Partito di Alternativa Comunista

Costruire una risposta rivoluzionaria alla crisi della Ue

Costruire una risposta rivoluzionaria
alla crisi della Ue
 
 
Anticipiamo qui la versione italiana della Risoluzione sull'Europa approvata dal XII Congresso mondiale della Lit-Quarta Internazionale, svoltosi nelle scorse settimane in Brasile con la partecipazione di delegati da una trentina di sezioni presenti in tutti i continenti. In seguito saranno pubblicate le altre risoluzioni del Congresso.
 

La crisi economica: nuove tempeste all’orizzonte
I meccanismi che hanno permesso di recuperare temporaneamente la crisi economica dei Paesi centrali dell’Ue, evitando il fallimento delle grandi banche e lo stallo dell’euro, e facilitando il recupero dei profitti dei grandi gruppi capitalisti, si esauriscono. Questi meccanismi sono stati:
1. i piani di austerità e il saccheggio della periferia, che hanno imposto un nuovo modello di sfruttamento, fino alla modifica dello status nazionale di Paesi come la Grecia, ridotta alla condizione di semi-colonia;
2. il flusso di esportazioni verso gli Usa e soprattutto la Cina;
3. la caduta dei prezzi delle commodities [merci] che ha gonfiato la bolla speculativa in cui si è imbarcata la Banca centrale europea.
I rimedi di Mario Draghi (Bce) di comprare il debito alle grandi imprese e agli Stato, offrendo carta bianca alle banche e fissando i tassi di interessi a zero o al negativo, cominciano a non funzionare: continua la stagnazione e non tornano gli investimenti. Al contrario, la sovrapproduzione si aggrava, il tasso di profitto diminuisce e il debito pubblico è aumentato. E ciò che è peggio è che rimangono senza risorse monetarie e fiscali coloro che vi hanno fatto ricorso per evitare la depressione: la politica monetaria non è più efficacie e il volume raggiunto dai debiti pubblici rende impraticabile il ricorso a nuovi indebitamenti massivi degli Stati per riscattare il capitale privato. È per questo che un settimanale portavoce del capitale finanziario internazionale come The economist dice che ci siamo addentrati in «acque sconosciute».
L’attuale congiuntura deve intendersi nel quadro della fase discendente della «curva di sviluppo» capitalista iniziata con la crisi del 2007-2008, rimanendo lontana la prospettiva di una nuova fase ascendente basata sul recupero massiccio di investimenti capitalisti. L’attuale fase discendente si caratterizza per riprese deboli e speculative e per recessioni profonde e prolungate, così come abbiamo visto in questi anni.
La situazione descritta apre un nuovo periodo in Europa, nel quale la crisi, e la conseguente offensiva del capitale contro le conquiste e i diritti della classe lavoratrice, passano, senza abbandonare la periferia, da questa verso il centro dell’imperialismo europeo. Questo è il significato profondo dell’impulso per imporre la riforma del diritto del lavoro in Francia, della fine del «modello sociale belga», dell’offensiva capitalista in Gran Bretagna e del pesante attacco contro il diritto di sciopero in Italia.

