RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE A CUBA
Martín Hernández
All’interno
della LIT, da alcuni anni stiamo studiando la situazione cubana e discutendo
sul carattere di quello Stato, così come sul programma che ne discenderebbe. La
LIT non ha ancora assunto una posizione definitiva (lo farà nel suo prossimo
Congresso Mondiale convocato per il 2011); tuttavia, diverse sue organizzazioni
e vari dirigenti (tra cui l’autore di questo lavoro) si sono decisamente
pronunciati attraverso interventi orali e/o scritti, sostenendo che a Cuba,
come nel resto degli ex Stati operai, il capitalismo è già stato restaurato.
Quest’
affermazione non significa mettere sullo stesso piano Cuba e il resto dei Paesi
latinoamericani, poiché in questo Paese, nonostante la restaurazione del
capitalismo, essendosi verificata una rivoluzione socialista trionfante
(l’unica in tutto il continente), sopravvivono una serie di conquiste sociali
che non esistono negli altri Paesi.
Tuttavia,
non è questa la differenza fondamentale tra Cuba e il resto di quei Paesi. La
differenza fondamentale è che, nel resto dei Paesi della regione, le masse
hanno abbattuto diverse dittature e, benché la classe operaia e il popolo non
siano riusciti a prendere il potere, hanno conquistato importanti libertà
democratiche. A Cuba, al contrario, dopo la restaurazione del capitalismo,
esiste sì una dittatura, ma non una dittatura del proletariato contro la
borghesia come in precedenza, bensì una dittatura capitalista, contro la classe
operaia e il popolo.
Per
quale ragione è questa la differenza fondamentale col resto dei Paesi e non le
conquiste sociali ancora esistenti? Perché queste, sotto il capitalismo, si
perderanno inevitabilmente. In realtà già si stanno perdendo, come dimostra,
tra l’altro, il fatto che il pieno impiego non esiste più. Di fronte a questa
realtà, in cui le conquiste della rivoluzione si perderanno, alla fine i
lavoratori si vedranno costretti a scendere in lotta per difenderle ma, quando
tenteranno di farlo, si troveranno di fronte ad una triste realtà: essi non
avranno neanche le più piccole libertà per organizzare quella lotta. Perché, a
differenza dei loro fratelli del resto del continente, non avranno diritto ad
organizzare uno sciopero né un sindacato libero dalla tutela dello Stato
(neanche un’associazione di lavoratori), né un partito politico diverso da
quello al governo, né avranno diritto a pubblicare un giornale o a realizzare
una manifestazione contro il governo.
Qual
è, allora, il compito principale che si pone alla classe operaia e al popolo
cubani?
Lo
stesso che si pose in altra epoca negli altri Paesi della regione: rovesciare
questa dittatura per conquistare le più ampie libertà democratiche e progredire
in direzione di una nuova rivoluzione socialista trionfante che, come quella
del 1959, espropri la borghesia, nazionale ed internazionale.
Questa
è, in sintesi, la posizione del settore della LIT cui ci riferivamo in
precedenza.
Ma
questa posizione ha provocato una furiosa reazione da parte di un’infinità di
dirigenti e organizzazioni di sinistra, specialmente dei partiti stalinisti o
di quelle organizzazioni che hanno origine da quei partiti. Per esempio, in
Brasile, nell’aprile di quest’ anno, il Comitato Centrale del Partito Comunista
Brasiliano, ha pubblicato una dichiarazione intitolata “La mano sinistra della
destra”, nella quale, tra l’altro, segnala: “(…) questa internazionale di
facciata (la Lit-Ci) si associa all’imperialismo per combattere la Rivoluzione
Socialista Cubana (…) i suoi pronunciamenti sono al servizio dell’imperialismo
(…) qualificare la Rivoluzione Cubana come ‘dittatura capitalista significa
fare il gioco della controrivoluzione”.
D’altra
parte, una serie d’organizzazioni sedicenti trotskiste, ma che a loro volta
sono sostenitrici dei governi di Cuba e del Venezuela, portano avanti, (come
non poteva essere altrimenti?) lo stesso tipo d’attacco dei partiti comunisti
ma, di solito, con maggiore veemenza.
Ma,
forse, la cosa più curiosa è che esistono altre organizzazioni che non sono
castriste, come nel caso del Nuovo Mas e del Pts dell’Argentina, che anch’esse
ci attaccano duramente con epiteti molto simili a quelli delle correnti
staliniste.
Diciamo
che è curioso perché queste correnti non solo sostengono che il capitalismo è
stato restaurato praticamente in tutti gli ex Stati operai, ma pensano che la
direzione castrista vuole la restaurazione del capitalismo a Cuba. Allora non
si capisce perché ci attaccano così furiosamente. Perché se essi fossero
realmente convinti che la direzione cubana vuole la restaurazione del
capitalismo, cosa ci sarebbe di strano che quella stessa direzione, come quelle
degli altri Stati operai, abbia raggiunto il suo obiettivo?
Prima
di finire quest’introduzione si rende necessario un chiarimento sul titolo di
quest’ articolo: “Rivoluzione e controrivoluzione a Cuba”.
Da
quando León Trotsky scrisse il suo famoso lavoro, “Rivoluzione e
controrivoluzione in Germania”, vari autori si sono ispirati a quel titolo per
riferirsi ad altri Paesi: “Rivoluzione e controrivoluzione in Spagna” (Félix
Morrow); “Rivoluzione e controrivoluzione in Argentina” (Abelardo Ramos);
“Rivoluzione e controrivoluzione in Catalogna” (Jorge Semprun).
La
nostra corrente non è stata estranea a questa tradizione. Così, Nahuel Moreno,
nel 1975, scrisse un esteso lavoro intitolato “Rivoluzione e controrivoluzione
in Portogallo”.
Questo
reiterato “plagio” su Trotsky ci ha fatto dubitare della convenienza di usare
lo stesso titolo per un lavoro su Cuba ma, alla fine, dopo avere letto la
menzionata dichiarazione del Partito Comunista Brasiliano, c’è sembrato che
difficilmente potevamo trovare un titolo più appropriato per affrontare
l’attuale problematica cubana.
La
dichiarazione del Pcb non offre un solo argomento per dimostrare che a Cuba non
è stato restaurato il capitalismo. Al contrario, seguendo fedelmente la vecchia
e ripugnante tradizione dello stalinismo, risponde a noi – che invece questi
argomenti li forniamo per dimostrare ciò che sosteniamo – accusandoci d’essere
agenti dell’imperialismo. Tuttavia, vogliamo sottolineare qualcosa di positivo
nella dichiarazione del Pcb. Essa comincia con la seguente frase: “Difendere la
Rivoluzione Cubana è una questione di principio”. Senza dubbio, una bella
frase, che ogni rivoluzionario dovrebbe sostenere. Ma, nell’attuale situazione
cubana, è necessario riempire di contenuto questa frase, perché si tenta di
rispondere alla domanda: dov’è la rivoluzione e dove la controrivoluzione a
Cuba? Questa è la grande discussione e, in questo senso, benché la
dichiarazione del Pcb dia una risposta opposta alla nostra, essa ha il merito
di entrare nel dibattito su questo tema, che ha finito per ispirare il nostro
titolo.
L’importanza di questo dibattito
Crediamo
che questo dibattito su Cuba, oltre ad essere importante, può finire per essere
decisivo per il presente e il futuro dell’insieme delle organizzazioni di
sinistra, specialmente dell’America Latina.
