Partito di Alternativa Comunista

Critica dell'Autonomia

Critica dell'Autonomia
Perché i centri sociali
non sono una alternativa ai partiti riformisti
 

 
 
 
di Adriano Lotito (*)
 
 
 
autonomia
“La crisi storica dell’umanità si riduce alla crisi della direzione proletaria.”
Lev Trotsky, Programma di transizione

Abbiamo scritto e ripetiamo spesso che uno degli elementi più evidenti del panorama politico in Italia è la crisi dei partiti riformisti, governisti. In particolare Rifondazione Comunista che fino a qualche anno fa riusciva a chiamare piazze di decine di migliaia di manifestanti e contava su un peso elettorale non da poco, negli ultimi anni ha conosciuto un progressivo calo che si è accelerato considerevolmente negli ultimi mesi (dopo la sconfitta dell’ennesima coalizione-pastiche a guida Ingroia) e che ha portato anche ad uno scontro interno molto aspro esplicitatosi nel recente congresso (sul tema rimandiamo per un'analisi più puntuale a questo articolo sul nostro sito www.alternativacomunista.it/content/view/1931/1/).
Al contempo, nessuna altra forza politica della sinistra sembra avere una forte presa attrattiva sulle masse e in particolare sulle giovani generazioni capace di riempire il vuoto che si è creato a sinistra. Beninteso, questo quadro è un prodotto in primo luogo del disastro provocato dalla politica di collaborazione di classe coscientemente praticata per anni dai dirigenti di Rifondazione comunista. Le stesse divisioni e scissioni continue che disgregano la sinistra cosiddetta radicale non sono la causa della crisi che questo partito vive, ma ne sono il prodotto. La causa è da ricercare nelle politiche antioperaie avallate e praticate per anni duranti i governi di centrosinistra: precarizzazione del lavoro, spedizioni militari, leggi razziste; mentre Rifondazione disponeva di ministri e (con l’ultimo governo Prodi) anche di un presidente della Camera.
L’opportunismo governista esercitato negli anni scorsi e l’incapacità durante una crisi economica gravissima, come l'attuale, di ottenere riforme o persino minime concessioni per la classe lavoratrice hanno prodotto la crisi devastante delle forze riformiste. Tutti quei movimenti che negli anni passati avevano Rifondazione come punto di riferimento si sono ritrovati così privi di una direzione politica in un momento in cui non c’è nessun partito rivoluzionario in grado di riempire questo vuoto. Questa situazione favorisce l’emergere in seno ai movimenti di tendenze spontaneistiche e anti-partitiche (riflesso comprensibile, per quanto sbagliato, del tradimento operato dai partiti riformisti). E’ quello che abbiamo visto in occasione del 19 ottobre 2013, giornata di mobilitazione dei movimenti per la casa e il reddito e a difesa dell’ambiente: certo, una piazza partecipata, con migliaia di manifestanti (anche se non i 40mila che alcuni declamano) ma che esprime chiaramente le dinamiche innescate dalla crisi del riformismo all’interno delle avanguardie di lotta specialmente giovanili.
In occasione di quella giornata un settore importante del movimento era riconducibile a quell'insieme di comitati e collettivi che si identifica, in parte o in tutto, nella variegata ed eterogenea area dell'Autonomia, che a sua volta esprime istanze e riprende, almeno in parte, modi e pratiche di lotta dalla tradizione storica dell’Autonomia Operaia, forza politica nata nel 1973 che raggiunse il suo punto di massimo sviluppo con la mobilitazione del 1977 (il "Settantasette"). Il successivo sviluppo e disgregarsi di questa esperienza ha portato a diverse riformulazioni del concetto e delle forme dell’Autonomia. Vogliamo qui enucleare i principali elementi politici che ci portano a definire l’Autonomia, nelle sue diverse e successive rimodulazioni, come forza piccolo-borghese, non rivoluzionaria, incapace di offrire prospettive alternative alle masse popolari e impotente di fronte alla controffensiva del capitale e alle politiche di smantellamento dei diritti dei lavoratori. Lo facciamo con l'intenzione di aprire un confronto coi tanti giovani che vedono nei centri sociali un punto di riferimento: giovani con cui siamo spesso fianco a fianco nelle lotte. Da marxisti, crediamo che la polemica politica, quando condotta senza insulti e nel rispetto dell'interlocutore, sia uno strumento per far crescere le lotte, per offrire loro una prospettiva rivoluzionaria di rovesciamento del sistema capitalistico. Quella prospettiva rivoluzionaria che l'Autonomia a nostro giudizio non è in grado di dare.
Prima di tutto cerchiamo di ricostruire le origini storiche del fenomeno, il contesto nel quale l’Autonomia nacque e si sviluppò, e che possiede interessanti analogie con la situazione presente.
 
