Partito di Alternativa Comunista

Crisi in Medio Oriente: che cosa sta realmente accadendo

Crisi in Medio Oriente:

che cosa sta realmente accadendo

 

 

 

di Salvo de Lorenzo

 

 

 

A una decina di anni dalla primavera araba, una nuova importante stagione di lotte è ripartita in Medio Oriente. Abbiamo già descritto le cause che hanno prodotto le ascese rivoluzionarie in Iraq e in Libano dell’ottobre scorso. Qui riprendiamo l’analisi di alcuni recenti importanti avvenimenti accaduti in Medio Oriente.
Anche se la notizia non ha avuto il necessario rilievo sui mezzi di informazione borghesi, in novembre una sollevazione popolare in Iran contro i rincari del carburante è stata duramente repressa nel sangue dal regime repressivo iraniano. Agli inizi di gennaio, poi, l’omicidio del generale della guardia rivoluzionaria Soleimani, numero due del regime iraniano, da parte delle forze armate americane ha approfondito la tensione politica e militare tra l’imperialismo Usa e gli Stati borghesi del Medio Oriente, in una fase in cui la crisi economica mondiale risveglia i proletari di tutti i principali Paesi del Medio Oriente.

La crisi economica iraniana
L’Iran è una delle principali potenze economiche del Medio Oriente, grazie alle sue enormi riserve di petrolio. Da Paese capitalista caratterizzato da un controllo molto forte dello Stato sull’economia (le industrie statali partecipavano alla produzione di circa l’80% del Pil) l’Iran si è trasformato, negli ultimi dieci anni, in un Paese liberista, attraverso la privatizzazione di molte industrie e servizi, riducendo la partecipazione statale al 50% del Pil. Lo Stato iraniano è una dittatura borghese teocratica, grazie al potere di veto, relativamente alla partecipazione delle organizzazioni politiche alla vita parlamentare, da parte del Consiglio dei guardiani della rivoluzione, costituito da 12 religiosi islamici, al cui vertice vi è la guida suprema, l’ayatollah Khamenei.
Le recenti difficoltà economiche dell’Iran, uno dei principali produttori di petrolio al mondo, sono state indotte, principalmente, dal cambio di politica estera dell’amministrazione Trump rispetto a quella del precedente presidente Obama. Durante la presidenza Obama, l’amministrazione americana aveva infatti sviluppato una politica che mirava ad inglobare progressivamente l’Iran tra le potenze «amiche» dell’imperialismo. La strategia di Obama era basata su un progetto di stabilizzazione dell’area medio-orientale che includeva l’Iran, a partire dal riconoscimento dell’enorme influenza del clero sciita iraniano sulla borghesia sciita dei principali Paesi medio-orientali, dalla borghesia governativa irachena alle milizie di Hezbollah in Libano, dalle milizie di Hamas in Palestina sino alla borghesia sciita pro-Assad in Siria. E che teneva conto anche degli ottimi rapporti commerciali intessuti dall’Iran di Khamenei sia con la Cina che con la Russia.
Nel 2018 Trump decise però di rompere con gli accordi di Vienna del 2015, firmati dai ministri degli Esteri di Teheran, Pechino, Parigi, Berlino, Mosca, Londra e Washington, che regolavano la produzione di energia nucleare in Iran. Trump accusò l’Iran di essere una potenza nemica degli Usa, che starebbe lavorando alla realizzazione di armi nucleari, per imporre il suo ruolo di potenza egemone sul Medio Oriente. Dopo la rottura dei patti di Vienna, Trump impose delle sanzioni economiche all’Iran e ai Paesi che commerciano con esso, azzoppando in tal modo le esportazioni di greggio dall’Iran verso gli altri Paesi.
Per effetto delle sanzioni economiche imposte da Trump, lo Stato iraniano ha subito imponenti perdite economiche: la vendita del greggio, sua principale fonte di ricchezza, ha subito un vero e proprio tracollo, passando da 2.5 milioni di barili al giorno nel 2018 agli attuali 0.5 milioni di barili al giorno. Il governo iraniano ha scaricato sui lavoratori le difficoltà economiche derivanti dai minori introiti, riducendo drasticamente i sussidi sui carburanti. Questa misura, che ha condotto a un aumento del 50% circa del costo del carburante, ha prodotto un’autentica sollevazione popolare. Il 17 novembre, in oltre cento città iraniane, le masse sono insorte contro il regime e hanno bloccato la circolazione stradale spegnendo i motori delle automobili sulle strade e, in taluni casi, hanno assaltato i distributori di benzina. La repressione del regime è stata efferata, a quanto racconta la stessa Amnesty International: i cecchini, in alcuni casi appostati sui tetti delle abitazioni, hanno ammazzato circa 1500 persone; 7000 manifestanti sono stati arrestati. È probabilmente la più grande repressione subita dal popolo iraniano da quando, nel 1979, si è costituita l’attuale repubblica iraniana.
Questi episodi hanno avuto una diffusione mediatica minore solo per il rigido controllo dell’informazione e per il blocco dei social network da parte del regime iraniano nei giorni degli scontri.
L’episodio del novembre scorso non è comunque isolato. Tutto il 2018 è stato attraversato da proteste e scioperi dei lavoratori contro le misure economiche del regime iraniano. Ad esempio, nel settore agro-industriale di Haft-Tappeh, nel sud-ovest dell’Iran, vi furono sei scioperi, nel solo 2018, con la nascita di organizzazioni consiliari operaie che rivendicavano la fine della privatizzazione e il controllo operaio della produzione. La risposta del regime fu durissima: diverse decine di operai vennero arrestate e i principali attivisti furono sottoposti a torture, come denunciato da Amnesty International. Sempre nel 2018 gli insegnanti scioperarono contro le privatizzazioni, in difesa dell’istruzione pubblica e per chiedere il rilascio di insegnanti precedentemente arrestati. Anche in quel caso, il regime represse con le armi e gli arresti gli attivisti delle lotte.