Esiste
una tradizione nella sinistra, a livello mondiale, per ciò che riguarda la
posizione di fronte alle dittature. Salvo rare eccezioni (come nel caso del
Partito Comunista d’Argentina che appoggiò il dittatore Videla, o il governo
cinese che appoggiò la dittatura di Pinochet), di norma la sinistra è stata
contro le dittature capitaliste e ha lottato, in un modo o in un altro, per il
loro rovesciamento
Tuttavia,
questa vecchia e buona tradizione della sinistra può essere giunta alla fine.
Se
è corretto ciò che noi affermiamo – in altri termini, che a Cuba, da tempo, il
capitalismo è stato restaurato e che non esiste un regime democratico borghese
ma, come in Cina, una dittatura che si basa sul Partito Comunista e sulle Forze
armate, e che a Cuba non esistono le minime libertà democratiche, e cioè se è
corretto che Cuba è attualmente una delle poche residue dittature capitaliste a
livello mondiale e praticamente l’unica che resta in America Latina – la
posizione della sinistra, di fronte a questa dittatura, non è una questione di
dettaglio.
La
sinistra che appoggia il governo cubano fino ad ora è relativamente tranquilla
perché, per sua fortuna, i lavoratori cubani non hanno ancora manifestato
pubblicamente il loro scontento rispetto alle misure di restaurazione del
governo. Tuttavia, è il governo a non sembrare tanto tranquillo. Ciò spiega
perché Raúl Castro abbia partecipato, il 31 ottobre scorso, al Plenum Ampliato
del Consiglio Nazionale della Ctc (Confederazione dei Lavoratori Cubani) per
chiedere ai dirigenti sindacali che spieghino alle loro basi la bontà delle
nuove riforme economiche.
Raúl
ha affermato che “Cuba va verso il baratro” se non saranno applicate quelle
riforme economiche (tra cui il licenziamento di un milione di lavoratori dello
Stato) e, a partire da ciò, ha rivolto loro il seguente appello: “Spetta a voi,
dal Segretariato della Ctc fino al più modesto dirigente, svolgere lo stesso
ruolo all’epoca giocato da Lázaro Peña che, con saggezza ed esperienza, chiese
nello storico XIII Congresso della Ctc, nel 1973, di rinunciare a conquiste
strappate alla borghesia, poiché la situazione era cambiata e gli operai erano
proprietari dei mezzi di produzione. Per esempio, propose di abrogare una legge
che, piena di buone intenzioni, ma scorretta e pertanto insostenibile dal punto
di vista economico, pagava il 100% del salario a chi fosse andato in pensione
dopo una condotta esemplare nella sua vita lavorativa”.
Potranno
i fratelli Castro, e i dirigenti della centrale sindacale statale, convincere i
lavoratori che devono lasciare da parte le conquiste strappate alla borghesia?
Potranno convincere i lavoratori che non devono difendere i loro posti di
lavoro? Potranno convincerli dell’importanza di aumentare notevolmente il
prezzo della luce? Potranno convincere il milione di nuovi disoccupati che è
possibile trasformarsi in prosperi commercianti, lavorando per conto proprio come
parrucchieri, sarti o giardinieri?
Può
essere che ci riescano, dato che per il suo passato la direzione castrista ha
ancora molto prestigio, ma può anche darsi il contrario e che a Cuba, come
accadde nella maggioranza degli altri ex Stati operai, i lavoratori e il popolo
si sollevino contro le conseguenze delle misure della restaurazione e comincino
a mobilitarsi, a fare scioperi, ad organizzare commissioni di lotta, nuovi
sindacati e, perfino, a ricorrere alla violenza per difendere i loro diritti. E
se sorge un movimento da questo tipo, come è molto probabile che succeda, da
che lato si collocherà la sinistra che oggi appoggia il governo cubano?
Si
collocherà dalla parte dei lavoratori o sosterrà il governo che espropriò la
borghesia nel passato ma che oggi sta restaurando il capitalismo?
Tutto
indica che quella “sinistra” continuerà a sostenere il governo (probabilmente
utilizzando l’argomento che quel movimento dei lavoratori è controllato dalla
Cia e dai gusanos). Ma appoggiare e/o sostentare una dittatura di questo
tipo, specialmente in America Latina dove le masse hanno una lunga tradizione
di lotta antidittatoriale, inevitabilmente porterà le organizzazioni che lo
faranno a cambiare il loro carattere convertendosi, oggettivamente, in
organizzazioni di destra, o direttamente a sparire.
Questo
pronostico può sembrare esagerato, ma sarebbe bene ricordare ciò che accadde
con le organizzazioni filosovietiche o maoiste che sostennero fino all’ultimo
l’ex Urss, la Germania Orientale o la Cina, quando in quei Paesi era già stato
restaurato il capitalismo e le masse erano insorte contro le dittature
“comuniste”. La maggioranza di quelle organizzazioni che dirigevano o
codirigevano la classe operaia dei loro Paesi e avevano influenza di massa,
oggi non esistono più, sono ridotte a piccoli gruppi oppure si sono trasformati
in partiti borghesi.
Perché abbiamo ritardato tanto nel dare conto che nell’ex Urss, nell’Est europeo e in Cina il capitalismo era stato restaurato?
Benché
sia nostra opinione che è da parecchio tempo che il capitalismo è stato
restaurato a Cuba, solo in quest’ultimo anno il relativo dibattito, a livello
della sinistra, sta prendendo piede.
Non
costituisce una novità che sorgano questo tipo di dubbi e polemiche. La stessa
cosa si verificò con la restaurazione negli altri Stati operai.
Per
esempio, non c’è oggigiorno nessun settore della sinistra minimamente seria che
non riconosca che il capitalismo è stato restaurato nell’ex Urss, nel resto
dell’Est europeo e in Cina. Tuttavia, è stato necessario il trascorrere di
molti anni perché la maggioranza della sinistra cominciasse a domandarsi se il
capitalismo era stato restaurato o no, e molti più anni perché si riconoscesse
che ciò era accaduto.
Per
esempio, il capitalismo fu restaurato nell’ex Urss a partire dall’anno 1986;
tuttavia, il gran dibattito nella sinistra sull’esistenza di questo fatto
cominciò quattro o cinque anni dopo, ed il riconoscimento della restaurazione,
per la maggioranza della sinistra, si produsse solo agli inizi del nuovo secolo,
cioè, 14 anni dopo il suo verificarsi.
Con
la Cina, il disorientamento fu ancora più grande. La restaurazione iniziò
nell’anno 1978 e solo da poco è stata riconosciuta dalla maggioranza della
sinistra, cioè praticamente 30 anni dopo.
C’è
una serie di fattori per spiegare questa generalizzata incomprensione su ciò
che era successo negli Stati operai burocratizzati, ma il fattore fondamentale
ha a che vedere con la forma in cui si è prodotta la restaurazione.
Se
durante la Seconda Guerra Mondiale le truppe di Hitler avessero sconfitto
l’Unione Sovietica, avrebbero restaurato il capitalismo. Se questo fosse
accaduto, la sinistra non avrebbe avuto il minimo dubbio che il capitalismo
fosse stato restaurato nell’esatto momento in cui questo fatto si verificava.
