Partito di Alternativa Comunista

L'autunno caldo e la sinistra fredda

L'autunno caldo e la sinistra fredda

Gli ostacoli alla costruzione del partito di cui c'è urgentissimo bisogno


 
Barletta, gli operai della Bar.sa sul tetto della fabbrica con i militanti di Alternativa Comunista
 
 
di Francesco Ricci
 
(anticipazione da Progetto Comunista di ottobre, in uscita)
 
 
barsa
 
La serie di Fibonacci e quella di Ferrero
La successione delle mosse dei riformisti è prevedibile come il succedersi delle stagioni in astronomia (d'accordo, le mezze stagioni non ci sono più) o i numeri di Fibonacci in matematica. Conoscendo la regola matematica (ogni numero è la somma dei due precedenti) anche un bambino sa prevedere il numero successivo (a 2 e 3 seguirà 5, poi 8, quindi 13, poi 21 che è la somma di 8 e 13). Conoscendo la regola storica del riformismo (a ogni svolta a sinistra ne segue una uguale e contraria tale per cui la traiettoria verso le poltrone in un governo borghese rimane immutata) chiunque dovrebbe saper prevedere con esattezza dove rispunterà Paolo Ferrero. Ma così non è.
Se rileggiamo i commenti al congresso di Rifondazione dell'estate scorsa (rottura con i vendoliani ed elezione di Ferrero) vedremo che il Pdac fu tra i pochi a non credere alla "svolta a sinistra". Si andava dall'entusiasmo per il saluto a pugno chiuso dell'ex ministro Ferrero dal palco di Chianciano a chi, accreditando la "svolta", aspettava il rinnovato gruppo dirigente "alla prova" (la centesima prova).
Se i numeri di Fibonacci (per tornare alla matematica, che è meno arida di certa politica) sono prevedibili ma meravigliosi, perché celano proprietà speciali, si ritrovano nei petali dei fiori e nelle opere d'arte, nella musica di Bach, le mosse dei dirigenti riformisti, invece, non appagano né l'occhio né la mente (anche se ripagano gli appetiti dei burocrati).
 
Imprevedibili solo per chi non sa far di conto
Prevedibili i numeri di Fibonacci per chi sa contare; prevedibili le svolte di Ferrero per chi sa applicare l'esperienza decennale del movimento operaio in materia di riformisti. Le cose si fanno più complesse, in matematica, se uno non sa far di conto; e, in politica, se uno non sa tenere a mente neppure la storia più recente. Una storia che dimostra come i dirigenti riformisti non si trasformano quasi mai in rivoluzionari: tanto più dieci minuti dopo essere usciti (loro malgrado) da un gabinetto ministeriale. Il bertinottismo, cioè il riformismo di questi anni, una scuola in cui è cresciuto non solo Vendola ma anche Ferrero, è la migliore dimostrazione del teorema di cui sopra: ogni (apparente) svolta a sinistra è sempre servita unicamente per accumulare forze per la successiva svolta a destra, cioè per ricontrattare posti di governo con la cosiddetta borghesia progressista, in cambio convincendo i lavoratori che la lotta non va sviluppata ma attenuata e non può andare oltre le colonne d'Ercole della sacra proprietà capitalistica e dei suoi governi.
 