Alcuni cenni storici: il riflusso, la crisi del riformismo, il Settantasette
L’area dell’Autonomia nasce nel 1973 e si sviluppa in uno specifico quadro della lotta di classe in Italia: si assisteva ad una fase di riflusso congiunturale delle mobilitazioni operaie, a una inversione di tendenza rispetto al ciclo di lotta apertosi a fine anni Sessanta; in questo quadro la classe borghese si apprestava a una controffensiva (e a una progressiva erosione delle conquiste delle lotte degli anni passati) e in questa guerra sociale un ruolo di primo piano nel fronte padronale lo assunse il Pci, che era riuscito a catalizzare la rabbia operaia del Sessantanove e a trasformarla in un incremento del proprio consenso elettorale (dato che si manifesterà nelle elezioni del 1976, in cui il partito di origine stalinista, progressivamente socialdemocratizzato, ottenne il suo miglior risultato di sempre, distanziandosi di poco dalla Dc). A sinistra del Pci, enorme bubbone riformista e tappo del conflitto sociale, c’erano le forze centriste dell'estrema sinistra: i gruppi extraparlamentari (Avanguardia Operaia, Lotta Continua, Pdup-Manifesto) che confluiranno nel cartello di Democrazia Proletaria e che proprio a metà degli anni Settanta videro un calo di consensi e di radicamento e un rapido esaurirsi; ciò a causa della loro incapacità di proporre un programma realmente rivoluzionario alternativo a quello del Pci, alla mancanza di parole d’ordine transitorie (in grado cioè di far crescere la coscienza socialista dei lavoratori) e alla profonda degenerazione elettoralista che infine attraversarono. Per questo motivo sussumiamo questi gruppi sotto la categoria del “centrismo”: per indicare appunto la caratteristica fondamentale della loro politica, cioè l’oscillazione tra posizioni rivoluzionarie e posizioni riformiste, in genere rivoluzionarie a parole e riformiste nella pratica.
La delusione di molti militanti rispetto a dei partiti verso i quali avevano dato tutto e nei quali avevano riposto eccessiva fiducia produsse nelle avanguardie una notevole disillusione verso le prospettive di una rivoluzione e verso la cosiddetta "forma-partito" e, in generale, verso quella tradizione “leninista” in cui identificavano quelle organizzazioni centriste che, in realtà, di leninista non avevano né il programma né l'organizzazione (essendo tra l'altro spesso fortemente antidemocratiche nella loro vita interna).
Ma soprattutto nella retroguardia della classe, fatta di figure sociali marginali e di categorie operaie poco rappresentate, ci fu la diffusione di un forte sentimento anti-partitico e spesso anti-politico, accompagnato però da un’altrettanto forte rabbia sociale che aspettava solo l’occasione per poter esplodere. Il nemico maggiore per queste frange era proprio il Pci, a giusto avviso reo del "compromesso storico" e della totale subalternità alla classe borghese per la quale svolgeva anche la funzione ausiliaria di braccio repressivo contro lotte e movimenti. Ma con il Pci, e con i gruppi centristi della sinistra radicale percepiti ugualmente come burocratici e staccati dalla massa, veniva confusa anche la tradizione autentica del marxismo e la necessità di costruire il partito rivoluzionario. Il risultato di questo generico antipartitismo fu l’Autonomia, ovvero la nuova riproposizione di una cosa vecchia: la (non) prospettiva dello "spontaneismo". L’occasione perché quella rabbia latente venisse a galla non tardò ad arrivare: alla fine del 1976 il governo monocolore Andreotti, che si reggeva sulla "non-sfiducia" del Pci, varò la riforma Malfatti della scuola che cancellava in quell'ambito parte delle conquiste delle lotte del Sessantotto. Nelle università prese avvio un movimento di contestazione radicale che aveva come scopo il ritiro della riforma ma anche la richiesta di maggiori spazi di autogestione: all’interno della mobilitazione non solo studenti e studentesse, ma anche altre categorie sociali, precari, lavoratori non-garantiti; occupazioni e manifestazioni si succedettero in tutto il Paese all’inizio del 1977 e in particolare a febbraio e marzo il clima divenne rovente con l’inasprirsi della repressione poliziesca e dello scontro frontale.
Il movimento evidenziò non solo il punto di massimo sviluppo e radicamento dell’Autonomia ma anche la dimostrazione più palese della sua inefficienza nel coordinare e unificare le lotte, la conferma di un minimalismo politico incapace di conferire una visione unitaria e coerente del conflitto e di proporre alternative concrete all’esistente. Gli autonomi favorirono infatti, paradossalmente, processi di spoliticizzazione delle masse e di loro estraneazione rispetto agli organismi propri della classe (sindacati e partiti) i quali effetti emergeranno in tutto il loro disastroso portato negli anni Ottanta. Non solo: a dispetto della loro parola d’ordine sulla “ricomposizione della classe”, gli autonomi innescarono dinamiche di profonda e logorante frammentazione e disgregazione del fronte di classe e la sostituzione di una prospettiva collettiva di trasformazione generale con pratiche minimali e individualistiche. Tutto questo, collegato anche al ripudio di ogni criterio organizzativo atto a garantire democrazia ed elaborazione collettiva all’interno del movimento.
Il sigillo dell’incapacità dell’Autonomia di dirigere il movimento del Settantasette si ebbe con il Convegno sulla repressione (24, 25 e 26 settembre) tenutosi a Bologna e che vide la partecipazione di migliaia di giovani provenienti da tutta Italia: da quelle giornate si uscì senza una sola parola d’ordine in grado di far avanzare la lotta, con nessuna sintesi politica e programmatica rivoluzionaria, con nessuna metodologia unitaria che potesse consolidare il movimento ed evitare il riflusso; la modalità di "dialogo" imposta dagli autonomi portò all’esclusione di diversi gruppi e tendenze in disaccordo con questi e allo scontro a volte fisico tra diverse fazioni; l’assenza di logiche democratiche impedì il rientro di queste fratture interne e l’affermazione di un’idea di scontro fine a sé stesso portò un settore di quel movimento direttamente nell’arena del terrorismo individuale; l’insieme di questi fattori produsse a sua volta l’isolamento progressivo del movimento e l’efficacia della manovra repressiva dello Stato che portò allo scioglimento dell’Autonomia nel 1979 con l’accusa di "terrorismo". Negli anni Ottanta gli eredi dell’Autonomia si ritrovarono nel Coordinamento nazionale antinucleare e antimperialista e in numerosi collettivi autonomi sparsi nel Paese. Sempre in quegli anni a Milano collettivi autonomi nascono intorno alla casa occupata di via dei Transiti 28, al centro sociale Leonkavallo e al periodico Autonomen, mentre a Padova il centro di documentazione antinucleare antimperialista fa riferimento a Radio Sherwood (che diventerà in seguito punto di riferimento delle Tute bianche prima e dei Disobbedienti poi) e a Roma continua l'esperienza della sede storica di Via dei Volsci e di Radio Onda Rossa.
 