Ma
non fu così che si restaurò il capitalismo negli ex Stati operai. Non furono
settori della borghesia internazionale, né gli antichi borghesi nazionali a
portare avanti quel compito. Essi ne furono i grandi beneficiari, ma a
restaurare il capitalismo furono i dirigenti dei Partiti comunisti che erano al
potere in quegli Stati e ciò creò una grande confusione, fondamentalmente
perché questi partiti restaurarono il capitalismo in nome del socialismo e,
soprattutto, attaccando lo stesso capitalismo. Per esempio, Gorbaciov, il padre
della restaurazione del capitalismo nell’ex Urss, diceva nel 1987 (un anno dopo
che era iniziata la restaurazione nel suo Paese): “Secondo una certa opinione,
per esempio, dovremmo desistere dall’economia pianificata e sancire la
disoccupazione. Ma non possiamo permetterlo, dato che il nostro obiettivo è
rafforzare il socialismo e non sostituirlo con un sistema diverso. Ciò che
l’Occidente ci offre, in termini di economia, è inaccettabile per noi (…).
Questa
doppia faccia dei burocrati dei partiti comunisti al potere può sembrare
sorprendente per il loro grado d’ipocrisia ma, in realtà, essa non deve
sorprendere perché ha a che fare con la stessa natura sociale d’ogni
burocrazia. Né la borghesia né la classe operaia hanno motivi per occultare i
loro propositi, ma la burocrazia, non essendo una classe sociale bensì un
parassita della classe operaia, li ha eccome. Dunque, come diceva Trotsky:
“Essa nasconde le sue entrate. Dissimula o finge di non esistere come gruppo
sociale” (L. Trotsky, La Rivoluzione Tradita, p. 248).
Per
esempio, un operaio non nasconde di voler guadagnare uno stipendio maggiore e
lotta apertamente per questo. Un padrone non nasconde – né ha bisogno di farlo
– che vuole aumentare i profitti della sua impresa e, al contrario, quando ci
riesce lo rende pubblico.
Col
burocrate succede il contrario. Egli lotta con tutte le sue forze per mantenere
ed ampliare i suoi privilegi, ma non può dirlo apertamente perché quei
privilegi sorgono dall’usurpazione che egli fa del lavoro degli operai e delle
briciole che riceve dai padroni e dello Stato. Perciò, per mantenere ed
ampliare i suoi privilegi deve sempre occultare le sue vere intenzioni.
Le
burocrazie al governo di quegli Stati in cui il capitalismo è stato restaurato
non potevano informare dei loro piani i lavoratori e il popolo. Non potevano
dire loro che stavano restaurando il capitalismo e che con ciò sarebbero finiti
il pieno impiego, la salute e l’istruzione pubbliche e, ancor meno, potevano
dire che il loro obiettivo era trasformarsi in nuovi borghesi per sfruttare
quegli stessi lavoratori. Quelle burocrazie governanti restaurarono il
capitalismo dicendo tutto il contrario. Così, ogni volta che prendevano una
nuova misura per smontare l’antico Stato operaio, affermavano che era per
rafforzare il socialismo e, quando non potevano occultare il carattere
filocapitalista di una determinata misura, affermavano che s’ispiravano a
Lenin, che analogamente, con la Nep, aveva fatto concessioni al capitalismo.
Alexandr Yakovlev, un importante intellettuale e dirigente del Pc russo, che fu
il principale consulente di Gorbaciov e ideatore della Perestrojka, confessò:
“Se oggigiorno continuiamo a citare a Lenin è per avere una certa credibilità
davanti all’opinione pubblica”.
Ma
a questa confusione, provocata dal ruolo sinistro delle burocrazie governanti,
si è aggiunto un altro problema. La restaurazione del capitalismo è stato un
fatto inedito nella storia dell’umanità, che noialtri appartenenti alle nuove
generazioni di marxisti abbiamo dovuto cercare di decifrare. Ciononostante,
nessuno sapeva in anticipo quali sarebbero state le caratteristiche centrali di
quel processo. In generale c’era l’idea che si poteva parlare di restaurazione
del capitalismo solo quando il grosso dei mezzi di produzione e di scambio
(fabbriche, banche e terre) avesse cessato di appartenere allo Stato passando
in mani private, e quando il grosso dei lavoratori fosse stato salariato di
quelle imprese private. Tuttavia, in nessuno degli ex Stati operai, dopo che si
verificò la restaurazione, sopravvenne la privatizzazione generalizzata delle
imprese statali, delle terre, delle banche e neanche delle abitazioni. Per
esempio, in Russia, nel 1989 (tre anni dopo la restaurazione del capitalismo)
esistevano solo 10.000 abitazioni private in tutto il Paese, e nel 1992 (sei
anni dopo la restaurazione) delle oltre 200.000 imprese esistenti solo 1.352
(piccole in maggioranza) erano state privatizzate. Questi numeri ci confusero
completamente, sicché, nei primi anni della restaurazione, analizzando le
statistiche, giungevamo alla conclusione che non c’era stata restaurazione o
che quel processo era impantanato. In realtà, nessuno prese in considerazione
quanto previsto da Trotsky rispetto a come sarebbe stata la restaurazione del
capitalismo nei suoi primi anni. Egli affermava che, se la restaurazione si
fosse prodotta, ciò si sarebbe verificato, nei primi anni, nel quadro della
proprietà statalizzata, come in realtà effettivamente accadde.
Ma
oltre a questi fattori, che crearono confusione e all’epoca ci impedirono di
vedere che le burocrazie governanti di quegli Stati avevano restaurato il
capitalismo, ci furono altri due fattori, benché diversi, per quel che concerne
le correnti politiche. Quelle che facevano riferimento ai Paesi dell’Est,
all’Urss o alla Cina, resistettero fino all’ultimo prima di riconoscere la
restaurazione del capitalismo, perché farlo significava accettare che essi
avevano tradito tutte le rivoluzioni, che equivaleva ad accettare che,
storicamente, il trotskismo aveva ragione.
Tuttavia,
contraddittoriamente, anche la maggioranza delle organizzazioni trotskiste
resistettero a riconoscere che la restaurazione aveva trionfato. Alcune per la
pesante influenza dello stalinismo ed altre, la maggioranza, perché, invece di
analizzare la realtà così com’era, la analizzavano a partire da uno dei
pronostici di Trotsky (quello secondo cui la restaurazione si sarebbe potuta
imporre soltanto attraverso una controrivoluzione sanguinosa), tralasciando
invece quello fondamentale, secondo cui se la burocrazia fosse rimasta alla
testa dell’Urss la restaurazione sarebbe stata inevitabile.
La restaurazione del capitalismo: un processo internazionale al quale nessuno Stato operaio burocratizzato poté, né poteva, sfuggire
Come
dicevamo in precedenza, l’ampia maggioranza della sinistra ha fatto resistenza
ad accettare l’idea che il capitalismo era stato restaurato negli ex Stati
operai.
Si
accettava che il capitalismo era stato restaurato in Germania Orientale (dopo
l’unificazione con la Germania Occidentale) ma non nel resto dell’Est europeo.
In seguito, quando non fu possibile negare che anche lì si era imposta la
restaurazione, si diceva che però ciò non si era verificato nell’ex Urss. E
quando si accettò che anche nell’ex Urss aveva trionfato la restaurazione, la
Cina e Cuba furono innalzate a “bastioni dal socialismo”.
Questa
idea, diffusa nella sinistra, che in un determinato Paese si sarebbe potuto
restaurare il capitalismo mentre in altri no, mostra un’incomprensione su ciò
che è stato questo processo.