La classe operaia francese prende l’avanguardia
Il conflitto in Francia è il più importante dal referendum greco contro il memorandum della Troika. Quello che è in gioco con la legge El Khomri non è, né più né meno, che il tentativo di imporre un nuovo modello di sfruttamento alla classe operaia francese. È – come segnalava un noto ispettore del lavoro francese - «la condanna a morte del diritto del lavoro costruito in un secolo». La controriforma lavorativa disarticola l’attuale sistema delle relazioni lavorative, attaccando al cuore la contrattazione collettiva e lo stesso ruolo dei sindacati, così da finire per liquidare le 35 ore, facilitare i licenziamenti, imporre la flessibilità e tagliare il sussidio di disoccupazione. È una riforma che segue lo stesso modello impiegato in precedenza in Spagna, Portogallo e Grecia, solo che la caduta è da un livello di diritti molto superiori. È lo stesso orientamento per l’Italia.
La controriforma lavorativa francese viene imposta contro la volontà del 70% della popolazione, approfittando e utilizzando i meccanismi dello stato di eccezione che è stato rinnovato dall’attentato jihadista dello scorso 13 novembre, con un grado di repressione sconosciuto contro le mobilitazioni operaie. Il progetto di legge non è stato ancora approvato dall’Assemblea nazionale per il suo passaggio al Senato, ma per decreto del governo e così ci si aspetta che succederà di nuovo quando la legge tornerà all’Assemblea nazionale.
L’attuale mobilitazione è la maggiore dal 2010, quando il governo di Sarkozy impose la sua legge di riforma delle pensioni. Sono già quattro mesi di mobilitazioni senza che la burocrazia sindacale, in particolare quella della Cgt, sia ancora riuscita a demoralizzare il movimento. La classe operaia si è posta al centro, con le raffinerie, i portuali, i ferrovieri, i lavoratori della nettezza urbana alla testa, con i loro metodi di lotta (scioperi, in particolare gli «scioperi rinnovabili» [la cui continuazione si decide giorno per giorno], manifestazioni, picchetti, blocchi…) trascinando i giovani studenti e i giovani precari. La classe operaia ha mostrato la sua capacità di paralizzare il Paese.
Nel fuoco della lotta dei settori operai organizzati, è nato il movimento #Nuit Debout, con caratteristiche simili al 15M spagnolo o al movimento Generaçao a rasca in Portogallo. Ma #Nuit Debout, come conseguenza del protagonismo della classe operaia, con i suoi metodi e le sue organizzazioni, è rimasto molto lontano dal ruolo che questi hanno avuto nei loro Paesi.
Bisogna segnalare le gravi limitazioni che la burocrazia sindacale e le direzioni riformiste continuano a imporre alla protesta, dato che non c’è stato un movimento di scioperi a carattere nazionale nel quale abbia partecipato il grosso della classe lavoratrice francese: gli scioperi «rinnovabili» non sono compatibili con la convocazione di giornate di azione molto distanziate nel tempo e, inoltre, non sono coordinati tra di loro. La Cgt, che continua ad essere la principale centrale sindacale, sbarra la strada alla convocazione di uno sciopero generale, peggio ancora indefinito, e, ovviamente, rifiuta la mobilitazione per cacciare il governo Hollande.
È tutta una politica di logoramento, cavalcando il movimento, in attesa di tradirlo apertamente quando la legge sarà definitivamente approvata, posto che la «legalità repubblicana» non può essere messa in questione. È una politica nella quale la burocrazia della Cgt è esperta, che è già stata applicata nel 2010 con la riforma delle pensioni e nel 1968, quando fece appello per il ritorno al lavoro tradendo le rivendicazioni e facendo appello a partecipare alle elezioni anticipate che convocò De Gaulle, che nel suo libro di memorie riconosce espressamente che fu il Pcf, che era la direzione monolitica della Cgt, che allora salvò il capitalismo francese.
Ma la Cgt non è più quella che era, cominciando dai suoi iscritti, che sono scesi da tre milioni a 600.000. La sua vecchia burocrazia, onnipotente e strettamente controllata dal Pcf, entrò in crisi nel fuoco della crisi dello stesso Pcf, spinta fatalmente dal rovesciamento delle dittature dell’est Europa e la conseguente caduta dell’apparato stalinista internazionale. Oggi, la burocrazia della Cgt è incapace di chiudere il conflitto, ha gravi problemi di controllo sui settori più radicalizzati del sindacato, come i lavoratori delle raffinerie, e si trova di fronte al sorgere di organizzazioni come Solidaires, con un forte radicamento, come nel caso dei ferrovieri. Nella manifestazione più partecipata fino ad ora, quella del 14 giugno, la polizia ha bloccato il corteo di massa e la testa della manifestazione, composta dall’apparato della Cgt (e da Force ouvrière), si è ritirata, ma i portuali di El Havre, insieme con Solidaires, hanno fatto retrocedere la polizia e sono arrivati alla meta prevista, facendo diventare una vittoria quella che avrebbe potuto essere una ritirata vergognosa.
Il conflitto francese reso manifesto il ruolo dell’Unione europea, grande sponsor della riforma insieme al grande padronato francese. L’Ue dichiara che questa riforma è il minimo che deve fare il governo Hollande. Ha anche smascherato il regime della democrazia borghese, che appare come lo strumento di una minoranza che impone antidemocraticamente la sua volontà, aiutandosi con la prepotenza e la violenza istituzionale. Un altro elemento da sottolineare è il processo accelerato di «pasokizzazione» del partito socialista francese, abbandonato massicciamente dalla sua base sociale e in piena decomposizione interna, seguendo lo schema del Pasok greco. Più di 80 sedi del Psf sono stati attaccati in questi mesi e le sue sedi principali hanno dovuto essere protette dalla polizia.