L’Autonomia oggi
Se negli anni Novanta la maggioranza dei gruppi di derivazione autonoma ruotava attorno alla cosiddetta "Autonomia padovana", cioè l'area dei Disobbedienti di Casarini, il crollo di Rifondazione (che era la sponda istituzionale di questa area) ha avuto negli ultimi anni come conseguenza l'emergere di nuovi gruppi, più vicini all'Autonomia vecchio stampo.
L'Autonomia dei Disobbedienti, forte del richiamo agli ultimi scritti di Toni Negri (Impero e Moltitudini), negli anni Novanta portava avanti una politica di collaborazione con le amministrazioni di centrosinistra, fornendo sostegno ai partiti socialdemocratici (Verdi e Rifondazione in primis). Nelle liste di Rifondazione e dei Verdi non pochi esponenti disobbedienti furono candidati ed eletti, sia nelle amministrazioni locali che in parlamento (pensiamo a Farina del centro sociale Leonkavallo, consigliere a Milano; o a Caruso, eletto parlamentare nelle liste di Rifondazione). La politica di sostegno alle amministrazioni comunali ha permesso ai centri sociali del Nord Est di godere di finanziamenti e favori, con la possibilità di gestire spazi col consenso delle amministrazioni. L'accordo, implicito o esplicito, era chiaro: i centri sociali non davano disturbo alle amministrazioni comunali e in cambio potevano gestire gli spazi senza interferenze da parte delle amministrazioni. Non è un caso che, ancora oggi, i Disobbedienti sono forti proprio in quelle regioni (Nord Est) dove maggiore è stato l'inserimento nelle politiche locali del centrosinistra.
In generale i centri sociali e i collettivi che fanno riferimento all'area dei Disobbedienti si identificano oggi nella rete di Global project, nella quale convergono oltre agli storici avamposti veneti (come il Pedro di Padova), anche altri soggetti come il Tpo di Bologna.
Col crollo della socialdemocrazia, anche i Disobbedienti hanno conosciuto un ridimensionamento, almeno sul terreno nazionale. E' così che è progressivamente emersa un'altra area, anch'essa derivante dalla vecchia Autonomia degli anni Settanta, coagulatasi, principalmente, attorno alla rete nota come "Autonomia Contropotere". Questa area si esprime principalmente (sebbene in modo eterogeneo, senza reali strutture di coordinamento nazionale) in alcuni collettivi e gruppi ruotanti attorno ad altri centri sociali. Tra quelli maggiormente attivi ricordiamo l’Askatasuna di Torino, il Laboratorio occupato Crash! di Bologna, Palermo con il Centro sociale Ex Karcere e il Centro sociale Anomalia, Il S.a.o. Guernica a Modena, lo Spazio antagonista Newroz a Pisa, il Csa Dordoni di Cremona, infine, i vari collettivi universitari, di studenti medi e di lotta per la casa che gravitano intorno a queste strutture e che stanno prendendo piede in altre città a partire dal 2008, come Casc Lambrate e Rete Studenti Milano, Coordinamento Collettivi e Student* a Bergamo, Kollettivo studenti in lotta a Brescia, Collettivo autonomo studentesco e Collettivo universitario autonomo a Bologna, Kollettivo studenti autorganizzati a Torino, Collettivo universitario autonomo e Studenti medi Palermo, il Komitato Giovani No Tav in Val Susa e Cas Apache a Santa Maria Capua Vetere e altri. Sono gruppi che attuano, sul terreno locale, politiche diverse da città a città (in alcune città cercano il dialogo con i governi locali, in altre si presentano come più antagonisti), ma che sono accomunati da alcune caratteristiche di fondo, che qui tentiamo di enucleare e criticare politicamente.
 
