? I settori meglio retribuiti del proletariato oggi hanno uno
stipendio di 200/250 dollari al mese. Capiamo bene che ci vuole altro per far
diventare l'operaio di Shangai o Canton un assiduo frequentatore di shopping
center (3), anche perché in un Paese in cui il welfare è quasi inesistente e in
cui molti lavoratori o sono contadini che abbandonano il loro piccolo
appezzamento per pochi mesi, o hanno familiari che soffrono letteralmente la
fame nei villaggi, gli aumenti del potere d'acquisto verrebbero quasi
certamente investiti in forme di risparmio.
Non dimentichiamo poi che la
produttività del lavoro nel gigante asiatico è ancora molto bassa se rapportata
a quella delle maggiori economie mondiali, e che alcune aziende (come la Foxconn, che produce per
molti marchi famosi come la
Apple) sostituiscono macchinari costosi con manodopera super
sfruttata e mal retribuita, col risultato di abbassarla ulteriormente(4). Uno
yuan più forte favorirebbe un'invasione di merci di base, più convenienti,
rischiando di far aumentare in modo esponenziale il numero di disoccupati (che
solo lo scorso anno sono aumentati di oltre 20 milioni).
Insomma da qualunque parte
la si guardi, quella che doveva essere la soluzione a tutti i problemi, la
pietra filosofale in grado di trasformare il piombo della recessione nell'oro
della ripresa, pare avere più svantaggi che pregi.
Il guaio, per i capitalisti,
è che questa è una crisi di dimensioni colossali. Qualcuno, come il premio
Nobel Krugman, comincia a esserne cosciente, tanto da indicarla tra le tre
Depressioni che il capitalismo ha vissuto nella sua storia (le altre sono:
quella ormai stranota del 1929 e quella verificatasi tra il 1870 e il1890).
Insomma, le cure fin qui
indicate assomigliano non tanto alla classica aspirina data ad un moribondo, ma
peggio ancora ricordano quei dottori di un tempo che, di fronte ad un caso
disperato, consigliavano ad amici e parenti di pregare e sperare.
Alla fine del film Il Mago di Oz, capolavoro della
Hollywood anteguerra, la Strega Buona
del Nord, dice alla piccola Dorothy che per tornare nella sua casa in Kentucky
deve battere tre volte i tacchi delle sue scarpette argentate ripetendo ogni
volta "Voglio tornare a casa".
A capitalisti e borghesi non
basterà urlare "la crisi è finita" per risovlere i loro guai.
Per loro è ancora molto
lontano il giorno in cui "da qualche parte sopra l'arcobaleno i sogni che hai
fatto diventano realtà (e) mi sveglierò quando le nuvole saranno lontane, dietro
di me"(5).
Note
1) Si tratta di simulazioni fatte per capire come reagirebbero le banche in situazioni di mercato estreme.
2) Titoli rappresentanti il debito pubblico americano.
3) In un precedente articolo riportavamo un dato interessante: in media un consumatore cinese spende un cinquantesimo del suo omologo americano.
4) Endless night in a chinese factory- D Barboza, inserto New York Times, allegato a La Repubblica, 28 giugno 2009.
5) Somewhere over the rainbow, colonna sonora del film Il mago di Oz.