Non
si è capito, in altri termini, che, per il carattere dell’economia mondiale e,
fondamentalmente, per il carattere di quegli Stati, essi non hanno avuto,
specialmente i più deboli, altra alternativa se non andare verso il
capitalismo: e questa che fu una tendenza per diversi anni, si trasformò in
un’imposizione a partire dal trionfo della restaurazione nell’ex Urss.
Per
comprendere in termini teorici questo processo, è necessario risalire ad una
polemica che si sviluppò a partire dal 1924 nell’ex Urss.
I
marxisti avevano previsto che, con lo sviluppo del capitalismo, si sarebbero
sviluppate anche le sue stesse contraddizioni, a partire dalle quali sarebbe
giunto un momento in cui il sistema capitalista avrebbe ostacolato, in forma
assoluta, lo sviluppo delle forze produttive. Quando ciò fosse accaduto, si
sarebbe posto il superamento del regime capitalista attraverso il comunismo, un
regime in cui non ci sarebbero stati sfruttatori né sfruttati e nel quale tutti
i suoi componenti avrebbero ricevuto secondo i propri bisogni e apportato
secondo le proprie possibilità, ciò che avrebbe consentito lo sviluppo infinito
delle forze produttive. Ma i marxisti avevano anche previsto che non si sarebbe
potuti passare, in maniera immediata, dal capitalismo al comunismo. Che sarebbe
stato necessario passare attraverso una fase intermedia che Marx denominò
“prima fase del comunismo”, e che successivamente fu definita “socialista”.
Questa prima fase del comunismo darebbe origine ad una società che, sin dalla
sua nascita, sarebbe superiore, dal punto di vista economico e culturale, alle
più avanzate delle società capitaliste.
Partendo
da questa visione, la direzione del Partito Bolscevico – che aveva diretto la
presa del potere per gli operai – non aveva mai ritenuto che la sua rivoluzione
fosse un obiettivo in sé. Al contrario, essendo consapevole che quella
rivoluzione (che, contro le previsioni di Marx era stata realizzata in un Paese
enormemente arretrato) non avrebbe potuto trionfare se non si fosse estesa a
livello mondiale, soprattutto ai Paesi più avanzati, la consideravano solo come
una leva per la rivoluzione mondiale. Ciò spiega perché, dopo la presa del
potere e nel pieno della guerra civile, il compito centrale di quella direzione
sia stato la costruzione della III Internazionale, il partito mondiale della
rivoluzione.
Questa
posizione del Partito Bolscevico non era prodotta di un internazionalismo
astratto o da un’attitudine morale. Aveva a che vedere con una comprensione
profonda del carattere dell’economia mondiale e dell’impossibilità di arrivare
al socialismo a livello nazionale, specialmente in Russia, un Paese popolato in
maggioranza da contadini analfabeti.
Questa
era, come dicevamo in precedenza, la visione di tutta la direzione del Partito
Bolscevico. Per esempio, pochi mesi dopo la morte di Lenin, nell’aprile del
1924, Stalin scrisse: “Bastano gli sforzi di un Paese per abbattere la
borghesia, questo è l’insegnamento della storia della nostra rivoluzione. Ma
per la vittoria definitiva del socialismo, per l’organizzazione della
produzione socialista, gli sforzi di un solo Paese, soprattutto se rurale come
il nostro, sono insufficienti; occorrono gli sforzi riuniti dei proletariati di
vari Paesi avanzati”.
Tuttavia,
questa visione sul carattere della rivoluzione e sul ruolo dell’Urss sul piano
internazionale cominciò ad essere messa in discussione da Stalin pochi mesi
dopo avere scritto questo testo.
A
partire dalle sconfitte del proletariato europeo e dai primi successi dell’economia
sovietica, Stalin cominciò a difendere la sua famosa teoria del “socialismo in
un Paese solo”. Questa teoria, come segnalato da Trotsky, esprimeva l’inizio
della degenerazione della III Internazionale.
La
nuova teoria di Stalin affermava che l’Urss sarebbe potuta arrivare al
socialismo, cioè avrebbe potuto costruire una società più avanzata dei Paesi
più avanzati del capitalismo, prescindendo dalla rivoluzione mondiale.
Questa
elaborazione teorica di Stalin, che negava tutta la tradizione del marxismo,
diede origine ad una dura polemica con l’Opposizione di Sinistra diretta da
León Trotsky.
Nel
1926 l’Opposizione di Sinistra presentò un testo in un’assemblea plenaria del
Comitato Centrale del Partito Bolscevico che diceva: “Sarebbe radicalmente sbagliato
credere che si possa avanzare verso il socialismo ad un ritmo arbitrariamente
deciso quando ci troviamo accerchiati dal capitalismo. La marcia verso il
socialismo sarà garantita solo se la distanza che separa la nostra industria da
quella capitalista avanzata diminuisce manifestamente e concretamente invece di
aumentare”. In quel Comitato Centrale, Stalin ottenne che si votasse contro le
proposte dell’Opposizione col seguente argomento: “Chi vuole introdurre qui il
fattore internazionale non comprende neanche come si formula il problema e
confonde tutte le nozioni, sia per incomprensione o per un desiderio cosciente
di seminare la confusione”.
Negli
anni ’30 questo dibattito riprese forza. Stalin, analizzando la crescita
dell’economia dell’Urss, affermava che questa era già arrivata al socialismo e
marciava verso il comunismo.
Sebbene
Stalin si sbagliasse nell’affermare che l’Urss era già socialista, dato che dal
punto di vista economico e culturale in realtà era molto lontana dal
raggiungere i Paesi capitalisti più avanzati, non si sbagliava evidenziando la
spettacolare crescita dell’economia sovietica: la quale era tanto importante
che Trotsky, dopo avere analizzato le statistiche economiche, nel suo libro La
Rivoluzione Tradita, segnalava: “Ancora nel caso in cui l’Urss, per colpa
dei suoi dirigenti, soccombesse ai colpi dall’esterno rimarrebbe, come pegno
futuro, il fatto incontestabile che la rivoluzione proletaria è stata l’unica
cosa che abbia permesso ad un Paese arretrato di ottenere in meno di vent’anni
risultati senza precedenti nella storia …”.
Tuttavia,
in quello stesso libro, Trotsky evidenziava che era necessario osservare che
l’economia sovietica cresceva molto, ma partendo da livelli molto bassi; e che
quella crescita spettacolare, provocata dall’espropriazione della borghesia,
non si sarebbe mantenuta indefinitamente, poiché il dominio dell’economia
mondiale da parte del capitale imperialista lo avrebbe impedito. Anzi,
segnalava: “Quanto più tempo l’Urss resterà circondata dal capitalismo, tanto
più profonda sarà la degenerazione dei suoi tessuti sociali. Un isolamento
indefinito dovrebbe portare inevitabilmente, non all’instaurazione di un
comunismo nazionale, bensì alla restaurazione del capitalismo (…). La classe
operaia dovrà, nella sua lotta per il socialismo, espropriare la burocrazia e
sulla sua tomba potrebbe collocare quest’epitaffio: “Qui giace la teoria del
socialismo in un Paese solo”.
Com’è
noto, nonostante i suoi vari tentativi, in Germania Orientale, in Ungheria, in
Cecoslovacchia, in Polonia, la classe operaia non poté espropriare la
burocrazia e Stalin con i suoi seguaci, attraverso un vero genocidio ai danni
dei rivoluzionari e dei combattenti operai, si consolidarono. Questo, come
previde Trotsky, determinò che quelli che erano Stati in transizione verso il
socialismo si trasformarono in Stati in transizione verso il capitalismo.
