Partito di Alternativa Comunista

La situazione politica dopo le elezioni e la battaglia dei comunisti

La situazione politica dopo le elezioni
e la battaglia dei comunisti
Risoluzione politica del Consiglio Nazionale del Pdac
(9-10 marzo 2013)
 
 
Il quadro economico: persistenza e aggravamento della crisi
La crisi economica del continente europeo continua e si aggrava. Eurostat comunica che il Pil dell’Eurozona è sceso dello 0,9% su base annua, quello dell’Italia crolla del 2,7% (e le previsioni della Banca d’Italia sono per un ulteriore calo dell’1% nel 2013), mentre perfino quello della “virtuosa” Germania cala dello 0,6% nell’ultimo trimestre del 2012. In particolare, i dati macroeconomici italiani sono catastrofici: l’indice Pmi indica una fase di forte recessione; Bankitalia segnala che due famiglie su tre hanno un reddito insufficiente; Federauto definisce “disastroso” il calo del 17,58% delle immatricolazioni di veicoli nel solo mese di gennaio scorso; Confcommercio avverte che i consumi precipitano ai livelli del 2004 e diminuiscono pesantemente anche nei settori dell’alimentazione, bevande, abbigliamento e calzature.
Intanto, sul versante del mercato del lavoro, l’Istat calcola che il tasso di disoccupazione del 2012 si è attestato al 10,6%, che il 2013 lo vedrà crescere fino all’11,4% e che nel 2014 dovrebbe toccare quota 12%. Attualmente, la disoccupazione giovanile raggiunge l’impressionante tasso del 37,1%. Come se non bastasse, il numero di ore di cassa integrazione nel gennaio 2013 è aumentato, rispetto al corrispondente mese dell’anno precedente, del 61,6%, con 21 milioni di ore richieste per interventi straordinari (+ 97%).
 
Le elezioni di febbraio e le attese della borghesia
In questo devastante quadro, certamente aggravato dall’azione del governo Monti con le sue politiche di rigore e tagli, si sono svolte le elezioni politiche italiane che avrebbero dovuto porre fine all’anomalia di un esecutivo “tecnico” e riconsegnare alla “politica” la gestione del Paese: gli stessi poteri forti europei – che pur avevano non solo sponsorizzato, ma addirittura imposto Monti alla guida dell’Italia – caldeggiavano una simile occorrenza per far fronte al vistoso calo di fiducia popolare nel governo uscente e al venir meno della maggioranza parlamentare per la scelta del Pdl di Berlusconi di defilarsi da essa. E “designata” a governare il Paese era, persino nelle previsioni dei sondaggisti, la coalizione di centrosinistra Bersani-Vendola, cioè quel misto di liberalismo progressista e riformismo moderato che, alleandosi per il dopo elezioni con il “grande centro” diretto da Monti e supportato da Montezemolo, e utilizzando il controllo sociale attraverso le burocrazie sindacali della Cgil e della Fiom, avrebbe dovuto garantire alle cancellerie europee e alla Troika la governabilità necessaria per continuare e approfondire le politiche del precedente esecutivo tese a contrastare la violenta crisi economica (e la progressiva caduta del saggio di profitto), contemporaneamente imponendo ai lavoratori italiani una sconfitta epocale soprattutto sul terreno dei diritti conquistati con le lotte degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso.
 
La crisi politico-istituzionale del dopo-voto
Gli “auspici” dei poteri forti sono stati disattesi. Il risultato delle elezioni ci ha consegnato un quadro politico che, al momento, si presenta bloccato e ha precipitato i partiti borghesi di centrodestra e di centrosinistra in una crisi politico istituzionale che non ha precedenti e che non sembra avere una soluzione semplice.
Rimandando per ogni utile approfondimento agli articoli di analisi del voto pubblicati sul nostro sito e sul giornale Progetto Comunista, possiamo qui sintetizzare l’esito della tornata elettorale come segue.
 
