Partito di Alternativa Comunista

Petrolio: le vere ragioni del crollo

 
 
Petrolio: le vere ragioni del crollo
 
 
 
 
 
 
di Alberto Madoglio
 
 
 
 
 
 
Meno 305%, chiusura a -37,63 dollari al barile. Si stenta perfino a concepirlo ma il prezzo raggiunto a Wall Street dal barile di petrolio, nella giornata di lunedì 20 aprile, è un altro esempio di quanto la recessione economica, scatenata, ma non causata dalla pandemia di Covid 19, si annuncia di dimensioni impressionanti, e di quanto il sistema capitalistico mondiale sia intrinsecamente un sistema folle e senza alcun senso, irrazionale.
È vero che stiamo parlando del valore raggiunto sul “future” di maggio di un particolare tipo di petrolio (WTI) e che lunedì 20 aprile era la giornata in cui si chiudevano le contrattazioni di questo particolare tipo di contratto. Nonostante ciò, abbiamo assistito a qualcosa di storico, cioè al fatto che per il mese di maggio chi detiene petrolio è disposto a pagare per liberarsene. È molto probabile che quando si arriverà a consegne «fisiche», anche a maggio il prezzo del barile sarà di segno positivo (anche se IlSole24Ore di martedì 21 aprile ci racconta che la consegna effettiva di petrolio ricavato dalle sabbie bituminose del Canada ha espresso prezzi negativi nella giornata di lunedì).

Le vere ragioni di un crollo senza precedenti
Ma al di là della eccezionalità dell’evento e degli «alti e bassi» che hanno caratterizzato la seduta di lunedì (chi ha avuto occasione di seguire il flusso dei dati su qualche canale televisivo statunitense ha potuto vedere che il prezzo ha subito oscillazioni fortissime in pochi secondi, da meno 300% è passato a meno 200%, per poi ritornare ancora a meno 300%: quando si dice «essere sulle montagne russe»), cosa c’è di concreto, oltre all’indubbio «spettacolo»?
Prima che la pandemia colpisse le economie di tutto il globo, sul mercato del petrolio assistevamo a frizioni tra quelli che sono i maggiori attori in questo fondamentale mercato globale: già agli inizi del 2020, secondo quanto riportato da diversi commentatori economici, la Russia di Putin rifiutava di sottoscrivere un accordo con i Paesi produttori riuniti nell’Opec, e in particolare con l’Arabia saudita, che prevedeva una riduzione nella produzione giornaliera. L’intento, sempre secondo le ricostruzioni giornalistiche, era quello di mettere in difficoltà i produttori americani di shale oil, metodo che ha permesso agli Usa di diventare il primo produttore mondiale e di tornare ad essere, per la prima volta dopo decenni, esportatori di tale materia prima. La convinzione di Putin, nel non sottoscrivere l’accordo, era che ciò avrebbe ridotto il prezzo del greggio, costringendo le compagnie produttrici di shale oil a bloccare l’estrazione. Questo tipo di tecnica per la sua particolarità, viene usata non da multinazionali del calibro di Exxon o BP, ma da piccole compagnie con pochi capitali a disposizione, fortemente indebitate con le banche, e con costi di estrazione sostenibili solo con prezzi relativamente alti (sui 35 dollari al barile).
Per tutta risposta, il regime teocratico di Riad ha aumentato a sua volta la produzione, creando lo stesso meccanismo messo in moto da Mosca, ma questa volta mettendo nel mirino i produttori russi. Si è verificato così un primo forte calo, generalizzato, nelle quotazioni.
L’inizio della recessione mondiale, scatenata dal Covid 19, ha però scombussolato i piani dei vari attori in commedia. Il blocco produttivo, per quanto parziale, a livello globale, deciso per cercare di fermare il diffondersi del contagio, ha fatto sì che la domanda di petrolio subisse un calo repentino. Terrorizzati da tale prospettiva, Usa, Russia e Arabia saudita hanno deciso di arrivare ad un taglio della produzione mai visto prima, con lo scopo di sostenere le quotazioni: 10 milioni in meno di barili al giorno. La decisione, come abbiamo visto lunedì, pare non aver causato gli effetti sperati.
Vari organismi internazionali prevedono che per il mese di aprile 2020 la domanda di petrolio sarà inferiore di 30 milioni di barili al giorno rispetto allo scorso anno (circa un terzo). Mentre per il 2020 si prevede una domanda inferiore di 9 milioni di barili rispetto al 2019. Queste sono le previsioni odierne, che non considerano però né che il lockdown possa durare ancora altri mesi né che la ripresa delle attività produttive sia di là da venire, e soprattutto non tengono in conto che, al di là di un confinamento più o meno prolungato, la recessione sia più dura di quanto oggi si possa immaginare, e di quanto i capitalisti si augurino.
Di più: la crisi dei prezzi, di quella che a tutt’oggi è la materia prima per eccellenza, vero e proprio carburante - è il caso di dire - dell’economia mondiale, rischi di peggiorare le cose: l’inizio della recessione ha colpito il settore petrolifero, la crisi di quest’ultimo rischia di rendere la recessione più profonda e più lunga.

