Partito di Alternativa Comunista

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Marginalità, criminalità e carcere nel cinema del Ventunesimo secolo

 

di William Hope,

Università di Salford, G.B.

foto carcere 2

 

Il concetto di marginalizzazione, riferito al senso di alienazione che gli individui stanno sperimentando in una società dove il senso di sicurezza collettivo garantito dallo stato sociale si riduce continuamente, è un tema ricorrente nel cinema del nuovo millennio. Molti film recenti hanno focalizzato l’attenzione su alcuni gruppi quali i disabili, la gioventù marginalizzata, i senzatetto e i carcerati. Il critico Martin O’Shaughnessy ha elaborato una serie di criteri per valutare l’efficacia della rappresentazione politica delle questioni della marginalizzazione e dell’esclusione sociale; egli osserva che, poiché i marginalizzati sono regolarmente zittiti ed oggettivati, una particolare enfasi va posta su quei film che attribuiscono loro la capacità di “refuse immobilization” (2007: 3-4). Di conseguenza, secondo lo studioso, sono quelli i film, in grado di dare voce ai marginalizzati e di costituirli come portatori d’istanze politiche piuttosto che come oggetti sociali per la nostra contemplazione voyeuristica ed “umanitaria”, che dovrebbero occupare un posto centrale nell’analisi critica” (2007: 4). Questo articolo si avvarrà dell’approccio di O’Shaughnessy, combinato con studi sociologici, al fine di stabilire in che modo i film italiani si focalizzino su un gruppo specifico di marginalizzati, quale i carcerati.

 

La ricerca sociologica recente riprende Marx ed Engels

 

Nella ricerca sociologica recente, un intero filone ha ripreso concetti dell’analisi materialista di Marx ed Engels relativa al sistema penale ed ai suoi rapporti con i sistemi di produzione in tempi di rivolgimenti economici. Sonia Paone osserva che “in molti Paesi dell’Unione europea si è registrato un incremento significativo della popolazione carceraria che ha coinciso con l’inizio di un’era di disoccupazione di massa e flessibilizzazione di lavoro” (Paone, 2008: 136). Sotto l’influenza del neoconservatorismo, le nozioni di “Stato sociale”, modellate su inclusione sociale ed assistenza, sono state sostituite da uno Stato “penale”, basato sull’esclusione (Bauman, 2007: 49-50). Ciò ha permesso ai governi di dotarsi di una facciata di operatività in un tempo in cui la globalizzazione li ha resi economicamente impotenti, ed anche di “neutralizzare, usando anche il carcere, quelle frazioni della classe lavoratrice e in particolare quei membri di gruppi stigmatizzati che persistono nell’aperta ribellione contro i loro ambienti sociali”. (Wacquant, 2009: xvi). Come conseguenza, i membri economicamente vulnerabili della società, o sezioni della popolazione affetta da malattie mentali, o coloro che si sono dati all’alcool o alla droga come soluzione ai loro problemi, possono facilmente incorrere nella violazione del confine ridefinito dell’illegalità, in un contesto giuridico caratterizzato da “una giustizia inesorabile e severa nei confronti dei deboli di questo mondo ma facile a eludere per i forti [...] Se la giustizia è quella che raggiunge e rinchiude in carcere l’area della precarietà sociale, essa sarà discreta e rispettosa nei confronti dei garantiti” (Margara, 2002: 1065).

 

Gli emarginati e il cinema che li racconta

 

Il cinema ha dedicato attenzione alla discesa inesorabile degli individui vulnerabili in situazioni che li mettono a rischio di cadere nelle maglie del nuovo Stato penale, in mancanza di politiche di assistenza, opportunità di lavoro adeguatamente remunerative e di una coscienza proletaria di classe.

L’incongrua comicità di ingenui individui inadatti ad azioni criminali sottende La lingua del santo (Carlo Mazzacurati, 2000), mentre la deprimente prospettiva di finire, allo stesso modo delle precedenti generazioni della sua famiglia, come manodopera salariata in una raffineria in Sardegna, spinge il protagonista di Jimmy della collina (Enrico Pau, 2006) a compiere una rapina. Il sottoproletariato urbano non ha grandi scelte se non ricorrere ad espedienti quali la prostituzione maschile (Et in terra pax, Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, 2001; Cover boy, Carmine Amoroso, 2008) o la rapina (Pater familias, Francesco Patierno, 2003; Certi bambini) per generare introiti. Un film come Fame chimica (Paolo Vari e Antonio Boccia, 2004), ambientato nel quartiere di case popolari della Barona, alla periferia di Milano – nel cui caos gli spettatori sono immersi mediante una carrellata in avanti che rispecchia il movimento cauto del protagonista Claudio che emerge dall’oscurità – stabilisce la natura predatrice della polizia locale che riflette la nozione di Margara riguardo alle forze dell’ordine che puntano a specifici gruppi socio-economici, mentre i più pesanti consumatori di droga appartenenti all’influente classe sociale borghese rimangono indisturbati.

Devastanti ironie emergono anche quando personaggi appartenenti ad identici ambienti socio-geografici, quali le periferie di Napoli in Vento di terra (Vincenzo Marra, 2004) e Gomorra (Matteo Garrone, 2008), finiscono per gravitare verso il crimine e fare cruciali scelte di vita sulla base della loro prima esposizione a quel mondo. In Vento di terra, Vincenzo sceglie una carriera ‘legittima’ nell’esercito ma, inviato in servizio in Kosovo, è delittuosamente esposto alle radiazioni di uranio. Sull’altro versante, la scaltrezza che Totò, il giovane protagonista del primo ‘episodio’ di Gomorra, dimostra nel nascondere la droga durante un’irruzione della polizia nelle vele di Scampia è riconosciuta ed immediatamente premiata dalla locale organizzazione criminale. La sequenza stabilisce un sistema meritocratico puntuale ed efficiente; qualcosa che lo Stato, con il suo sistema di raccomandazioni, la paralisi operativa e l’attesa infinita cui sottopone le aziende creditrici, può solo aspirare.

