Partito di Alternativa Comunista

Egitto: la rivoluzione continua

Egitto: la rivoluzione continua

 

di Claudio Mastrogiulio

La rivoluzione egiziana ha mostrato, nel corso dei mesi successivi alla caduta del pluridecennale regime di Mubarak, come le masse nordafricane dell'intera regione siano in grado di mettere in discussione, radicalmente, un intero sistema politico.

Quello che è accaduto successivamente alla destituzione di Mubarak è il chiaro segnale dell'incredibile vitalità delle masse arabe, ed egiziane in modo particolare, oltre che della necessità, per gli sviluppi che ha avuto la vicenda, di una direzione politica autenticamente alternativa e rivoluzionaria.

 

Il post-Mubarak

Il governo di Mubarak contava, così come quello dei Fratelli Musulmani, su un elemento portante indispensabile, vale a dire l'appoggio dell'esercito. Infatti, in maniera del tutto opportunistica, l'esercito, dopo le prime giornate di mobilitazione che scossero il dominio del “faraone”, assunse la scelta di defilarsi dalla feroce repressione scatenata dall'ormai decadente governo di Mubarak.

Decisione opportunista, dicevamo, perché, al di là della vulgata generale che ravvisava l'esercito come solidale con le istanze popolari, l'unica intenzione che gli alti vertici militari avevano in animo di assumere era quella di stabilizzare la situazione politica, in maniera tale da tranquillizzare l'imperialismo statunitense ed israeliano, in primo luogo.

Un ruolo determinante in questo processo di stabilizzazione di una situazione potenzialmente rivoluzionaria lo ha giocato l'organizzazione dei Fratelli Musulmani.

Un'organizzazione borghese, fortemente anticomunista, di matrice islamista e integralista, che nel corso dei decenni del dominio di Mubarak è riuscita a penetrare in importanti fette della società egiziana, arrivando a gestire politicamente settori di sindacati afferenti, in particolare, le professioni liberali.

L'accordo tra militari e Fratelli Musulmani, che ha rappresentato la base su cui si è instaurato il governo Morsi, è rimasto vigente fino allo scorso giugno; quando il governo in carica, vistosi travolto da imponenti sollevazioni popolari, si è trovato nelle condizioni di dover passare la mano.

 

La lettura del complotto

A fronte della caduta di Morsi, buona parte della sinistra italiana ed europea, ha ravvisato, mostrando una cecità ed un'ottusità politica senza pari, gli estremi per una manovra complottarda ai danni dello stesso deposto presidente, da parte dell'esercito.

Appare necessario, sin d'ora, precisare che una lettura di questo tipo è quantomeno semplicistica, se si pensa a tutto quanto accaduto in Egitto nel corso di questi ultimi mesi.

Ma poniamo che si possa prendere in considerazione l'ipotesi del complotto. In tal caso, sembra piuttosto ardito affermare che ben 17 milioni di egiziani (tanti sono stati i manifestanti scesi in piazza nel corso di quelle settimane) si rendessero complici di un piano ordito dalle alte sfere dell'esercito. Ancora, storicamente è possibile parlare di complotto quando una forza esterna ad un governo opera, più o meno clandestinamente, per destabilizzare il quadro politico ed approfittarne per assumere le redini del potere.

In Egitto è avvenuto tutto il contrario.

Anzitutto, l'esercito era parte integrante di quel governo che nel corso della sua reggenza ha finito per affamare ulteriormente le masse popolari egiziane. Durante il governo Morsi, infatti, il tasso ufficiale di disoccupazione è salito al 12,4 %, con un'ulteriore imponente fetta di lavoratori inoccupati; la situazione alimentare della maggioranza delle masse è rappresentabile in termini quantomeno critici, se non addirittura disperati; ed a fronte di queste condizioni, Morsi si sottoponeva ai diktat del Fmi (Fondo Monetario Internazionale) a fronte di un prestito di 4,8 miliardi di dollari, promettendo lo sfacelo di quello che rappresenta lo stato sociale ed il complesso dei diritti acquisiti dei lavoratori egiziani nel corso delle lotte degli anni passati.

 

Il ruolo dell'esercito in questa fase

Dunque, ad una prima e superficiale lettura, sembrerebbe che a cacciare Morsi sia stato il suo ex alleato, nonché efficace braccio armato nella repressione delle mobilitazioni, vale a dire l'esercito.

Tuttavia, dinanzi ad un'analisi più approfondita e, soprattutto, tenendo sempre in dovuto conto i rapporti di forza tra le classi sociali in campo, possiamo dire che a cacciare Morsi non sono state le manovre ordite nell'ombra dai vertici militari; ma la straordinaria e prorompente irruzione delle masse popolari, con le sollevazioni antigovernative che si sono susseguite negli ultimi tempi.

Questo, dunque, il vero rapporto causa-effetto: dove la causa della caduta del governo è stata l'esplosione di rabbia sociale di milioni di lavoratori e giovani, che si sono visti traditi e svenduti dall'ennesima direzione opportunista e controrivoluzionaria; mentre l'assunzione del governo da parte dell'esercito è solamente l'effetto, certamente significativo, di questo aspetto principale. Ciò, come accade in ogni fase rivoluzionaria in cui non si determina il radicamento di un'organizzazione conseguente, ha portato all'affermazione di una compagine, come quella guidata da Al Sisi, palesemente opportunista, che intraprenderà la medesima criminale politica percorsa da Mubarak prima e Morsi poi.

 

La necessità di un'organizzazione classista e rivoluzionaria

Come abbiamo provato a sottolineare in precedenza, la questione centrale che consentirà di affermare o meno che le masse egiziane saranno uscite vincitrici da questo scontro con le compagini governative borghesi che sistematicamente ne tradiscono gli interessi, è quella dell'organizzazione rivoluzionaria.

Un'organizzazione che faccia proprio un programma di rivendicazioni antimperialiste e di indipendenza nazionale e che ponga all'ordine del giorno l'obiettivo di uno sciopero generale e prolungato che porti alla caduta non soltanto del vertice politico del momento contingente, ma all'abbattimento del sistema economico e sociale che lo ha partorito, vale a dire il capitalismo.

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