Un futuro sempre più cupo per la monarchia saudita
Se non ci limitiamo a guardare a lunedì, vediamo che quanto scritto appena sopra è molto più che un’ipotesi. Il prezzo del petrolio è previsto a livelli molto bassi per tutto l’anno in corso. Cosa comporta? Dei produttori americani abbiamo già detto. Alcune compagnie hanno già dichiarato bancarotta: se dovessimo assistere a fallimenti generalizzati, questi avrebbero conseguenze sulle banche che vedrebbero andare in fumo i soldi prestati; assisteremmo a licenziamenti di massa tra gli operai e impiegati di quelle compagnie, con tutto ciò che questo comporta sulle condizioni di vita e di salute di milioni di proletari americani. La mancanza di un sistema sanitario pubblico negli Usa impedisce a chi è senza lavoro di potersi curare, quindi è certo che i casi di persone infettate dal Covid 19 aumenteranno esponenzialmente.
Ma anche le grandi compagnie petrolifere tradizionali rischiano di essere colpite duramente da questa corsa al ribasso del prezzo del petrolio. Sotto una certa soglia, le multinazionali bloccano le estrazioni di greggio e la sua raffinazione, oltre a bloccare investimenti futuri, anche qui innescando una spirale di fallimenti, licenziamenti, crediti inesigibili per le banche, destinate a fallire a loro volta.
Quelli che sono più a rischio, però, potrebbero essere quei regimi che sulla rendita petrolifera hanno per decenni fondato le loro fortune. Tra questi regimi quello che rischia maggiormente è quello che, paradossalmente, potrebbe sembrare il più sicuro e stabile date le enormi ricchezze accumulate e le riserve di greggio di ottima qualità e a basso costo di estrazione, di cui dispone: l’Arabia Saudita. Fra tutti i produttori, quello di Riad appare il più in grado di sostenere prezzi bassi. Il costo di produzione al barile è di molto inferiore ai 10 dollari: quindi, secondo quanto si prevede circa la dinamica dei prezzi per il 2020, dalle parti della penisola araba dovrebbero fare sonni tranquilli.
In realtà le cose sono più complicate. Il dipendere così fortemente dal petrolio (87% delle entrate del bilancio statale e oltre il 40% del Pil) rende il Paese molto sensibile a ogni fluttuazione del prezzo del petrolio.
In un articolo apparso il 12 marzo sul sito linkiesta.it dal titolo “Forza e debolezza dei petro-stati”,(1) l’autore Giorgio Arfaras scrive che il bilancio statale dell’Arabia saudita è sostenibile con un prezzo pari a 80 dollari al barile. Come mai? L’Arabia destina circa il 10% del proprio Pil alle spese militari. La famiglia reale saudita è composta da migliaia di membri che saccheggiano le finanze pubbliche. È tra le più corrotte al mondo e, nonostante i suoi membri siano i custodi dei luoghi santi dell’Islam, il loro comportamento è ben lontano dal seguire gli insegnamenti del Profeta. Per ovviare a ciò e garantirsi la benevolenza delle gerarchie wahabite, elargiscono loro copiosi finanziamenti sempre a spese delle casse statali. La popolazione, che vive in uno stato dittatoriale tra i più brutali al mondo, specialmente per quanto riguarda l’oppressione femminile, è tenuta a bada, sempre più a fatica, con un misto di terrore e sovvenzioni elargite in modo paternalistico. La stragrande maggioranza della manodopera del settore petrolifero è composta da milioni di proletari filippini, pakistani, indiani, bengalesi, costretti a vivere in condizioni bestiali senza alcun diritto politico e sindacale, come veri e propri schiavi dei giorni nostri. È, come si può vedere, un equilibrio molto precario. Le spese militari non possono essere ridotte,(2) considerando che servono a fare i profitti di buona parte dell’imperialismo mondiale, Usa in testa, e che nonostante dispongano di armi all’avanguardia i militari di Riad non sono riusciti a sconfiggere i ribelli Houthi in Yemen, sostenuti dal loro rivale regionale, l’Iran.  Non possono ridurre le spese parassitarie della corte né i finanziamenti ai religiosi che garantiscono loro il controllo sulle masse dei fedeli. Colpiranno certamente i sussidi ai cittadini e probabilmente licenzieranno ed espelleranno i lavoratori immigrati.
L’esperienza delle rivoluzioni arabe del 2010-2011 ci dimostra però che masse ridotte alla fame, che non hanno più nulla da perdere, possono non accettare più il loro magro destino come qualcosa contro cui non è possibile opporsi, ma anzi violenze e soprusi subiti per decenni in silenzio possono trasformarsi in rivolte, rivoluzioni in maniera improvvisa.
Nell’articolo apparso sul nostro sito firmato dai compagni Edu Almeida e Josè Welmowicki si dice che a causa della crisi è probabile che «la radicalizzazione di lavoratori e giovani aumenterà molto. Le crisi dei governi e regimi cresceranno». È molto probabile che la penisola araba sia uno dei primi teatri di queste convulsioni politiche e sociali, destinate a estendersi a tutto il mondo.