Ancora una volta a destra
Il Comitato Politico di Rifondazione di metà settembre ha applicato il teorema. La svolta a destra è stata di proporzioni uguali e contrarie alla precedente svolta a sinistra. Tanto in là ci si era spinti (a parole) prima (fino a suscitare gli entusiasmi della sinistra interna, con Falcemartello che metteva in prima pagina le interviste a Ferrero: "Non si torna indietro dal tema della rivoluzione"); tanto in qua ci si spinge ora per controbilanciare.
Così brusca è stata la svolta che ha fatto cadere (dalla segreteria) Falcemartello (mantenendo fuori le altre minoranze: l'Ernesto e Controcorrente) mentre ha raccolto, in corsa, la destra ex vendoliana, promuovendo alla segreteria Rocchi e la Rinaldi. Non è solo un problema di gruppi dirigenti (che sarebbe di scarso interesse): con questa maggioranza Rifondazione si appresta a cercare nuovi accordi di governo col Pd per le regionali. E, tanto per dimostrare a chi di dovere che i pugni chiusi e le bandiere rosse di Chianciano erano solo una sceneggiata, Ferrero si è spinto fino a parlare di una "legislatura di salvaguardia costituzionale", cioè un "governo di un anno" che, nel caso cada Berlusconi, si occupi di "conflitto d'interessi, legge elettorale e poche altre cose".
Ora, come sa anche il fruttivendolo all'angolo, che usa i giornali per avvolgerci i pomodori, siamo nel pieno di una crisi economica del capitalismo e di una ripresa dello scontro di classe che si annuncia dai tetti di tante fabbriche: chiunque può immaginare che cosa sarebbero le "poche altre cose" che farebbe un governo di Pd e Udc. Non solo: se Berlusconi dovesse cadere (per i problemi giudiziari derivanti da un annullamento del Lodo Alfano) le ipotesi più probabili sono le elezioni o un governo Fini a termine con la "benevola astensione" del Pd (ipotesi Scalfari). La disponibilità offerta da Ferrero è quindi più che altro un segnale lanciato al Pd e alla borghesia: il gruppo dirigente del Prc sta rimettendo in ordine in casa (dopo la sbandata della scissione bertinottiana) ed è pronto a riassumere il ruolo di maggiordomo di governo: oggi nelle regioni (sulla base dei consueti "accordi di programma situazione per situazione" che, si accettano scommesse, si faranno ovunque), domani nazionalmente; nel frattempo il Prc cerca di assicurare un ruolo di cuscinetto nelle piazze d'autunno, coprendo il lato politico, essendo quello sindacale già presidiato dalla Cgil di Epifani (che di questo parla a cena a Cernobbio con la Marcegaglia) e dalla presunta sinistra sindacale di Rinaldini, che si occupa di contenere il terreno più avanzato (come ha riconosciuto la stessa Marcegaglia).
Anche le posizioni sulla guerra in Afghanistan sono una ulteriore prova di affidabilità agli occhi della borghesia. Certo, Rifondazione non può che chiedere il ritiro delle truppe (per far dimenticare che le truppe le ha votate): ma è una richiesta innocua se accompagnata dalle affermazioni di Ferrero ("la pace si fa con i nemici") che chiariscono la lettura ferreriana della parola d'ordine centrale dei comunisti davanti alla guerra ("il nemico principale è nel proprio Paese"): Ferrero legge alla rovescia, da destra a sinistra (secondo la tradizione riformista, dal 4 agosto 1914 in poi). I "propri" governanti (le belve imperialiste) sono invitati a fare "la pace" sedendosi ragionevolmente al tavolo con le popolazioni che stanno massacrando (come se si trattasse di un litigio per le merendine, invece che di guerre per i profitti miliardari su cui campa questo sistema).
Questo lo schema su cui si muove Ferrero (che forse sogna di indossare di nuovo un giorno non lontano la grisaglia da ministro "di lotta"). Il problema per lui è che non è detto che il gioco di accumulare forze a sinistra per poi spenderle a destra funzioni ancora: certo c'è chi è stato "due volte nella polvere, due volte sull'altar" ma non è il caso di credersi Napoleone se non si vuol passare per matti.
 