Crisi inter-borghese e xenofobia al servizio della divisione della classe operaia
Il conflitto francese avviene nel quadro della maggiore crisi dell’Ue dalla fondazione del mercato comune. Uno degli elementi più importanti di questa crisi è una conseguenza dell’enorme dramma umano dei rifugiati, che può essere paragonato solamente alle deportazioni forzate della Seconda guerra mondiale. Non solo perché questa crisi ha messo i governi gli uni contro gli altri e ha infranto l’Accordo di Schengen di libera circolazione delle persone, una delle basi dell’Ue, ma ancora di più per il carattere criminale della risposta dell’imperialismo europeo a una tragedia nella quale le potenze europee hanno una responsabilità diretta. L’Ue e i suoi governi hanno violato apertamente i trattati e le leggi internazionali e pagano 6000 milioni di euro al boia Erdogan per evitare, se necessario sparando per uccidere, che i rifugiati siriani attraversino la frontiera turca e possano entrare in Europa.
La battaglia contro la condotta criminale dell’Ue e i suoi governi, espressioni della barbarie imperialista, e per la solidarietà attiva, in particolare delle organizzazioni operaie, con i milioni di rifugiati delle guerre del Medio oriente e anche dell’Africa, è uno dei grandi sforzi della Lit-ci in ognuno dei Paesi dove siamo presenti. È una battaglia spartiacque e che si associa in maniera inseparabile alla denuncia dell’Ue e alla lotta per rovesciare il regime sanguinario di al-Assad in Siria, supportato dalla Russia di Putin con la collaborazione degli Usa e delle potenze europee.

La Brexit e le sue conseguenze
La vittoria della Brexit nel referendum è il miglior riflesso della profonda crisi che vive l’Ue, che è il progetto centrale che ha costruito l’imperialismo europeo dalla fine della II guerra mondiale. Lo scontro ufficiale è stato tra due opzioni apertamente reazionarie: il «Bremain» (rimanere nell’Ue), guidato da Cameron, e la «Brexit» (uscire), guidato da Farage (Ukip) e Boris Johnson (l’ala più sciovinista e xenofoba del Partito conservatore). Cameron ha fatto campagna a favore dell’accordo che aveva raggiunto con l’Ue, secondo il quale la Gran Bretagna sarebbe rimasta nell’Ue assicurando l’autonomia della City (il grande lavabo del denaro nero del mondo e il collegamento tra il capitale finanziario degli Usa e l’Europa) e con una nuova raffica di misure contro i lavoratori e le lavoratrici immigrati avvallata dalla Commissione europea e dai governi del continente. Contava sull’aperto appoggio di Obama, della schiacciante maggioranza della City e delle multinazionali americane ed europee. Farage e Johnson difendevano l’uscita accentuando la xenofobia, diretta particolarmente contro i lavoratori dell’est e richiamandosi allo status del vecchio impero britannico che non tornerà mai.
Il referendum si è tenuto nel mezzo di una profonda crisi economica e sociale, con una disoccupazione massiccia nelle città del nord, un alto grado di precarietà lavorativa e attacchi ai servizi pubblici fondamentali, insieme ad un’accentuata decadenza di importanti settori della piccola borghesia e di settori medi della borghesia britannica che non hanno beneficiato dell’integrazione nell’Ue e, di fronte alla crisi, ripiegano su posizioni nazionaliste.
In questo quadro, la vittoria della Brexit, raccoglie do voti molto eterogenei, ha provocato un’enorme crisi nell’establishment britannico, che colpisce i suoi partiti e le sue istituzioni fondamentali, e che mette anche in bilico la permanenza della Scozia e della stessa Irlanda del nord nel Regno Unito.
La Brexit nel breve periodo darà un importante stimolo recessivo all’economia britannica e la trasferisce alla stanca economia europea. Questo problema serio è provocato da un deficit commerciale strutturale dell’economia britannica, che fino ad ora era stata compensata con capitali speculativi che arrivavano nella City e che ora, cambiando la situazione della Gran Bretagna, la abbandonano. La ragione di fondo di questo deficit commerciale non è altra che il carattere parassitario dell’economia del Regno Unito, con la City che raccoglie più del 10% del suo Pil.
Ma il grande problema della Brexit è, soprattutto, politico, perché indebolisce in maniera estrema il progetto dell’Ue, il cui abbandono ha smesso di essere un tabù, e ha posto all’ordine del giorno la necessità di referendum sulla permanenza nell’Ue. Questo enorme indebolimento si dà nel mezzo di una crescente polarizzazione sociale, in cui ampli strati della piccola borghesia e dei settori del capitale non oligopolisti e più colpiti dalla crisi si rendono protagonisti di un forte ripiegamento nazionalista in molti Paesi, in gran parte capitalizzato dall’ultradestra parlamentare, mentre la sinistra riformista e neo-riformista si allinea con il progetto imperialista dell’Ue.
Ma il rifiuto dell’Ue non è esclusivo della piccola borghesia e dei settori medi del capitale, ma colpisce pienamente crescenti settori della classe lavoratrici, nella periferia europea e sempre più nei Paesi centrali, come abbiamo visto in Francia. È per questo che la Brexit ci offre l’opportunità di dare battaglia contro l’Ue e denunciare il neo-riformismo con più forza che finora. Per questo siamo obbligati ad avere una politica per raggruppare l’avanguardia operaia e giovanile attorno alla lotta contro l’Ue e l’euro, per smascherare simultaneamente i riformisti ed impedire che il rifiuto dell’Ue sia capitalizzato dalla destra xenofoba e utilizzato a favore della divisione della classe lavoratrice.