L’esito delle elezioni per il centrodestra e il centrosinistra
Va innanzitutto registrato il forte recupero, rispetto ai sondaggi e al comune sentire, da parte del Pdl. Silvio Berlusconi ha scommesso sul ritiro della fiducia al governo Monti, puntando tutto su un’operazione di maquillage che potesse far dimenticare agli elettori le responsabilità del suo partito nell’appoggio a un esecutivo ritenuto colpevole dell’impoverimento generalizzato delle masse popolari. Con una spregiudicata campagna elettorale, pur perdendo quasi il 50% del bacino dei consensi ottenuti nel 2008, è riuscito, stringendo a sé il proprio blocco sociale di riferimento, a contenere la vittoria della coalizione di centrosinistra, perdendo alla fine per soli 124.000 voti.
L’alleanza elettorale Bersani-Vendola ha ottenuto un risultato molto al di sotto delle aspettative: il Pd avendo perso ben tre milioni e mezzo di voti rispetto alle passate elezioni e Sel ottenendo un consenso parecchio al di sotto di quanto le veniva accreditato solo pochi mesi fa nei sondaggi. Molto ha contato, per entrambi i partiti, l’intenzione più volte esplicitata di stringere, a urne chiuse, un accordo di governo con la lista Monti che, nelle previsioni, avrebbe consentito di avere una maggioranza solida in entrambi i rami del parlamento. Ma, nel caso di Sel, la scelta di costruirsi come ala sinistra del Pd, il totale abbandono di ogni critica all’alleato per il suo appoggio al governo uscente e infine la partecipazione alle primarie, hanno determinato un pesante appannamento della figura pubblica di Nichi Vendola, facendo crescere la disillusione dei militanti di un partito, tutto sommato, puramente mediatico, quantunque con importanti legami nell’apparato burocratico della Fiom. Alla fine, solo il robusto premio di maggioranza alla coalizione ha consentito alla scalpitante microburocrazia di Sel di rientrare in parlamento pur con un modesto risultato in termini percentuali.
Il progetto di costruire intorno al premier uscente, Mario Monti, una lista che rivendicasse le politiche di austerità della Troika, per riproporle dopo le elezioni, magari con qualche pennellata di equità, in un accordo di governo con la coalizione di centrosinistra data per vincente, è sostanzialmente fallito. L’elettorato ha sonoramente punito tutta l’azione del governo Monti e le misure di violenti tagli allo stato sociale approvate nei quattordici mesi precedenti. Montezemolo e il settore di borghesia industriale che a lui si riferisce non hanno portato nessun valore aggiunto alla lista, che anzi ha cannibalizzato l’Udc di Casini riducendola ai limiti della sparizione, mentre la piccola organizzazione di Fini, Fli, è stata completamente espulsa dal panorama elettorale e politico. In questo senso, il voto alla lista Monti – così come il crollo dei voti del centrodestra (Pdl e Lega Nord) e del centrosinistra (Pd e Sel) – rappresenta una pesante bocciatura delle politiche di aggiustamento di bilancio suggerite e imposte dalle cancellerie europee.
 
La sconfitta epocale della socialdemocrazia di Rifondazione
Le socialdemocrazie e i partiti riformisti di sinistra escono ulteriormente ridimensionate dal voto. A parte quanto già detto proposito di Sel, il risultato elettorale della lista che si è coagulata intorno al magistrato antimafia Ingroia, Rivoluzione civile, rappresenta una sconfitta epocale soprattutto per Rifondazione comunista, che aveva puntato tutto su quest’esperienza – al punto di rinunciare persino al proprio simbolo – allo scopo di rientrare in parlamento dopo una “astinenza” quinquennale e godere così almeno delle briciole delle prebende istituzionali in passato ottenute per tentare di far fronte a una profonda crisi finanziaria, oltre che politica e di militanza.
Il programma con cui la lista Rivoluzione civile si è presentata alle elezioni era un programma riformista, con una forte impronta legalitaria e trasudante giustizialismo reazionario, tutto interno ai limiti di compatibilità dell’ordine borghese. Per di più, il candidato premier ha ripetutamente fatto trasparire che l’obiettivo reale della lista era, appunto, quello di giungere a un accordo subalterno con il Pd, ventilando un sostegno più o meno critico all’ipotetico governo a guida Bersani. Ma l’elettorato di sinistra ha compreso la portata di questo velleitario tentativo, pesantemente sanzionandolo col voto e sancendo così il fallimento senza appello dell’esperimento: fallimento che si è riproposto anche nelle coeve elezioni regionali in Lombardia, Lazio e Molise, sia laddove era presente la lista Rivoluzione civile (Lazio), sia laddove Rifondazione si presentava – sempre senza simbolo – in altre liste (Lombardia e Molise)
Le dimissioni della segreteria del Prc, lungi dal rappresentare la volontà di un serio bilancio di tutto il corso della vita del partito (e non solo della fallimentare esperienza della lista Ingroia), paiono costituire solo un passaggio obbligato per riproporre, attraverso il lavacro congressuale, il disastroso iter già percorso, tant’è che il gruppo dirigente uscente ipotizza un rilancio dell’aggregazione elettorale con la stessa Rifondazione come “motore” dell’operazione.
Si apre ora un periodo denso di incognite per il Prc, in cui tutte le ipotesi sono aperte, ma che certamente approfondirà ulteriormente la crisi di militanza già in atto.
 