Principi ideologici e organizzativi: minimalismo politico e spontaneismo organizzativo
Rifiuto di ogni prospettiva a lungo termine, ripudio del programma socialista e della rivoluzione proletaria, rifiuto del partito e del conseguente centralismo: questi pochi elementi, che possono identificare il pensiero dell'Autonomia per come si è sviluppato a partire dagli anni Settanta, confluiscono oggi in una riproposizione aggiornata di vecchie ideologie spontaneiste, travestite da "nuovi" abiti teorici. Dal momento che si tratta di un'elaborazione "orizzontale", priva molto spesso di continuità e di coerenza interna, non è possibile una trattazione sistematica di tutti i concetti espressi dai suoi teorici o incarnati nelle sue pratiche: per questo ci limitiamo a focalizzare l'attenzione su alcuni elementi indicativi del fenomeno nella sua totalità.
Tra le nuove impostazioni teoriche (per quanto spesso sconosciute alla maggioranza degli attivisti) che giustificano questa vecchia forma di spontaneismo troviamo innanzitutto la teoria dei bisogni radicali e della rivoluzione della vita quotidiana di Agnes Heller, allieva di Lukacs che ripudiò il marxismo ed elaborò una filosofia tutta concentrata sulla realizzazione dei bisogni individuali nel presente. Non più dunque un lavoro paziente di costruzione della prospettiva, la cui realizzazione richiede un percorso di lotte e di crescita della coscienza socialista in esse; ma un utopico (questo sì) “comunismo del presente” (per utilizzare un'espressione molto sentita nel '77) che vuole la soddisfazione immediata di tutti i bisogni della soggettività nel presente, nell'immediato, impaziente a guardare al futuro. In termini politici, questa impostazione filosofica comporta il rifiuto dell'obiettivo del potere dei lavoratori: l'importante per chi sostiene queste posizioni non è la presa del potere da parte del proletariato che impone la sua dittatura per favorire la transizione ad una economia socialista, in grado effettivamente di soddisfare i bisogni di tutti; al centro di questo minimalismo politico c'è invece la lotta per "spazi autonomi" di gestione delle risorse (spazi all'interno della società capitalistica che non possono avere che una scala ultra-locale e che in ogni caso non possono rendersi totalmente indipendenti dal controllo sociale del capitale per quanto vengano definiti “zone liberate”); a questo si aggiungono altre teorizzazioni individualistiche e irrazionali come quella dell'appropriazione per cui il soggetto non deve più lottare per un interesse generale e perché tutti possano godere e fruire di determinati beni, ma deve "appropriarsene" nell'immediato attraverso la pratica dell'"esproprio".
Sostituire il faticoso lavoro della costruzione del partito rivoluzionario con pratiche frammentarie di "auto-realizzazione" immediata dei soggetti; sostituire la prospettiva universale e tesa al futuro della rivoluzione socialista con delle pratiche molecolari di presunto "contropotere" che non posso che avere un respiro territoriale e non andare oltre delle (a volte condivisibili) dichiarazioni di intenti: come se fosse possibile esercitare un autentico contropotere e affermare gli interessi delle soggettività sociali senza togliere il potere alla borghesia, senza distruggere il suo Stato per sostituirlo con uno Stato operaio, senza assumere il controllo dei mezzi di produzione e di scambio.