Il neo-riformismo e l’esempio di Syriza
La profonda crisi economiche che soffre il continente sta provocando la rottura dei vecchi equilibri tra i Paesi e tra le classi sociali ed è alla base della polarizzazione che si sta diffondendo in Europa. Questa polarizzazione, finora, è stata capitalizzata elettoralmente da direzioni piccolo-borghesi o direttamente borghesi, come l’ultradestra parlamentare più xenofoba e sciovinista. Questo ultimo è il caso di Francia, Germania, Gran Bretagna, Austria, di vari Paesi dell’est e dei Paesi nordici. Quanto alle nuove direzioni piccolo-borghesi, abbiamo movimenti come quello di Grillo in Italia e, in un’altra ubicazione politica, i partiti neo-riformisti Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, il Bloco d’Esquerda in Portogallo e il Ptb in Belgio.
Questo neo-riformismo, capitalizzando la crisi della vecchia socialdemocrazia imborghesita e dello stalinismo, ha come missione istituzionalizzare e neutralizzare la mobilitazione operaia e delle masse popolari e, quando fosse necessario, sostituire i partiti socialisti come perno di governi di collaborazione di classe incaricati di imporre i piani di attacco richiesti dall’Ue.
Il caso di Syriza è spettacolare per l’estrema rapidità e per la virulenza del cambiamento che ha avuto dopo il tradimento aperto del popolo greco quando questo ha rifiutato il memorandum della Troika facendo fronte a immense pressioni e minacce. In pochi mesi Siryza, il grande modello del neo-riformismo europeo, è passato dall’apparire come il portabandiera dell’opposizione alla Troika e nemico giurato dei vecchi partiti all’essere il sicario greco dei piani di rapina della Troika e l’esecutore della politica criminale dell’Ue contro i rifugiati, invitato permanente alle riunioni della cupola dei partiti socialdemocratici europei, socio e amico di Israele.
L’esempio di Syriza riflette il fatto che, a differenza della vecchia socialdemocrazia del secondo dopoguerra, il nuovo riformismo ora non ha nessun Welfare State da amministrare, ma esattamente il contrario: può solamente prendersi la corresponsabilità della politica che pone fine a tutte le vecchie conquiste. Syriza ha capitalizzato il malcontento profondo della classe lavoratrice delle masse povere greche, ed ora sono già tre gli scioperi generali portati avanti contro il suo governo.
Al di là di come evolverà nel futuro, vale la pena segnalare la batosta elettorale sofferta da Podemos nelle ultime elezioni generali spagnole, con la perdita di più di un milione di voti, particolarmente concentrata nei quartieri popolari e nelle città operaie. Questo colpo, prima di aver assunto responsabilità nel governo del Paese, è tipico di un partito che è, prima di tutto, un apparato elettorale senza radici organiche nella classe operaia e nei settori popolari, che ha conosciuto uno spettacolare spostamento a destra in meno di due anni e che si propone per assumere il ruolo di propone per assumere il ruolo di «nuova socialdemocrazia» nel quadro dello stretto rispetto dell’Ue.