Il Movimento 5 Stelle e la situazione di stallo politico-istituzionale
Il “vincitore” di queste elezioni è, indubbiamente, il M5S di Grillo, che, succhiando voti a destra e a manca e pescando persino nelle pieghe dell’astensionismo, si impone sulla scena politica con un peso parlamentare che ha scompaginato i piani dei partiti della borghesia.
Rinviando anche qui all’analisi più approfondita che ne facciamo sul sito e sul giornale, possiamo sinteticamente dire si tratta di un partito in cui si sono riconosciuti disoccupati, precari, esodati, piccolissima borghesia proletarizzata, famiglie strangolate dai mutui e pensionati che vivono ben oltre la soglia di povertà: questa classe subalterna composita – cui si sono sommati settori di borghesia imprenditoriale, piccola e media, allettata dalla possibilità di eventuali sgravi fiscali – cercava un’alternativa alle politiche di austerità e tagli allo stato sociale e l’ha trovata in una proposta politica interclassista, ambigua e ammiccante persino verso settori dell’estrema destra, che costituisce una mistura di liberismo, feticismo tecnologico, odio verso la “casta”, meritocrazia, temi sociali (No-Tav, No-F35, acqua pubblica, ecc.), rifiuto delle politiche monetarie declinato in chiave nazionalista, proposta di scioglimento delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio. A questi soggetti, stanchi di una politica di Palazzo sempre più lontana dai loro bisogni, si è rivolta una forza che è apparsa ai più come “anti-sistema”, pur senza realmente esserlo, non essendo basata su un programma di contrasto – nemmeno parziale – della proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio.
Quel che è certo è che il risultato elettorale ha determinato una situazione di stallo in cui i margini di manovra sembrano essere estremamente ridotti. Allo stato, nessuna delle coalizioni ha in parlamento i numeri per governare e appaiono ostaggio dei grillini: qualsiasi ipotesi messa in campo si scontra con un contesto del tutto bloccato su cui il M5S può speculare attendisticamente. Intanto, però, le cancellerie europee reclamano comunque un governo per continuare a far passare in Italia le politiche antioperaie e antipopolari necessarie a scaricare gli effetti della crisi sui lavoratori. La crisi politico-istituzionale italiana sembra in grado di aggravare quella europea.
 