Tutto finisce per risolversi nello scontro immediato e senza prospettive con gli apparati repressivi, nella scaramuccia di piazza con la polizia, nella cancellazione del futuro come laboratorio di altri mondi possibili: l'unica dimensione che agli autonomi interessa è la dimensione del presente, astratta da ogni percorso politico di lungo respiro e dalle solide fondamenta. Il rifiuto di ogni criterio organizzativo atto a garantire la fondamentale democrazia interna ai movimenti, rifiuto sostenuto dagli autonomi, porta paradossalmente a pratiche di scontro interno e di frammentazione che rendono impossibile una visione unitaria delle cose e della strategia: l'antipartitismo e l'anticentralismo generici sono in realtà anarcoidi nella forma e opportunisti nella sostanza dal momento che un movimento senza criteri unitari di organizzazione e di democrazia è facile preda di altri gruppi organizzati. Questo è dimostrato dalle pratiche antidemocratiche di "egemonia" messe in atto dagli autonomi stessi ieri come oggi, attraverso l'assalto alle presidenze di assemblee unitarie, l'espulsione fisica dalle lotte e dal movimento di altri gruppi politici in disaccordo con le posizioni autonome (ad es. militanti di Alternativa Comunista sono stati aggrediti per aver portato le nostre bandiere e le nostre parole d'ordine in una piazza operaia che gli autonomi del Crash di Bologna pretendevano di "egemonizzare", cioè di controllare in forma esclusiva), l'imposizione violenta delle proprie pratiche di scontro gratuito nella gestione delle piazze durante le manifestazioni, aggirando le decisioni prese democraticamente dal movimento (l'esempio del 15 ottobre 2011 è un caso, disastroso, conosciuto). Tutto questo produce come effetto una divisione distruttrice in seno ai movimenti, porta all'isolamento delle lotte e alla loro sconfitta. Così fu nel '77, così può essere oggi per i settori operai e le vertenze di lotta "egemonizzate" (non politicamente - cosa che sarebbe legittima- ma con le modalità sopra descritte) dall'Autonomia: pensiamo alle lotte della logistica a Bologna che sono state isolate dalle altre forze politiche, sindacali e di movimento oltre che per l'opportunismo dei sindacati concertativi e della sinistra riformista, oltre che per il settarismo di ampi settori del sindacalismo di base (che non partecipano a questa lotta perché diretta dal Si.Cobas) anche a causa del recinto che cercano di erigere attorno a questa lotta gli autonomi del Crash.
Questa politica di divisione produce due gravissime conseguenze che pesano sia sulle singole vertenze di lotta, sia sulla lotta di classe più in generale: la prima è quella già detta dell'isolamento delle lotte e dei settori operai più combattivi; la seconda conseguenza è quella della rinuncia a guadagnare quella stragrande maggioranza della classe lavoratrice che guarda ancora ai burocrati di Cgil e Fiom come punti di riferimento, lasciando la maggioranza dei lavoratori in balia di queste direzioni burocratiche e di programmi concertativi, anziché intervenire cercando di guadagnare questi lavoratori su parole d'ordine più radicali e di lotta.
La mancanza di una struttura centralizzata e basata su un programma rivoluzionario, poi, rende l'Autonomia particolarmente esposta a spinte opposte: accodarsi nei fatti a politiche riformiste o cercare lo scontro di piazza con gli apparati repressivi, come un fine in sé. Anzi, spesso questi due atteggiamenti apparentemente divergenti si conciliano in un'unica realtà per cui una politica sostanzialmente minimalista è rivestita da una apparente radicalità di piazza: in cui per radicalità non si intende quella degli obiettivi che si sostengono ma quella dello scontro a bastonate con la polizia, condotto per di più in forma avventurista, esponendo spesso alla violenza degli apparati borghesi manifestazioni prive di servizio d'ordine.
 