Dopo
la guerra civile, sotto la direzione della burocrazia stalinista, l’economia
russa, in funzione dell’espropriazione della borghesia, ebbe una crescita
spettacolare, ma questo risultato, nella misura in cui non trionfava la
rivoluzione nei Paesi più avanzati, non si consolidò in permanenza.
Dopo
la Seconda Guerra Mondiale, con l’espropriazione della borghesia nell’Est
europeo e col trionfo della Rivoluzione cinese, l’Urss ruppe in parte il suo
isolamento dal punto di vista economico, il che le permise, anche senza portare
avanti la rivoluzione a livello mondiale, una sopravvivenza maggiore di quanto
potesse sperare.
Tuttavia,
già negli inizi degli anni ’50 apparvero vari sintomi di una crisi importante,
non solo nell’Urss bensì nell’insieme degli Stati operai. Alla fine degli anni
’50 si sviluppò in tutti quei Paesi una discussione sulla necessità di
apportare importanti cambiamenti, poiché all’epoca, sebbene tutte le loro
economie continuassero a crescere, già si avvertivano segnali di un’importante
diminuzione della crescita.
Agli inizi degli anni ’60, la situazione diventò ancor più
critica e le autorità si videro obbligate a fare importanti riforme che furono
applicate in tutto l’Est europeo tra il 1963 e il 1968.
Una parte importante di quelle riforme, per cercare di
uscire dalla crisi incipiente, supponeva la necessaria relazione commerciale
con i Paesi più avanzati del mondo. Queste relazioni si svilupparono
grandemente, al punto che quella fase fu conosciuta come “L’Età dell’Oro del
Commercio Est‑Ovest”. Ma in nessuno di
quei Paesi, a causa della politica di Stalin, aveva trionfato la rivoluzione e
ciò fece sì che il commercio con essi fosse completamente disuguale, tanto che
l’
importazione di tecnologia occidentale finì per squilibrarne la bilancia
commerciale nel contempo determinando le condizioni perché, alla fine degli
anni ’60, l’insieme delle economie vivesse una situazione critica.
Per uscire dalla crisi, le
burocrazie governanti avevano una sola via d’uscita strategica: riprendere la
lotta dei bolscevichi per la rivoluzione mondiale, strada che, però, non erano
disposti a seguire. Peggio ancora, per difendere i loro interessi nazionali, le
burocrazie si mostravano sempre più incapaci di stringere relazioni tra i
differenti Stati operai, al punto tale che, col passare del tempo, si creavano
non solo attriti ma anche guerre tra questi Stati.
In questo quadro, il passo
successivo delle burocrazie governanti fu, ancora una volta, ricorrere
all’imperialismo, questa volta alla ricerca di prestiti a basso costo, che,
infatti, ottennero; ma, ancora una volta, a causa del dominio dell’imperialismo
sull’economia mondiale, quei prestiti a buon mercato divennero costosi e gli ex
Stati operai rimasero prigionieri di un debito estero che, come il debito
estero delle colonie e semicolonie, diventò impagabile. In questo modo,
l’insieme degli ex Stati operai marciava verso l’abisso.
Di tutti gli Stati operai, l’Urss,
grazie alla sua economia più sviluppata e per essere un grande produttore di
petrolio e gas, fu la meno colpita dalla crisi; tuttavia, anche così, i numeri
mostravano una situazione disperata. Tra il 1971 e il 1985, il tasso di
crescita diminuì di due volte e mezza. La burocrazia, senz’altra via d’uscita,
scaricava la crisi che aveva generato sulle spalle dei lavoratori. Così, il
denaro destinato all’istruzione, che nel 1950 rappresentava il 10% del reddito
nazionale, agli inizi degli anni ’80 era solo del 6%; l’aumento del consumo pro
capite che tra il 1966 e il 1970 era stato del 5,1%, divenne nullo agli inizi
degli anni ’80, e ciò che era più tragico, l’aspettativa di vita, che nel 1972
era di 70 anni, dieci anni dopo era caduta a 60 anni.
Fu per rispondere a questa crisi
economica che Gorbaciov – portato alla segreteria generale del Pcus dal
sinistro Kgb – elaborò, nell’anno 1985, il suo piano di restaurazione del
capitalismo. Quel piano fu votato nel XXVII Congresso del Pcus, svoltosi nel febbraio
del 1986. In quel congresso fu votata anche una nuova direzione, composta in
maggioranza dai restauratori (i “rinnovatori”, com’erano conosciuti all’epoca).
A partire da quelle decisioni, settimana dopo settimana e mese dopo mese, la
burocrazia del Pcus smontò pezzo a pezzo quel che rimaneva dell’antico Stato
operaio.
Nell’agosto del 1986 si aprì
l’economia alle imprese straniere. Nel mese di settembre si votò la Legge sulle
Attività Individuali con cui fu legalizzato il lavoro privato; nel giugno del
1987, mediante l’approvazione della Legge delle Imprese di Stato si pose fine
alla pianificazione economica centrale e al monopolio del commercio estero. Nel
maggio del 1988 fu approvata la Legge sulle Cooperative, ciò che rese possibile
che un anno dopo già esistessero 200.000 imprese di questo tipo. Nel dicembre
del 1988 fu approvato un decreto che consentiva la vendita delle case … e
questo processo di restaurazione non si fermò più.
Come si può vedere, la burocrazia
governante dell’Urss non ebbe altra alternativa, di fronte alla crisi economica
senza soluzione, che orientarsi verso il capitalismo. Nel resto dell’Europa
dell’Est, come non poteva essere altrimenti – poiché si trattava d’economie
molto più deboli e più in crisi di quella dell’Urss – accadde esattamente lo
stesso.
Molto si è parlato di due modelli
opposti di restaurazione, quello dell’ex Urss e del resto del Est europeo da
una parte, e quello della Cina dall’altra. È vero che ci sono state diverse
forme d’avanzamento verso la restaurazione. Non solo fra l’Urss e la Cina, ma
anche fra tutti i Paesi tra loro. Ma le differenze sono state di forma e non di
sostanza. Per esempio, normalmente si dice che la principale differenza tra il
modello cinese e quello dell’Urss è che nel primo la restaurazione è stata
portata a termine grazie al controllo assoluto del Partito comunista; tuttavia,
in relazione a questo non c’è differenza di modelli. Nell’Urss e in tutti gli
altri Paesi il modello era lo stesso: restaurare nel quadro del regime di
partito unico dei partiti comunisti, solo che, in questi Paesi, le masse si
sono sollevate e hanno abbattuto quei regimi e ciò ha fatto sì che fosse
interessato tutto il processo di restaurazione, per quel riguarda la sua forma.
Nondimeno, nella sostanza, tutti i
processi di restaurazione sono stati praticamente identici, poiché in tutti
essi è stato necessario smontare la struttura economica degli antichi Stati
operai. Perciò, in tutti i casi, le misure furono dirette a porre fine al
monopolio del commercio estero, all’economia nazionalizzata e alla
pianificazione economica centrale. Anzi, perfino per quel che riguarda problemi
di forma, i processi furono molto simili (le imprese miste con capitale
straniero, le cooperative, le de-nazionalizzazione e/o gli aumenti nei servizi
pubblici, la privatizzazione delle abitazioni, l’inizio della privatizzazione
dell’istruzione e della sanità, la chiusura delle mense pubbliche e/o
l’eliminazione delle tessere annonarie, la privatizzazione della terra o della
produzione agricola, la liberalizzazione graduale delle banche).