L’omicidio di Soleimani
Agli inizi di gennaio, mediante l’uso di droni, le forze militari americane hanno ammazzato, in terra irachena, il generale Soleimani, il principale dirigente della guardia rivoluzionaria, uomo di punta del regime iraniano. Nell’attentato sono stati ammazzati anche Abu Mahdi al-Muhandis, leader di una delle principali milizie sciite irachene allineate con l'Iran, e altri sei uomini.
Trump ha successivamente rivendicato l’omicidio del generale iraniano affermando che Soleimani stava preparando diversi attentati contro degli obiettivi Usa, ma è stato immediatamente sbugiardato dal segretario americano alla Difesa, che ha affermato di non essere al corrente di nessun attentato in preparazione, da parte degli iraniani, contro obiettivi americani. Più che una scelta strategica dell’amministrazione americana, l’omicidio di Soleimani sembra dunque una decisione presa autonomamente del presidente americano, la cui tracotanza è ampliata dalle difficoltà interne, con una richiesta di impeachment che pone seriamente a rischio la sua rielezione alle prossime elezioni presidenziali.
L’omicidio di Soleimani ha avuto, come primo effetto immediato, il ricompattamento di tutta la borghesia sciita, non solo iraniana ma di tutti i Paesi del Medio Oriente, contro l’arroganza dell’imperialismo americano. Il 5 gennaio il parlamento iracheno ha approvato una mozione per l’espulsione delle truppe americane dal suo territorio.
La rappresaglia iraniana in risposta all’omicidio del generale Soleimani è stata però assolutamente inefficace, con un bombardamento su due basi militari americane in Iraq che non ha prodotto nemmeno un ferito. È apparsa evidente, dalla debolezza della risposta, la volontà dell’Iran di non indispettire un avversario che ha un potenziale bellico enormemente superiore e che non ha in realtà, al momento, alcuna intenzione di condurre una nuova guerra in Medio Oriente, dopo il disastro della guerra in Iraq. Peraltro il regime iraniano, come abbiamo visto, non gode del sostegno delle masse e un suo coinvolgimento in una guerra potrebbe favorire una insurrezione popolare contro l’attuale regime repressivo teocratico.

La ripresa delle mobilitazioni in Iran
Mentre tutto il Medio Oriente, durante i funerali di Soleimani, si stringeva attorno all’Iran per il vile attentato americano, la guardia rivoluzionaria iraniana si è resa però responsabile di un’azione ancor più vile, lanciando due missili su un aereo civile ucraino in partenza dall’aeroporto di Teheran, ammazzando 176 civili. Non appena il premier Rohani ha appurato e condannato le responsabilità nell’attentato di alcuni esponenti della guardia rivoluzionaria, diverse mobilitazioni di protesta si sono scatenate in tutto il Paese, con gli studenti alla testa delle mobilitazioni.

