Le drammatiche conseguenze del coronavirus hanno quindi trasformato il Climate Strike in un Digital Strike in cui miliardi di giovani anziché da una piazza, prendendo spunto dall’emergenza sanitaria in corso, «urleranno» dalle tastiere dei loro pc che «la nostra salute viene prima del profitto!».
L’esplosione della pandemia di Covid-19, infatti, oltre a causare il cambio di programma, ha aggiunto un importante nuovo tassello nella elaborazione della questione climatica.
Da Rio a Madrid, passando per Parigi
Per comprendere gli sviluppi che hanno portato alle attuali argomentazioni del Fridays for future e di tutto quello che si è mosso in parallelo è necessario ricordare i tentativi di «dialogo» tra i vari Paesi del mondo a cui gli attivisti della lotta alle alterazioni climatiche hanno fatto riferimento negli anni.
Bisogna precisare, intanto, che il tema del riscaldamento globale e i relativi primi negoziati e accordi internazionali che hanno avuto come obiettivo la definizione dei limiti alle emissioni di gas Serra risalgono all’inizio degli anni Novanta, quando Greta Thunberg non era ancora venuta al mondo.
Fu il Vertice sulla Terra di Rio de Janeiro nel 1992 che diede vita alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), il primo inutile trattato internazionale, inutile soprattutto per il carattere non vincolante (nel senso che non impose limiti obbligatori alle emissioni di gas Serra alle singole nazioni firmatarie) dal punto di vista legale. Proprio il vertice di Rio ha dato il via alle Conferenze delle parti (Cop), incontri annuali per analizzare i progressi nell'affrontare il cambiamento climatico.
Uno dei più noti è certamente il Protocollo di Kyoto del 1997 (Cop3) che, nonostante l’imposizione dell’obbligo di riduzione delle emissioni ai Paesi più sviluppati, ha visto una riduzione risibile considerando che gli Stati Uniti non vi hanno mai aderito e che Canada, Russia, Giappone e Nuova Zelanda si sono via via defilate.
Una sveglia, soprattutto mediatica, nel torpore generale è stata rappresentata dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015 (Cop21) che, dinanzi a 40 mila partecipanti, ha prodotto il primo testo universale per ridurre la temperatura di 2 gradi, cioè sotto i livelli della prima rivoluzione industriale (1861-1880) dal 2015 al 2100 (ovvero 2.900 miliardi di tonnellate di Co2, ossia un taglio dell’ordine tra il 40 e il 70% delle emissioni entro il 2050).
A seguire, Marrakech, Bonn, Katowice e in ultimo Madrid (Cop25) hanno provato a definire meglio le regole di attuazione dell’Accordo di Parigi che dal 2015 è rimasta la vera guida per gli attivisti.
Cop25, storia di un fallimento universalmente riconosciuto
L’unico merito della 25esima conferenza sul cambiamento climatico organizzata dall’Onu, la cosiddetta Cop25, è stato quello di mettere tutti d’accordo sull’esito: un fallimento!
A Madrid, infatti, alla presenza di 190 Paesi del mondo, l’obiettivo era trovare una soluzione su uno dei punti più importanti e discussi dell’Accordo di Parigi sul clima: il meccanismo previsto dall’articolo 6, che dovrebbe permettere ai Paesi che inquinano meno di «cedere» la loro quota rimanente di gas serra a Paesi che inquinano di più, per permettere loro una transizione più facile senza compromettere il raggiungimento degli obiettivi generali. Oltre a non avere concordato nulla sull’articolo 6, la Cop25 non ha prodotto niente di vincolante sull’obbligo per i singoli Paesi di presentare piani per ridurre ulteriormente le proprie emissioni di gas.
«Per arrivare sulla Luna serve più di un monopattino»
Discutere sulle cause del fallimento della Cop25 di Madrid, dove, Brasile, Australia e Stati Uniti sono stati, addirittura, accusati di avere ostacolato apertamente un accordo per evitare di sottostare a regole più rigide, ha una importanza relativa rispetto all’amaro in bocca che ha lasciato l’esito della Conferenza.
Gli egoismi e i calcoli dei Paesi più sviluppati in barba alle necessità di risorse economiche dei Paesi più esposti agli impatti dei cambiamenti climatici, nonché la tattica di spostare la discussione su sterili dettagli tecnici, hanno mostrato il vero volto degli avvoltoi a giovani e meno giovani che oggi stanno lentamente rimodulando la fiducia verso i governi e le loro organizzazioni internazionali, anche perché le notizie che arrivano dagli scienziati non lasciano molto spazio alla speranza: un nuovo rapporto speciale sul clima realizzato dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), sulla base di circa 7mila ricerche scientifiche conclude che «il livello del mare continua ad aumentare, i ghiacci si sciolgono rapidamente e molte specie si stanno spostando alla ricerca di condizioni più adatte alla loro sopravvivenza».
Ad acutizzare il disincanto di chi è più sensibile all’emergenza climatica è stata la dura lezione di un’altra emergenza, quella sanitaria causata dal coronavirus.
Di certo i giorni a venire saranno importanti per la messa a punto dell’analisi e delle conseguenti azioni del movimento nato dall’iniziativa della ormai diciassettenne studentessa svedese Greta Thunberg, ma è evidente che il monito, lanciato sui social per tenere vivo l’interesse verso il problema climatico nei giorni di quarantena obbligata, rappresenta più che un semplice slogan: «non permetteremo che altre epidemie ci trovino impreparati, non permetteremo che si continuino ad alimentare le condizioni che favoriscono la diffusione di nuovi virus, non permetteremo che il nostro e tutti i governi usino questa crisi come copertura per tornare a distruggere il pianeta, che ci garantisce la vita, come facevano prima, in combutta con le aziende del fossile. La nostra salute dipende dagli ecosistemi. La nostra salute viene prima del profitto».