Che cos’è accaduto a Cuba?
Gli Stati operai, in funzione degli
interessi della burocrazia, non sono mai stati leve per la rivoluzione
mondiale, ma tutti essi, seguendo Stalin, hanno cercato di costruire il “socialismo
in un paese solo”. Per questo motivo, nessuno di essi è potuto sfuggire ad una
crisi economica senza soluzione e, dunque nessuno di essi, per rispondere a
quella crisi, ha potuto fare altro se non restaurare il capitalismo.
In questo quadro, Cuba non è stata,
né poteva essere, un’eccezione, perché in questo Paese la crisi economica,
strutturale e congiunturale che è stata il motore di tutti i processi di
restaurazione, era molto più profonda che nella maggioranza degli altri Stati.
Molto si è scritto e detto anche, e
a ragione, del salto impressionante fatto da Cuba dopo la rivoluzione,
soprattutto sul terreno dell’istruzione e della sanità, ma la realtà è che
Cuba, dopo la rivoluzione, è continuata ad essere un Paese economicamente molto
arretrato, al punto tale che non ha vissuto un processo d’ industrializzazione
e la sua economia ha continuato ad essere basata sulla monocoltura di zucchero,
come all’epoca di Batista.
Ma, proprio perché aveva questa
debolezza strutturale nella sua economia (monocoltura di zucchero), Cuba ha
incontrato molte più difficoltà rispetto al resto degli Stati operai
nell’affrontare la crisi economica della quale parliamo. Per esempio, a partire
dal 1975, la crisi cronica di Cuba si acutizzò in conseguenza della brutale caduta
del prezzo dello zucchero sul mercato mondiale.
Rispetto a questo tema è bene
ricordare un’analisi fatta nel 1982: “(…) il castrismo affronta, alla pari di
tutti gli Stati burocratizzati e totalitari dell’Est europeo e dell’Asia,
un’impressionante crisi economica, apparentemente senza via d’uscita”.
C’è una serie di dati che
dimostrano che quest’analisi non era esagerata. Per esempio, in quel periodo,
le riserve cubane scesero da 1,5 miliardi di dollari a 500 milioni. D’altra
parte, basando la sua economia sulla monocoltura dello zucchero, importava il
75% dei cereali che consumava, il 68% dell’acciaio e il 100% del cotone. Per
cercare di uscire da questa situazione, Cuba ricorse ai prestiti esteri,
dall’Urss, dalla Francia e dal Canada, e, in poco tempo, creò un debito che
arrivò ai 10 miliardi di dollari, uno dei più grandi del mondo in proporzione
al numero degli abitanti.
Quest’analisi sulla situazione
economica di Cuba negli anni che hanno preceduto la restaurazione è molto
importante, perché è necessario comprendere che i primi Stati operai a
soccombere al capitalismo furono, come non poteva essere altrimenti, quelli
economicamente più deboli.
La restaurazione non cominciò
dall’ex Urss bensì dalla Jugoslavia, a partire dal 1965, e ciò non fu casuale ma
dovuto al fatto che quell’economia era rimasta molto più isolata e pertanto
molto più indebolita delle altre, in conseguenza della crisi con l’Urss. Questo
caso ha fornito una dimostrazione in più di come l’utopia reazionaria della
teoria del “socialismo in un paese solo” faceva le sue vittime: la Jugoslavia,
isolata, soccombeva al capitalismo mentre il resto degli Stati operai, benché
in crisi, riuscì a sopravvivere per qualche tempo in più facendo parte di un
blocco economico.
Né fu casuale che sia stata la Cina
a seguire la Jugoslavia sulla rotta della restaurazione. In questo Paese questo
processo cominciò partire dal 1978 con le cosiddette “Quattro Modernizzazioni”.
La restaurazione del capitalismo in Cina, a partire da quell’anno, fu un
sottoprodotto della crisi sovietica, nella quale il grande danneggiato, dal
punto di vista economico, fu proprio il Paese asiatico.
In questo quadro, a partire dal
1975, Cuba era la candidata naturale ad anticipare la Cina nella sua marcia
verso la restaurazione. Tuttavia, non fu così perché l’Urss venne in suo aiuto
per salvarla dal disastro inevitabile. Così, tra il 1976 e il 1980, le fornì un
sussidio di 2,4 miliardi di dollari annuali (l’equivalente del 75% delle
esportazioni cubane) e, inoltre, intensificò il commercio con Cuba al punto
tale che, tra il 1977 e il 1978, il commercio internazionale fra i due Stati,
dal punto di vista del valore, rappresentava l’85% del totale del loro
commercio internazionale. Tuttavia, tutto quest’aiuto rappresentò un palliativo
e non consentì di superare la crisi strutturale dell’economia cubana.
Perché, da una parte, esso mantenne
la debolezza cronica dell’economia cubana perpetuando la monocoltura dello
zucchero e, dall’altro, aumentò qualitativamente la sua dipendenza dall’Urss.
Questi due fattori fecero sì che,
poco tempo dopo, l’economia cubana esplodesse quando la crisi economica
dell’Urss obbligò questo Paese a diminuire i sussidi e, fondamentalmente,
quando con la restaurazione del capitalismo e la dissoluzione dell’Urss i sussidi
furono eliminati e il commercio ridotto in forma sostanziale.
Così, tra il 1989 e il 1994 il Pil
cubano cadde del 34,3% e le esportazioni, che arrivavano a 5,3 miliardi di
dollari, scesero a 1,5. Era arrivata l’ora, anche per la burocrazia governante
dello Stato cubano, di cercare di uscire dalla crisi restaurando il
capitalismo. Bisognava seguire l’esempio degli altri Stati operai
burocratizzati, e così fece. Per questo, a Cuba furono prese esattamente le
stesse misure adottate nei restanti Stati.
Fu eliminato il monopolio del
commercio estero, che in precedenza era controllato dal Mincex (Ministero del
Commercio Esterno) e che passò ad essere gestito, come in qualunque Paese
capitalista, dalle differenti imprese e non dallo Stato.
D’altra parte, nel luglio del 1992,
fu riformata la Costituzione nazionale per legalizzare centralmente la fine
dell’economia pianificata (a partire da questo provvedimento fu dissolta la
Giunta nazionale di Pianificazione) e fu stabilito anche il diritto a
costituire vari tipi di nuove imprese. Nel 1995, attraverso la Legge degli
Investimenti Stranieri, fu legalizzata la proprietà privata dei mezzi di
produzione.
Trattandosi di una dittatura, il
governo cubano non divulga molti dati sul processo di privatizzazione delle
vecchie imprese dello Stato. Per esempio, non esiste un’informativa su chi
siano i nuovi imprenditori cubani, benché vi siano di contro abbastanza
informative sulle nuove cooperative. Il governo cubano, seguendo l’esempio di
quanto realizzato negli altri ex Stati operai, creò, a partire dal 1993, le
Ubpc (Unità Basiche di Produzione Cooperativa). Quelle cooperative
s’insediarono molto efficacemente nelle aree di produzione di zucchero
(ricordiamo che Cuba è un Paese basato nella monocoltura), tanto che già nel 1994
aveva 1.555 cooperative nel settore, che coprivano il 100% dell’antica
proprietà statale. I produttori associati in quelle cooperative, così come
capita in molti Paesi capitalisti con la proprietà della terra, non hanno la
proprietà giuridica della terra ma sono i proprietari del prodotto e
conseguentemente si spartiscono i profitti.