L'estetica del conflitto come surrogato di un programma radicale
L’affermazione dello scontro fine a sé stesso, come gesto mediatico e spettacolare, come cultura estetica prima che politica, ha in sé la convinzione della sconfitta. Come se chi la praticasse sapesse già di aver perso contro il sistema borghese e sfogasse la sua rabbia e frustrazione alla ricerca di una scorciatoia “vendicativa”. Il “pagherete caro pagherete tutto” può essere interpretato così: “avete vinto, noi abbiamo perso; però ve la faremo pagare sfasciando qualche vetrina". Anche oggi vediamo la sottolineatura del tema della “vendetta” (il 19 ottobre è stato pubblicizzato dall'Autonomia come "la giornata della vendetta", appunto) come surrogato di una prospettiva e di un programma che possano realmente vincere lo scontro di classe. La violenza così interpretata (e che nulla ha a che fare con la violenza rivoluzionaria esercitata dalle masse in lotta), nel suo ridursi a rituale estetico e catarsi della propria impotenza, è l'attestazione di un profondo scoraggiamento rispetto alle possibilità reali di un cambiamento globale, l'affermarsi di un deleterio disincanto rispetto alle prospettive rivoluzionarie e, in definitiva, la rassegnazione davanti a questo sistema sociale ed economico, considerato alla fin fine come ineliminabile nelle sue strutture costitutive.
 