Le organizzazioni centriste
Le organizzazioni a sinistra del Prc, che noi definiamo “centriste” giacché oscillanti tra posizioni rivoluzionarie a parole e riformiste nella pratica (Pcl e Sinistra critica), appaiono anch’esse in crisi.
Il partito di Ferrando ha, com’è nel suo Dna, puntato tutta la propria azione politica sulle elezioni come surrogato della costruzione. Ma, ancora una volta, il progetto di strutturare un partito che si definisce rivoluzionario come un’organizzazione fondata sull’immagine e sulla presenza mediatica non ha pagato nemmeno sul terreno meramente elettorale: il Pcl ha conseguito un risultato elettorale molto al di sotto di quello del 2008 (quasi la metà dei voti in meno). Tale esito si inserisce in una situazione di crisi del Pcl, dovuta anzitutto al suo isolamento internazionale: il Pcl, infatti, non fa parte di alcuna organizzazione internazionale, limitandosi a intrattenere relazioni “di amicizia” con il Po di Argentina e un piccolo gruppo in Grecia, senza che esistano né strutture di coordinamento internazionale, né un programma comune. Questo isolamento ha contribuito all’ulteriore degenerazione di questo partito, a partire dall’assenza di una strutturazione centralizzata e di un tesseramento militante: l’iscrizione al Pcl non comporta né condivisione di programma, né obblighi di militanza e di finanziamento del partito. Il risultato è un partito che non distingue tra militanti e simpatizzanti e, nonostante la fraseologia rivoluzionaria del leader Ferrando, raggruppa al proprio interno le più disparate posizioni, dal riformismo allo stalinismo al castro-chavismo, ecc. Tra l’altro, si stanno verificando in queste settimane numerose fuoriuscite di militanti, dalla Sicilia (dove i compagni che hanno rotto col Pcl stanno oggi costruendo il Pdac) alla Calabria. È la conferma ulteriore del fallimento di un progetto di costruzione di un partito elettoralista e d’immagine.
Sinistra critica ha, in un primo momento, tentato – fedele alla sua linea movimentista – di ritagliarsi un ruolo nel raggruppamento intorno all’esperienza denominata “Cambiare si può”. Tuttavia, quando quel raggruppamento è precipitato nella lista Ingroia, diventando appannaggio delle velleità parlamentari di Ferrero, Diliberto e Di Pietro, se ne è tirata fuori, decidendo di non partecipare oltre al progetto elettorale. Ma proprio perché dichiaratamente non intende costruirsi come un partito rivoluzionario, Sc non aveva sviluppato un’analisi di classe di quanto si stava mettendo insieme intorno a Ingroia e ha dovuto attendere l’evolversi degli eventi per prendere quella decisione: un’attitudine, questa, che si inscrive nella crisi del progetto internazionale e nazionale di Sc, consistente nel voler raggruppare “rivoluzionari e riformisti onesti” per poter sollevare le bandiere – così dichiarano i suoi dirigenti – di un “vero riformismo”.
Non si tratta, però, di una crisi senza conseguenze. La divaricazione che il recente congresso di Sc aveva iniziato a mostrare si esprime ora dichiaratamente. A partire dall’analisi del voto, si scontrano ora pubblicamente le due frazioni che convivono in quell’organizzazione: da una parte quella – uscita di poco maggioritaria dal congresso – che, dichiarando morto il movimento operaio con le sue organizzazioni, tradizioni e simboli, vede nei “movimenti” l’unica possibilità di cambiare il sistema. La logica, quantunque implicita, conseguenza di questo ragionamento è la presa d’atto dell’esaurirsi del ruolo di Sc e, sullo sfondo, una sua possibile liquidazione; dall’altra, quella che non ne considera ancora conclusa la funzione e la ritiene tuttora il fulcro, anche organizzativo, per costruire “una nuova sinistra anticapitalista … basata sull’azione dei movimenti”.
Ciò che unisce quelle che sono ormai due frazioni pubbliche, dunque, è la pervicace volontà di non dedicarsi a costruire un partito rivoluzionario e il messianico affidamento allo spontaneismo delle lotte e dei movimenti; ciò che le divide è il ruolo e la funzione di Sc. La decisione degli organismi dirigenti è di farle convivere nazionalmente come due “separati in casa” e di lasciare ampia libertà di indirizzo politico e di attività a livello locale, in un’apoteosi di federalismo.
Quanto questa situazione di forzata e difficile convivenza possa durare senza produrre più devastanti crisi non è al momento dato sapere; come pure appare problematico per ora ipotizzare la portata di una simile decisione sul quadro degli attivisti.
 
Il Pdac, le elezioni, le lotte, la costruzione del partito
Il Partito di Alternativa Comunista non si stancherà mai di spiegare qual è il senso per i rivoluzionari della presentazione elettorale. La nostra presenza a queste elezioni – parziale e simbolica – aveva lo scopo di ribadirlo: lo stesso slogan che abbiamo utilizzato per questa campagna elettorale – “Nelle urne vinceranno i padroni, nelle lotte vinceremo noi!” – sviluppava in un solo concetto tutto il significato di una battaglia che i comunisti devono condurre nelle piazze, nelle strade e nei luoghi di lavoro e di studio, pienamente inseriti con la loro autonomia nelle lotte che sorgono e si sviluppano, cercando di coordinarle e farle crescere, contemporaneamente facendo maturare nella classe lavoratrice la coscienza che il suo destino è nelle sue stesse mani; usando proprio lo spazio elettorale come tribuna rivoluzionaria per presentare alle masse un programma rivoluzionario.
La stessa candidatura a premier di Adriano Lotito, ventenne dirigente del nostro partito e protagonista delle lotte di quel settore studentesco che è stato finora l’avanguardia dello scontro con il capitalismo, esemplificava il senso che noi attribuiamo alle elezioni borghesi.
Proprio per questo non celebriamo – a differenza di altri – il nostro piccolo risultato in termini di voti, poiché lo investiamo invece nella costruzione reale del partito delle lotte e della rivoluzione: l’avere infatti sviluppato la campagna elettorale non nei salotti televisivi ma (di fatto, unici a sinistra) nelle piazze e davanti alle fabbriche, ci ha consentito di far conoscere il nostro partito e il suo programma rivoluzionario a un numero crescente di lavoratori e giovani, guadagnando alcune nuove e significative adesioni militanti. Rivendichiamo, invece, come prodotto della nostra costante attività politica, risultati come quello del lavoro con gli immigrati in lotta, così come la nostra partecipazione convinta, insieme a molte altre realtà di lotta e a decine di attivisti, alla costruzione del Coordinamento No Austerity che, pur essendo ancora un progetto embrionale, rappresenta già oggi un primo importantissimo tentativo di unificare alcune tra le più importanti e radicali lotte e mobilitazioni di vari territori.
 