Quelle cooperative si svilupparono
anche in altre aree. Così, già nel 1994, occupavano il 76% della superficie
statale dedicata alla coltivazione del caffè, il 48% di quella di riso e il 42%
della superficie statale per l’allevamento.
Attualmente, nel quadro di tutti i
precedenti provvedimenti, cioè di un’economia di mercato, sono state adottate o
lo saranno (nel prossimo congresso del Partito Comunista Cubano) nuove e pesanti
misure, la maggioranza delle quali direttamente contro gli interessi immediati
dei lavoratori. Tra queste, vanno sottolineate il licenziamento, nel prossimo
periodo, di un milione di impiegati statali, dei quali 500.000 saranno cacciati
nei prossimi sei mesi; la costruzione di campi da golf e di appartamenti di
lusso; la liberazione del mercato immobiliare; l’apertura di crediti bancari
per le imprese; la fine della tessera di razionamento (grazie alla quale tutti
i cubani ricevono gratuitamente una serie di prodotti di prima necessità);
l’aumento del prezzo della luce. Contemporaneamente, esistono una serie di
voci, rilanciate dalla stampa internazionale e non confermate né smentite dal
governo cubano, che indicano che inizierà la privatizzazione dell’assistenza
medica e dell’insegnamento.
Il dibattito con le organizzazioni castriste
Nel mese d’agosto dell’anno scorso,
Raúl Castro pronunciò un discorso di fronte ai deputati cubani nei quali
segnalò: “… Io non sono stato eletto presidente per restaurare il capitalismo a
Cuba, né per svendere la rivoluzione, sono stato eletto per difendere,
mantenere, continuare e perfezionare il socialismo, non per distruggerlo …”.
Questo non è un discorso originale a Cuba. È lo stesso discorso che vanno
facendo, da molti anni e ripetutamente, sia Fidel Castro che tutti i capi del
governo e del Partito Comunista.
Dopo tutti i dati che abbiamo
presentato sulla restaurazione del capitalismo (nessuno dei quali è negato dal
governo cubano), sembra impossibile che la direzione castrista tenti convincere
l’opinione pubblica che, gettando in strada un milione di lavoratori (in un
Paese di 10 milioni d’abitanti) e costruendo campi da golf e condomini di
lusso, si rafforzi e si “perfezioni” il socialismo. O che ciò si ottenga abolendo
le tessere annonarie, privatizzando la produzione dello zucchero o lasciando
nelle mani degli imprenditori il controllo del commercio estero.
Tuttavia, tutta quest’ipocrisia
della direzione castrista non può sorprenderci, perché questa tattica, di restaurare
il capitalismo in nome del socialismo è, come già abbiamo visto, la stessa
applicata da tutte le burocrazie che hanno operato la restaurazione, al punto
tale che fino ad oggi il partito che governa la Cina continua a chiamarsi
Partito comunista e i suoi dirigenti assicurano che il sistema che domina quel
Paese è socialista (“socialismo di mercato”).
D’altra parte, questa tattica ha
dato alla direzione castrista un risultato straordinario, tanto che esistono in
tutto il mondo milioni di persone che ripetono con fervore quel che dice questa
direzione. E ciò ha una spiegazione.
Non possiamo dimenticare che la
direzione castrista è stata quella che ha diretto la rivoluzione del 1959, che
ha espropriato il capitalismo nazionale e l’imperialismo, e, a partire da
questo fatto, la vita dei cubani è completamente cambiata: perciò quella
direzione si è trasformata in un modello, a livello nazionale ed
internazionale.
D’altra parte, è necessario capire
che, seguendo la tradizione imposta da Stalin, a Cuba si è sviluppato un
impressionante culto della personalità – di Fidel Castro in questo caso – che,
come capita sempre, mette in secondo piano la ragione. Per le persone che
aderiscono a questo culto le misure restaurazioniste (per esempio, licenziare
un milione di lavoratori) possono persino sembrar cattive, ma pensano che, se è
Fidel che le sostiene, devono per forza essere buone, oppure possono anche
essere cattive ma necessarie, perché così ha detto il Comandante.
Proprio perché si tratta di un
culto della personalità e non di qualcosa di razionale, molti dei difensori dei
fratelli Castro sfuggono ai dibattiti o rispondono istericamente a chi sostiene
che i fratelli Castro hanno restaurato il capitalismo, accusandoli d’essere “gusanos”
o “controrivoluzionari”, come nel caso del già citato Partito Comunista
Brasiliano.
Ma ogni culto, essendo
completamente irrazionale, non dura in eterno. In questo senso, sarà necessario
vedere se durerà per molto tempo, non già tra le persone che vivono lontano da
Cuba – in Spagna, Argentina, Colombia o Brasile – bensì tra il milione di nuovi
lavoratori cubani disoccupati e le loro famiglie.
Un dibattito nel campo del movimento trotskista
Il sostegno alla direzione
castrista non viene solo dai settori che la difendono, bensì, contraddittoriamente,
da quelli che dicono di combatterla, come nel caso d’alcune organizzazioni che
si definiscono trotskiste o hanno origine nel trotskismo, come i già citati
partiti argentini Pts e Nuovo Mas.
È impressionante vedere come queste
organizzazioni hanno realizzato ogni tipo di piccoli trucchi, politici e
teorici, per cercare di dimostrare l’indimostrabile: che a Cuba non si è
restaurato il capitalismo. In questo modo, la burocrazia restaurazionista (così
la definiscono) dei fratelli Castro si sarebbe dimostrata incapace di ottenere
ciò che tutte le burocrazie restaurazioniste del mondo hanno ottenuto: il
ritorno al capitalismo.
Come spiegano questa situazione
eccezionale? Come spiegano che Cuba sia riuscita a sopravvivere nonostante la
sua brutale crisi economica?
Il Pts si limita a fornire alcuni
“argomenti” per dimostrare che il capitalismo non è stato restaurato, ma non
spiega il perché di questa situazione eccezionale.
Al contrario, il Nuovo Mas cerca di
dare una spiegazione sull’eccezionalità cubana.
In un lavoro di Roberto Ramírez
(uno dei principali dirigenti del Nuovo Mas), intitolato “Un dibattito cruciale
nella sinistra. Cuba ad un crocevia”, l’autore spiega: “Cuba è riuscita a
resistere in mezzo alla debacle degli ‘ex Paesi socialisti ’. Valorosamente,
l’isola è rimasta una ‘eccezione”. E, a partire da ciò, l’autore segnala che,
per comprendere l’attuale eccezionalità cubana, bisogna risalire al XIX secolo,
perché Cuba essendo stata, insieme al Porto Rico, uno degli unici due Paesi che
non si emanciparono dalla Spagna, avrebbe avuto un corso eccezionale. In questo
quadro, anche il Movimento 26 Luglio, che diresse la rivoluzione del 1959,
sarebbe stato eccezionale poiché non sarebbe stato espressione di nessuna
classe sociale. Non era un movimento piccolo borghese, come sempre ha sostenuto
il trotskismo, né un movimento di carattere non operaio né borghese. Secondo
l’autore, il movimento 26 Luglio diretto da Fidel Castro era “senza classe”.