Dall’11 gennaio e per quattro giorni, gli studenti e i lavoratori iraniani hanno quindi ripreso le proteste contro il regime teocratico ed esposto i loro striscioni con le scritte: “Fuori gli Usa! A morte gli Ayatollah!”. Le forze di polizia sono anche in tal caso intervenute lanciando gas lacrimogeni per disperdere la folla ed arrestare molti manifestanti. Le masse iraniane chiedono la fine del regime teocratico e la soluzione dei problemi economici.

In Iraq e in Libano
Negli stessi giorni in cui in Iran riprendevano le proteste contro il regime degli ayatollah, in Iraq, dove la reazione del governo agli episodi insurrezionali di ottobre aveva prodotto diverse centinaia di morti, i partiti della borghesia sciita hanno tentato di riconquistare la direzione dei manifestanti, utilizzando la rabbia delle masse causata dall’aggressione americana. In particolare Al Sadr, leader dell’organizzazione sciita che ha la maggioranza relativa in parlamento, ha lanciato il 25 gennaio una manifestazione contro gli Usa, sperando così di porsi alla testa dei manifestanti di piazza Tahrir e di uscire indenne dalle proteste del proletariato iracheno. Ma i manifestanti iracheni sono attualmente su posizioni di rottura con tutte le principali forze di governo, inclusa quella di Al Sadr, e chiedono la fine del regime settario e la soluzione dei problemi economici che hanno fatto schizzare l’inflazione e prodotto carovita e disoccupazione di massa. Oltre a chiedere l’uscita dal Paese degli invasori americani, il proletariato iracheno rivendica la fine di ogni ingerenza delle forze filo-iraniane. Il tentativo di Al Sadr di egemonizzare la protesta delle masse irachene è andato a vuoto anche e soprattutto perché i manifestanti ritengono i suoi parlamentari corresponsabili della repressione contro le proteste dell’ottobre scorso.

E, sempre negli stessi giorni, le masse libanesi, con alla testa gli studenti, hanno ripreso a protestare contro il regime settario del loro Paese. In Libano la drammatica situazione economica è persino peggiorata, a causa di una ulteriore impennata nell’inflazione e di una svalutazione della moneta libica, che ha prodotto la crisi di liquidità e la limitazione dei conti correnti da parte di diversi istituti bancari. La risposta delle masse non si è fatta attendere: intorno alla metà di gennaio diversi istituti bancari sono stati presi d’assalto dai manifestanti, che hanno protestato anche contro i disservizi nella fornitura di beni essenziali come l’elettricità.
Mentre in Iraq, tramite Al Sadr, un settore di borghesia sciita che finge di mantenere un’indipendenza dall’Iran, ha tentato un riavvicinamento, peraltro fallito, con le masse in protesta, in Libano la borghesia filo-iraniana, che ha il suo riferimento organizzativo nelle milizie di Hezbollah, è apertamente in rottura con i manifestanti. Durante alcuni comizi pubblici, i dirigenti di Hezbollah hanno minacciato di reprimere nel sangue la rivoluzione libanese e accusato i manifestanti di essere dei controrivoluzionari sobillati dalle potenze straniere. La risposta ironica degli studenti non si è fatta attendere, con la vendita, nelle piazze occupate, di panini confezionati con le bandierine delle potenze straniere che, secondo Hezbollah, finanzierebbero i manifestanti. Inoltre, durante le manifestazioni il popolo libanese ha sventolato poster con le immagini degli scioperi cileni delle pentole (cacerolazos). Questo ultimo episodio è molto importante, perché dimostra che si sta sviluppando uno straordinario clima di solidarietà tra i proletari di tutti i Paesi contro i governi del capitalismo finanziario mondiale.