Una piattaforma unificante per sviluppare le lotte. Una prospettiva per i lavoratori
Quella del coordinamento e dell’unificazione delle lotte costituisce l’unica strada affinché esse crescano e si sviluppino, guadagnando forza per combattere – e, in prospettiva, sconfiggere – la borghesia. Non a caso, le classi dominanti cercano di dividere quelle sfruttate con ogni mezzo, soprattutto utilizzando le burocrazie sindacali e politiche.
Tuttavia, pur se non hanno ancora guadagnato la forza d’urto che stanno dimostrando in altri Paesi (Grecia, Spagna, Portogallo), in Italia le mobilitazioni stanno pian piano sviluppandosi e le previsioni – e i timori – dei padroni sono che questo processo può ulteriormente crescere e sfuggire al controllo di quelle burocrazie che hanno finora garantito un rilevante tasso di calma sociale. Non a caso, proprio le scorse settimane i servizi segreti hanno inviato al parlamento una relazione in cui si evidenzia la preoccupazione di un “innalzamento delle tensioni sociali”, la paura che un “incremento delle difficoltà occupazionali e delle situazioni di crisi aziendale potrebbe minare progressivamente la fiducia dei lavoratori nelle rappresentanze sindacali, alimentare la spontaneità rivendicativa ed innalzare la tensione sociale, offrendo nuove opportunità ai gruppi dell’antagonismo per intercettare il dissenso e incanalarlo verso ambiti di elevata conflittualità”.
Dal canto nostro, sia come partito, sia – internazionalmente – come sezione della Lega Internazionale dei Lavoratori Quarta Internazionale, porteremo avanti una piattaforma per l’unificazione delle lotte in essere e quelle che, inevitabilmente, continueranno a prodursi con l’aggravarsi della crisi. Una piattaforma che riteniamo debba fondarsi sui seguenti punti.
Il ritiro di tutte le “riforme” pensionistiche sinora approvate e il diritto alla pensione dopo 35 anni di lavoro e col calcolo dell’assegno col metodo retributivo; il ripristino dell’art. 18 e la sua estensione a tutti i lavoratori; la scala mobile dei salari e delle ore lavorative, per lavorare meno, lavorare tutti; l’abolizione di tutte le leggi precarizzanti, a partire dalla legge Treu fino alla controriforma Fornero, e l’assunzione a tempo indeterminato di tutti i lavoratori precari; un salario garantito per i disoccupati; il diritto ad una scuola e ad un’università pubblica, gratuita e di qualità, con la totale cancellazione di ogni finanziamento a scuole ed università private e l’istituzione di un reddito studentesco; il diritto ad una sanità pubblica universale e gratuita; il ritiro di tutte le leggi razziste e xenofobe, per l’unità della lotta di lavoratori nativi ed immigrati; il ritiro delle truppe da tutti i fronti di guerra e la fine di ogni missione militare all’estero; l’occupazione delle fabbriche che chiudono e licenziano; l’abolizione del segreto commerciale e l’apertura dei libri contabili delle imprese; l’espropriazione senza indennizzo e sotto controllo dei lavoratori delle grandi industrie e delle banche; l’apertura dei libri contabili delle banche e dello Stato borghese e la creazione di un’unica banca pubblica al servizio dei lavoratori; il rifiuto del pagamento del debito; la rottura con l’Unione europea e l’euro nella prospettiva degli Stati Uniti Socialisti d’Europa.
Si tratta, è evidente, di una soluzione operaia alla crisi. E significa – lo rivendichiamo apertamente – porre la questione del potere per la classe operaia: unico modo perché la crisi la paghi chi l’ha creata e non chi la subisce. Unico modo perché governino realmente i lavoratori.

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