Una volta in prigione, i marginalizzati si ritrovano – sia nella realtà sia sullo schermo – al centro di correnti reazionarie e correnti progressiste. Alcuni film hanno identificato l’importanza della cultura come forma di espressione individuale capace di contrastare la muta sottomissione dei carcerati, ribadendo il valore di progetti per stimolare e strutturare la vita dei detenuti. Film come Tutta colpa di Giuda (Davide Ferrario, 2009) e Cesare deve morire (Paolo e Vittorio Taviani, 2012) usano tocchi brechtiani, come scritte in sovraimpressione e battute rivolte direttamente alla cinepresa, per enfatizzare fino a che punto l’identità del detenuto sia fusa con – e ridotta a – il crimine commesso, prima di raffigurare come i detenuti riassumano e riversino le loro esperienze di vita nel mettere in scena una produzione teatrale. Il caso di Cesare deve morire, girato con l’uso di un montaggio basato su sovrapposizioni e dissolvenze per creare una giustapposizione onirica delle varie ‘realtà’ contenute dal film – gli uomini nella posizione di carcerati (che diventa anch’essa simile a un ruolo), le loro storie personali e i loro ruoli teatrali – evidenzia la validità di tali progetti, confermata dalla scritta che chiude la proiezione del film e che informa dell’evoluzione del carcerato Salvatore Striano in una carriera professionale d’attore dopo l’uscita dal carcere.

L’amore buio (Antonio Capuano, 2010) è basato sulla storia vera di una donna che intrattiene una corrispondenza e sviluppa quindi una relazione con Ciro, uno della banda di adolescenti che l’avevano violentata. Il film suddivide il suo centro narrativo tra l’incerta riabilitazione dei giovani detenuti nonostante le iniziative a disposizione nel carcere – nelle sequenze girate nel penitenziario solo l’intraprendente Ciro si evolve come individuo, mentre i suoi compagni di cella non hanno un sufficiente livello linguistico e d’istruzione per migliorare se stessi – e la mancanza di investimenti istituzionali nelle zone deprivate, per promuovere lo sviluppo dei giovani e quindi prevenire il loro coinvolgimento nelle attività illecite. Entrambi i film L’amore buio e Et in terra pax sollevano la questione relativa alla mancanza di assistenza che invece è necessaria se si vuole evitare che, una volta scontata la pena, i giovani siano risucchiati nei circuiti della criminalità. L’amore buio la evidenzia nella sequenza della visita del padre di Ciro, nella quale egli relaziona il ragazzo sui piani della Camorra per la sua imminente scarcerazione; Et in terra pax nella opprimente sequenza iniziale che, con una carrellata in avanti di tre minuti, segue il protagonista Marco appena uscito di prigione, nel suo ritorno al quartiere di Corviale, alla periferia di Roma, e alla sua inevitabile ripresa dell’attività di spacciatore. Come Paone osserva (2008: 132) “L’obiettivo della risocializzazione [...] si è scontrato nella pratica con i concreti problemi di reinserimento del dopo pena e con gli aspetti stigmatizzanti dell’esperienza carceraria”. Se si considera poi come l’attuale mercato del lavoro sia caratterizzato da un surplus di milioni di disoccupati incensurati, appare evidente l’entità degli ostacoli che gli ex-carcerati si trovano ad affrontare.

Il cinema contemporaneo ha posto un’enfasi progressiva sullo sviluppo personale dei detenuti durante la detenzione, e continua giustamente a denunciare situazioni in cui la prigione, come osserva Vitelli, non solo ripresenta le difficoltà del mondo esterno, ma le amplifica ed esaspera (2004: 87). Se, da un lato, il cinema può essere criticato per il suo rappresentare una popolazione carceraria italiana non più attuale, e perché raramente prende in considerazione il ruolo sempre crescente della prigione come una “discarica sociale” che ospita in modo improprio gruppi di marginalizzati che vanno dai malati mentali ai tossicodipendenti, dall’altro i film sul carcere danno prova di essere uno dei filoni cinematografici più progressisti per il modo in cui ritraggono la marginalizzazione, dando spazio e voce all’articolazione delle individualità di coloro che sarebbero altrimenti membri passivi e invisibili della società.

 

Bibliografia

Bauman, Z. (2007) Liquid Times: Living in an Age of Uncertainty, Cambridge, Polity Press.

 

Margara, A. (2002) “Quale giustizia? Repetita non iuvant: ancora sulla pena e sul carcere” in Questione Giustizia, n. 5, 1031-1077.

 

O’Shaughnessy, M. (2007) The New Face of Political Cinema: Commitment in French Film Since 1995, New York-Oxford, Berghahn Books.

 

Paone, S. (2008) Città in frantumi: sicurezza, emergenza e produzione dello spazio, Milano, Franco Angeli.

 

Vitelli, A. (2004) “L’istituzione penitenziaria di fronte ai detenuti stranieri. Il caso della Toscana” in Berti, F. e Malevoli F. (a cura di), Carcere e detenuti stranieri: percorsi trattamentali e reinserimento, Milano, Franco Angeli, 87-101.

 

Wacquant, L. (2009) Punishing the Poor: the Neoliberal Government of Social Insecurity, Durham e Londra, Duke University Press.

 

 

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