Erdogan e il petrolio libico
Mentre l’Iran è alle prese con problemi interni rilevanti, il presidente turco Erdogan sembra invece fare apparente sfoggio di velleità bonapartiste, sviluppando mire egemoniche sul Mediterraneo e inviando truppe turche a sostenere la fazione di Serraj nello scontro libico. Una mossa che ha spiazzato le potenze imperialistiche europee, Francia ed Italia in primis, che in Libia hanno enormi interessi petroliferi, collegati all’attività della francese Total e dell’italiana Eni. Lo scenario attuale vede dunque la Russia sostenere militarmente la frazione cirenaica di Haftar e la Turchia quella tripolitana di Serraj.
In realtà, al di là della foggia da sultano ottomano che tenta di indossare, Erdogan ha rilevanti problemi di economia interna che lo spingono a fare delle mosse che potrebbero ridisegnare l’intero sistema di rapporti e di alleanze tra le potenze imperialiste. Sino a quando l’economia turca ha viaggiato ad alti tassi di crescita, con la Turchia che ha fornito manodopera alle grandi aziende mondiali in virtù dei bassi salari della classe operaia turca, la dipendenza della Turchia dal petrolio non ha costituito un grosso problema per il capitalismo turco. Come noto, la Turchia preleva oltre l’80% del greggio dal Kurdistan iracheno, a dimostrazione tra l’altro della correità morale con Erdogan della borghesia curda nell’eccidio dei curdi del Rojava. Ma la crisi economica ha cominciato a battere alla porta anche della Turchia, a partire dal 2018, quando il tasso di crescita del Pil, che aveva superato il 7% nel 2017, è calato al 2.8 %. Nell’ultimo semestre del 2018 la Turchia è entrata in recessione, e la lira turca si è svalutata del 30% rispetto al dollaro. Ciò ha causato un aumento dell’inflazione, a partire dal 2018, che è ancora in costante crescita. A differenza però di altri Paesi, la Turchia possiede un imponente apparato militare (è il secondo esercito della Nato, dopo quello americano) ed Erdogan ha assoluta necessità, nel quadro della crisi economica, di uno sbocco nel Mediterraneo, proprio per risolvere il problema della dipendenza dal petrolio.
È anche interessante osservare la profonda instabilità nei rapporti tra le grandi potenze. Sino ad ora, ad esempio, i rapporti tra Putin ed Erdogan erano apparsi molto solidi. Tanto è vero che, nel campo della distribuzione dell’energia all’Europa e al Medio-Oriente, Russia e Turchia avevano di recente cooperato alla realizzazione di una imponente struttura, il gasdotto Turkstream, che diventerà la principale via di rifornimento del gas verso l’Europa. Alcune scaramucce diplomatiche sulla questione libica tra la diplomazia russa e quella turca non sembrano però inficiare, almeno al momento, i rapporti economici tra le due potenze.
La scelta della Russia e della Turchia di inviare truppe in Libia indica in modo chiaro la volontà di Putin e di Erdogan di giocare un ruolo di primo piano nel controllo delle risorse energetiche nel Mediterraneo. Una volontà che non è passata per un confronto con l’Ue, ma attraverso l’invio diretto delle truppe nel territorio libico. Ed è anche questo un segnale di approfondimento delle tensioni tra le potenze capitalistiche mondiali. Dopo una lunga fase di scontro pacifico tra gli imperialismi, l’aggravarsi della crisi economica mondiale produce dunque un innalzamento delle tensioni e un rilancio dell’attività bellica delle grandi potenze.
Dopo essere stata spiazzata dalla mossa di Erdogan, l’Ue ha provato a rientrare nel novero degli imperialismi egemoni nel Nord-Africa convocando la conferenza di Berlino, nella quale è emerso peraltro l’accordo esistente tra Erdogan e Serraj per le trivellazioni nel Mediterraneo. L’Ue non può avanzare una posizione dura nei confronti di Erdogan in quanto essa stessa non può avere una politica unica sulla Libia, se due suoi Paesi membri come Italia e Francia si contendono in quell’area il controllo delle risorse. In tal senso il vergognoso rinnovo dell’accordo firmato il 2 novembre del 2019 dal governo italiano con quello libico sul finanziamento dei lager per la detenzione e la tortura dei migranti, indica chiaramente quanti interessi abbia l’Italia in Libia, se il governo italiano è disposto a finanziare i crimini contro l’umanità (definiti «inimmaginabili orrori» dall’Onu nel 2018) che compie il governo libico.
La linea lungo la quale sembra si stia muovendo l’Ue è quella di una ricomposizione dello scontro tra Serraj e Haftar e la realizzazione di un governo unico attraverso la cooptazione di Haftar nel governo di Serraj, attualmente riconosciuto da gran parte della comunità internazionale. È tuttavia evidente che nessuna delle soluzioni concertate tra gli imperialismi potrà venire incontro alle esigenze del proletariato libico ed africano in generale. Solo la sollevazione dei proletari europei, latino-americani e medio-orientali contro i rispettivi governi borghesi nazionali e contro l’imperialismo potrà lenire le sofferenze del proletariato africano, sottoposto a un genocidio che, purtroppo, non sembra avere fine.

 

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