L'alternativa del socialismo e la costruzione del partito rivoluzionario
Noi rivoluzionari al contrario non ci rassegniamo davanti all'irrazionalità di questa realtà e non cerchiamo scorciatoie che possano glorificarci nell'attimo e renderci perdenti nel futuro. Sappiamo che in questa situazione di vuoto a sinistra e crisi del riformismo è più che mai doveroso intraprendere la faticosa ma produttiva strada della costruzione di un partito rivoluzionario - su base nazionale e internazionale al contempo - corrispondente al programma della rivoluzione socialista. Abbattersi, darsi per sconfitti, abbandonare il terreno delle prospettive per accontentarsi di uno scontro facile ma inutile non serve oggi ai lavoratori e alle masse popolari, e men che meno alle giovani generazioni che hanno un futuro e una società nuova da costruire. Dobbiamo approfittare della crisi della socialdemocrazia non per abbandonare la tradizione del comunismo, ma per sostanziarla in senso rivoluzionario laddove i riformisti ne conservavano sola la forma svuotandola di contenuti.
Anche se le cose che diciamo possono risultare inizialmente impopolari, per via della propaganda reazionaria contro la "forma-partito" e contro l'organizzazione democraticamente e centralisticamente strutturata, dobbiamo sforzarci di spiegare a chi manifesta e in particolare ai giovani in lotta che ci sono partiti e partiti, che ci sono i partiti riformisti giustamente ritenuti colpevoli di aver tradito gli interessi di classe e di essersi mischiati con le politiche padronali della borghesia, e che ci sono embrioni di partiti rivoluzionari che si sviluppano e crescono sul terreno del conflitto di classe contro il padronato, i suoi governi, le sue istituzioni corrotte.
Bisogna far comprendere, nel corso delle lotte, la necessità di una direzione rivoluzionaria delle masse: perché senza una direzione rivoluzionaria a prevalere saranno i padroni e i loro agenti, riformisti, governisti, burocrati sindacali e politici, che preservano il dominio capitalistico e riescono per ora a impedire in Italia quello sviluppo delle lotte che già vediamo in altri Paesi d'Europa e che altrove (pensiamo all'Egitto, alla Siria, al Brasile, ecc.) ha assunto o sta assumendo caratteri rivoluzionari.
In questo senso, pur collaborando (quando è possibile) in fronti di lotta comune con gruppi e centri sociali che si rifanno alle posizioni sopra descritte, pensiamo sia importante fare una critica franca e non diplomatica di concezioni che riteniamo profondamente dannose per la lotta di classe.
Costruire una direzione rivoluzionaria delle lotte, cioè costruire un partito rivoluzionario e internazionalista, è un compito difficile ma che tutti coloro che vogliono cambiare realmente questo mondo devono affrontare per poter contendere a riformisti e burocrati l'egemonia sulla classe e per poter avanzare nel progetto di una rivoluzione socialista che rovesci il capitalismo e i suoi governi, che imponga un altro potere: un governo dei lavoratori e per i lavoratori!
 
(*) responsabile nazionale Giovani di Alternativa Comunista
 

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