La riorganizzazione della classe operaia dal basso e la nostra costruzione
In questo momento è centrale per le organizzazioni della Lit – il cui obiettivo è costruire partiti rivoluzionari radicati nella nostra classe – inserirci nel processo di riorganizzazione che, nel mezzo di un cambio generazionale, si sta producendo nelle profondità della classe operaia europea e che risiede nel movimento di resistenza all’offensiva del capitale e nell’avanzato processo di degenerazione delle vecchie burocrazie sindacali, che accentuano la sua intima relazione con lo Stato e i padroni.
La recente costituzione, con il nostro contributo, del «Fronte di lotta No Austerity» in Italia, che raggruppa i settori più combattivi del movimento operaio del Paese, è – senza dimenticare che si trova in una fase iniziale – una delle dimostrazioni più avanzate del processo in corso, che si esprime anche nello sviluppo dei Cobas in Spagna o negli avanzamenti nel coordinamento di settori come i portuali, del telemarketing e dell’aeroporto di Lisbona in Portogallo. Siamo nel mezzo di un processo di riorganizzazione dove stanno giocando un ruolo importante organizzazioni di tendenza anarcosindacalista, ognuna con le sue caratteristiche nazionali, come la Cgt spagnola o Sud Solidaires in Francia. Un aspetto da far notare, che riflette le diseguaglianze e la complessità del processo di riorganizzazione, sono i casi di rapida degenerazione dei sindacati «alternativi» che, sebbene rompano con le vecchie burocrazie sindacali, non rompono con i loro vecchi metodi burocratici. Da qui l’importanza capitale della lotta per la democrazia operaia nel seno delle nuove organizzazioni sindacali e nelle loro relazioni con i lavoratori.
Appoggiandosi sui punti più avanzati di questo processo di riorganizzazione del movimento operaio europeo e internazionale, è necessario intervenire nei processi di lotta su scala europea.
La nostra costruzione in Europa dipende dai nostri progressi nel terreno della riorganizzazione del movimento operaio e del nostro inserimento nella gioventù operaia, in primo luogo nelle fabbriche, ma anche nei quartieri. Senza dimenticare il lavoro nel movimento studentesco come elemento ausiliario.
Tutta la tattica elettorale dipende ed è subordinata al nostro lavoro per inserirci nel processo di riorganizzazione della classe operaia e si basa sulla difesa del programma rivoluzionario e nella costruzione del partito su questa base, confrontandoci coi programmi ed i partiti riformisti. Dobbiamo essere coscienti dei limiti del lavoro elettorale dei nostri partiti durante un periodo prolungato, dato che lottiamo con forze scarse di fronte ad apparati giganteschi, di fronte a legislazioni sempre più antidemocratiche, e a campagne elettorali apertamente «americanizzate», con enormi spese elettorali e trasformate in uno show mediatico.
I nostri partiti non potranno costruirsi senza mantenere un profilo di opposizione aperta ai governi di collaborazione di classe egemonizzati dal neo-riformismo o appoggiati da questo, come in Portogallo, dove siamo l’unico partito di sinistra che si oppone al governo di collaborazione di classe. Non potremo costruirci senza una chiara e profonda delimitazione politica, programmatica ed ideologica con il neo-riformismo e la sua strategia di «radicalizzazione della democrazia» e «rifondazione» dell’Ue.
La lotta per distruggere l’Ue come strumento centrale dell’imperialismo europeo e per la costruzione di una nuova Europa, quella dei lavoratori e delle masse popolari, è fondamentale per i nostri partiti. L’Ue è al centro dell’offensiva contro i lavoratori e le masse popolari d’Europa ed è il grande scudo su cui si appoggiano tutti i governi per la loro offensiva antioperaia e antipopolare. Questa lotta senza quartiere deve tenere in conto l’ubicazione di ogni Paese nella gerarchia dell’Ue, dato che non è lo stesso vivere in una semi-colonia come la Grecia (dove la politica ha come centro l’uscita dall’euro e dall’Ue) o essere parte della Germania, il Paese che domina l’Ue, o del Belgio, che compone il centro imperialista europeo, dove il centro è farla finita con i trattati imperialisti sui quali si basa l’Ue. In un Paese imperialista di terza fila, come la Spagna, la politica di rottura con l’euro e l’Ue ha piena valenza.
La Lit e i suoi partiti in Europa devono avere un profilo chiaro e riconoscibile: di lotta frontale contro l’Ue e per un’Europa dei lavoratori e delle masse popolari; di partiti impegnati nel processo di riorganizzazione della nostra classe, che cercano di identificarsi con la gioventù operaia e che pongano in primo piano la bandiera della democrazia operaia; profondamente internazionalisti nelle parole e nei fatti, nella solidarietà attiva con le lotte dei lavoratori e come i più risoluti combattenti per la solidarietà con i rifugiati di fronte alla politica criminale dell’Ue, contro il razzismo e la xenofobia che si estendono come una piaga per il continente. Come avanguardia nella lotta contro le oppressioni nazionali, di razza e di genere.
 
(traduzione dallo spagnolo di Matteo Bavassano)
 

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