I centristi fanno i centristi
Chi ci legge sa che quando parliamo di "centristi" non pensiamo ai Casini (nel senso di Pierferdinando) ma, riprendendo Lenin, ci riferiamo a quelle organizzazioni che oscillano tra riformisti e rivoluzionari, in generale conformandosi con le azioni ai primi e con le parole ai secondi. In Italia le due forze centriste più conosciute sono Sinistra Critica e il Pcl, cioè le altre due organizzazioni come noi nate da una scissione del Prc.
Del Pcl non c'è molto di nuovo da dire, essendo la sua attività circoscritta alle apparizioni mediatiche (in calo) del leader. Salvo che in qualche città, è un partito che non agisce nel mondo reale, nel senso che dello sterminato numero di militanti dichiarati (tremila un anno fa, ma ormai chissà a che cifra siamo arrivati) nessuno è mai riuscito a vederne più di una cinquantina in una piazza e tre o quattro alle assemblee nazionali di movimento o sindacali. E la loro funzione (nonostante la buona fede di gran parte di questi compagni) è solo quella di fare da sfondo in caso si avvicini una telecamera al leader. La proposta centrale del Pcl rimane comunque quella del "parlamento delle sinistre". Cosa sia esattamente questo "parlamento", quale lo scopo, a chi sia rivolto, chi dovrebbe farne parte, sono interrogativi su cui vige il massimo riserbo.
Diverso il discorso per Sinistra Critica. Nemmeno qui abbiamo la radicata organizzazione di cui parlava Flavia D'Angeli in campagna elettorale un anno fa (la verità è che nessuna delle tre forze a sinistra del Prc ha oggi questo radicamento) ma qui capita di incontrare militanti in carne ed ossa e Sc riconosce oggi (finalmente un po' di schiettezza), nei testi per l'imminente congresso, che "dall'uscita dal Prc ci aspettavamo di più" e che la situazione non è rosea.
I documenti congressuali affermano una serie di cose abbastanza generiche e genericamente condivisibili sull'analisi del mondo. Il problema è con ciò che manca nella proposta politica e strategica. Manca (anzi, è rimossa) la necessità di costruire un partito; manca (anzi, è escluso) il concetto di programma transitorio per guadagnare le masse a una prospettiva di potere dei lavoratori. E queste due mancanze (partito, programma) ben si combinano con la permanente confusione centrista sulla questione del potere (non vi è ombra di autocritica sul sostegno - seppure "distante" - accordato a Prodi per un lungo periodo da Turigliatto). A ciò si aggiunga che sulla necessità di un partito comunista internazionale Sc fa un ulteriore passo indietro: non sarà più (come l'Npa di Besancenot in Francia) sezione del Segretariato Unificato (organizzazione che va verso un sostanziale scioglimento e rimarrà solo come rete di informazione). Partito, programma, potere, Internazionale: i pilastri di un partito comunista essendo rimossi, il proclamato tetto "anticapitalista" rovina nella polvere.
Non è strano, allora, se in contrapposizione al documento di maggioranza viene discusso un testo alternativo (di Antonio Ardolino e altri) che, con notevole lucidità, propone di esplicitare ciò che nel testo di Turigliatto è implicito, sviluppando la linea di Sc fino alle sue logiche conseguenze: la necessità "per questa fase" di un programma "radicalmente riformista" e l'ingresso (visto che di costruire un partito non se ne parla) nella Federazione insieme a Prc e Pdci.
 
Cosa prova a fare invece il Pdac
Passata in rassegna la sinistra riformista e centrista, la cosa evidente è che nessuno di questi progetti soddisfa le esigenze della fase e cioè una crescita organizzata delle lotte e per questa via la costruzione di una unità della classe: unità che può avvenire solo nella piena indipendenza dalla borghesia, dai suoi partiti, dai suoi governi, dalle sue giunte, dai suoi agenti burocratici nel sindacato, nei partiti: in una prospettiva di alternativa di potere dei lavoratori.
Questa esigenza è il centro del dibattito del II Congresso del Pdac (gennaio 2010). E' questa la barra che stiamo mantenendo con grande sforzo, di fatto soli a sinistra (quali altre forze hanno preso, ad esempio, una posizione internazionalista dopo la morte nella loro guerra coloniale dei parà della Folgore?).
Su questa via proseguiremo, con la nostra piccola ma organizzata forza, sapendo che da soli non ce la possiamo fare e continuando a cercare di coinvolgere il maggior numero possibile tra i compagni che finora ci hanno osservato, hanno seguito la nostra stampa e il nostro sito, sono stati con noi in piazza, stanno leggendo ora questo articolo e vorranno impegnarsi con noi nella costruzione del partito rivoluzionario di cui c'è un tremendo e urgentissimo bisogno.
 

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