La lezione per i rivoluzionari
Per concludere, la giornata di lunedì ci insegna molte cose. Chi illude che la globalizzazione capitalista sia in grado di garantire stabilità economica e sociale, si sbaglia. Chi crede che l’accordo tra Usa, Russia e Arabia saudita possa regolare se non tutta l’economia, almeno una sua parte importante, si sbaglia. Le leggi del mercato, della concorrenza, di un sistema assetato di profitto si fanno beffe dei proclami di presidenti, re, autocrati.
Un sistema che non è in grado di controllare e pianificare la produzione della sua materia prima più importante, non diciamo per anni ma nemmeno per poche settimane, è un sistema che non ha più nulla da fare, nonostante decine di migliaia di suoi cantori prezzolati cerchino ogni giorno di tesserne le lodi.
È ora che il proletariato mondiale, la sola classe in grado di produrre ricchezza, prenda nelle sue mani il futuro del mondo e organizzi la società in modo che crisi economiche, guerre e pandemie siano eventi da relegare nei libri di storia.
La parola passa alla lotta di classe, ancora una volta, e al suo sviluppo potenzialmente vincitore, la rivoluzione: se i lavoratori e le masse sapranno costruire lo strumento indispensabile: il partito operaio, rivoluzionario, internazionale.

Note
1) “Forza e debolezza dei petro-stati. Ecco perché la Russia si è opposta al taglio della produzione di petrolio”, G. Arfaras, Linkiesta.it, 12 marzo 2020.
2) Per i dati economici dell’Arabia Saudita vedi CIA World factbook.

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