Due emergenze, lo stesso colpevole
Se i fallimenti delle conferenze hanno spinto i più giovani a guardare oltre il totem dell’Accordo di Parigi, la pandemia di Covid-19 ha mostrato, come esplicitamente dichiarato nel testo sopra riportato, che c’è un colpevole ben identificato che «alimenta le condizioni che favoriscono la diffusione dei virus» ed è lo stesso colpevole ben identificato che ha generato la crisi climatica: il sistema capitalista.
Un sistema criminale basato sull’anarchia della produzione per l’accumulazione di nuovi capitali nella competizione tra capitalisti concorrenti, non solo distrugge gli ecosistemi e causa la crisi climatica, ma condanna a morte il proletariato e le masse più povere di questa società a causa dell’incapacità di affrontare queste crisi.
Un modello di sviluppo sensibile solo ed esclusivamente all’opulenza di pochi e incurante dei bisogni della stragrande maggioranza della popolazione mondiale.
La lezione più importante
Nel 2018 abbiamo scoperto, tramite il rapporto sulla sicurezza alimentare globale diffuso da Fao, Unicef e altre agenzie delle Nazioni Unite, che il numero delle persone che soffrono la fame nel mondo è in crescita: sono, infatti, 821 milioni, vale a dire 1 abitante del pianeta su 9, secondo «The State of Food Security and Nutrition in the World 2018».
Nonostante numerosi studi dimostrino che la produzione alimentare mondiale è sufficiente a soddisfare la domanda di tutti gli abitanti del pianeta, l'incidenza della fame è aumentata negli ultimi tre anni, tornando ai livelli di un decennio fa.
Se aggiungiamo quest’altro tassello al puzzle che abbiamo cominciato a comporre con il quadro sulla crisi climatica e le modalità di affrontare la crisi sanitaria di questo inizio 2020 che ha visto, fino al momento in cui scriviamo questo articolo, oltre un milione e mezzo di contagi ufficiali e più di 90 mila morti nel mondo, ci troviamo di fronte un ritratto chiaro che rappresenta la lezione più importante da ricordare, la «Lesson for future»: affidarsi agli Stati e ai loro governi che, per dirla con le parole di Marx ed Engels, «amministrano gli affari comuni di tutta la classe borghese», significa non solo non risolvere i problemi di questa portata, ma aggravarli e distruggere la classe lavoratrice e gli sfruttati del pianeta.
«La solita volpe a guardia del pollaio»
A fine marzo l’Agenzia per la protezione dell’ambiente statunitense (Epa) ha annunciato che le industrie potrebbero avere difficoltà a rispettare alcune prescrizioni degli standard ambientali a causa del coronavirus aprendo, di fatto, la strada alla sospensione dell’applicazione delle leggi ambientali e delle relative sanzioni in caso di violazioni. Inutile aggiungere che il provvedimento è stato invocato in particolar modo dall’industria petrolifera e del gas.
Più o meno negli stessi giorni il Fridays For Future Europa, dopo aver finalmente dichiarato «inadatto» il Green New Deal che per alcuni rappresentava uno dei pilastri su cui costruire la «rivoluzione verde», per mettere pressione sugli organismi dell’Unione europea ha lanciato una raccolta firme, sì avete letto bene una raccolta firme in cui si fa appello alla Commissione europea di mettere in atto misure più stringenti per fronteggiare la crisi climatica e, per perseguire e raggiungere tali obiettivi, si reputano essenziali precise leggi.
Se a questo si aggiunge la fiducia di molti attivisti e attiviste nell’Agenda 2030 con i suoi 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable development goals - Sdgs) approvata il 25 settembre 2015 dalle le Nazioni Unite il ritratto torna ad essere a tinte fosche.
La discrepanza tra quella che è l’analisi e le conseguenti iniziative non può che essere evidente!
Una sola «agenda», quella che porta al socialismo
Di fronte a quello che stiamo vedendo con i nostri occhi, dopo l’ultima fallimentare esperienza della Cop25 di Madrid, appurata l’incapacità dei governi di far fronte alle crisi senza l’approvazione della borghesia e dimostrata la criminale voracità di Paesi come gli Stati Uniti (per giunta principale membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu) nel mezzo di una delle peggiori crisi sanitarie, è semplicemente assurdo solo pensare che si possa lasciare che la crisi climatica in corso sia risolta a modo loro.
Il tempo degli appelli, della speranza nella loro democrazia è scaduto, la salute e la stessa vita delle popolazioni è in imminente pericolo e solo prendendo l’iniziativa e costruendo una lotta dura combattuta con l’arma più importante che hanno le masse popolari che è lo sciopero, potrà essere vinta.
I lavoratori in questi mesi si sono resi conto che questa società funziona grazie a loro e che se la giostra non la chiudono i governi le masse proletarie hanno la forza necessaria di chiuderla loro con gli scioperi.
Non esistono leggi e riforme che possano risolvere le contraddizioni del capitalismo e chi persegue questa strada non fa altro che tenerlo in vita artificialmente a danno della stragrande popolazione del pianeta.
E’ fin troppo evidente ora che solo la rivoluzione socialista potrà salvare il pianeta e i suoi abitanti dalla catastrofe.