Anche per Ramírez, lo Stato cubano
sorto dall’espropriazione della borghesia sarebbe qualcosa d’eccezionale,
poiché non sarebbe né borghese né operaio. Sarebbe uno “Stato burocratico”. In
questo modo, l’autore giunge alla conclusione che tante situazioni eccezionali
diedero origine ad una nuova situazione eccezionale: a Cuba, per un insieme di
fattori eccezionali, questo deplorevole finale della restaurazione capitalista
è stato rinviato.
È una spiegazione, dal punto di
vista teorico, poco solida. In qualche modo ha il merito di cercare di dare una
spiegazione all’inspiegabile.
Vediamo ora gli argomenti di queste
correnti per dimostrare che a Cuba non si è restaurato il capitalismo.
Il principale argomento utilizzato
dal Nuovo Mas (usato anche dal Pts) è che a Cuba non esisterebbe una borghesia
nazionale.
Su questo, Roberto Ramírez dice:
“Perché questo è il punto cruciale che – non casualmente – è sfuggito ai ‘teorici’ del Pstu‑Lit.
Il problema non è fare la somma e la sottrazione di misure economiche isolate
(che effettivamente nelle mani della burocrazia sono pericolosissime), bensì
rispondere a una semplice domanda: dove sta la ‘nuova borghesia cubana’? Vive
nella clandestinità? Risiede in Canada o in Europa? Perciò, mettere già un
segno uguale tra Cuba e Cina è uno sproposito … O sarebbe il primo caso di un Paese
semicoloniale la cui borghesia non è nativa, bensì europea o canadese?”
Lasciamo per ora da parte
l’affermazione di Roberto Ramírez secondo cui tutte le misure restaurazioniste
adottate dal governo sono “misure economiche isolate” e andiamo al suo principale
argomento: “(…)sarebbe il primo caso di un Paese semicoloniale la cui borghesia
non è nativa, bensì europea o canadese”. Risulta difficile credere che un
dirigente come Roberto Ramírez, che ha letto tanto gli autori marxisti, dica un
simile sproposito per cercare di giustificare la sua teoria della
“eccezionalità” di Cuba e del suo dirigente Fidel Castro. Perché se c’è
qualcosa che caratterizza le semicolonie e le colonie (e questo è il cammino di
Cuba), è proprio il fatto che la sua borghesia nativa è enormemente debole e di
fatto praticamente inesistente.
Ma non è questo il principale
problema del testo di Ramírez. Il principale problema è che egli è convinto che
non esista borghesia nativa a Cuba.
Trotsky, analizzando la burocrazia
dell’Urss, diceva: “L’evoluzione delle relazioni sociali non cessa. Non si
potrà pensare, evidentemente, che la burocrazia abdichi in favore
dell’uguaglianza socialista … sarà, dunque, inevitabilmente necessario che
cerchi appoggio nelle relazioni di proprietà … Non basta essere dirigente del
trust, è necessario esserne azionista (…)”.
In tutti i processi di
restaurazione è accaduto quello che Trotsky diceva. La burocrazia voleva essere
azionista delle imprese e una gran percentuale di questa casta si è trasformata
nei nuovi borghesi.
C’è un dato sulla Cina, abbastanza
noto (che lo stesso Ramírez cita) secondo cui, dei 3.220 cinesi con una fortuna
superiore a 10 milioni di dollari, 2.932 sono o erano funzionari di alto rango
del Partito comunista.
A Cuba, benché non disponiamo
ancora dei dati sufficienti, tutto indica che è accaduta la stessa cosa che in
Cina e nei restanti ex Stati operai.
Nel 1992, la burocrazia cambiò la
Costituzione nazionale per permettere l’esistenza d’altri tipi di proprietà
delle imprese, oltre a quella statale.
Nel 1995, la burocrazia approvò la
Legge degli Investimenti Stranieri, con cui furono legalizzati tre tipi di
nuove forme di proprietà delle imprese: la straniera, la mista e l’associazione
economica internazionale.
Nei tre casi fu legalizzata
l’esistenza di imprenditori nazionali, poiché si stabilì che gli investitori
delle imprese straniere possono vendere le proprie azioni allo Stato o agli
imprenditori cubani. A loro volta, alle imprese miste e all’associazione
economica internazionale, oltre a partecipare imprenditori stranieri, possono
partecipare come soci imprese statali o imprenditori cubani.
Un dettaglio importante è che
queste imprese non possono costruirsi liberamente. Tutte esse, e perfino la
vendita d’azioni di imprese straniere ad imprese o imprenditori cubani, devono
essere autorizzate dal governo, cioè, dalla burocrazia che controlla tutto il
processo di privatizzazione.
Bisogna essere molto ingenui per
pensare che la burocrazia restaurazionista abbia creato tutta quest’impalcatura
giuridica (riforma della Costituzione, Legge degli Investimenti Stranieri …)
per non approfittarsene. Sarebbe una burocrazia molto speciale. Qui sì saremmo
di fronte ad un caso eccezionale, tanto eccezionale che ci obbligherebbe a
rivedere il materialismo storico.
Hanno invece ragione, sia il Nuovo
Mas sia il Pts, a ritenere che la nuova borghesia non sta apparendo alla luce
del giorno (essa rimane nascosta dietro le imprese statali e le imprese
straniere), ed è logico che così sia. È difficile immaginare Fidel o Raúl
Castro, o qualunque altro dirigente del Pcc, che convoca una conferenza stampa
per annunciare che hanno comprato questa o quell’impresa. Non dobbiamo
dimenticare che tutta la burocrazia castrista sta restaurando il capitalismo in
nome del socialismo.
Ancora una volta, sul carattere dello Stato cubano
Il Pts, in un testo intitolato
“Difendere le conquiste della rivoluzione contro l’embargo imperialista e i
piani di restaurazione della burocrazia”, non minimizza, come fa Roberto
Ramírez, le misure restaurazioniste. Così, segnala che: “La riforma della
Costituzione del 1992 ha legalizzato le imprese miste (associate al capitale
straniero) e la piccola proprietà, ha debilitato i meccanismi di pianificazione
economica e praticamente smantellato il monopolio del commercio estero (…)”. E,
successivamente, segnala che: “(…) la stessa burocrazia, in particolare le Far,
costituisce la principale forza interna della restaurazione del capitalismo”.
Tuttavia, dopo aver fornito questi importanti dati, giunge alla stessa
conclusione del Nuovo Mas: “(…) sarebbe un errore pensare che il capitalismo
sia già stato restaurato sull’Isola”.
Qui il Pts fa una buona –
quantunque abbastanza incompleta – descrizione della realtà, ma la
caratterizzazione a cui giunge (Cuba continua ad essere uno Stato operaio)
entra in totale contraddizione con quell’analisi.
Trotsky, a cui il Pts fa sempre
mostra di riferirsi, non solo nei suoi successi ma anche nei suoi pochi errori,
affermava che, nonostante la burocrazia, l’Urss continuava ad essere uno Stato
operaio perché Stalin non era riuscito a liquidare le principali conquiste
della rivoluzione: la proprietà statale dei mezzi di produzione, il monopolio
del commercio estero e la pianificazione economica centrale. Tuttavia, nella
citazione che abbiamo fatto, il Pts dice che praticamente queste conquiste non
esistono più. Allora non si capisce perché afferma, con tanta sicurezza, che
Cuba è uno Stato operaio.
D’altra parte, Trotsky affermava:
“(…) la natura di classe dello Stato si definisce, non dalle sue forme
politiche, ma dal suo contenuto sociale, cioè dal carattere delle forme di
proprietà e dei rapporti di produzione che lo Stato in questione protegge e
difende (…)”.
Il Pts dice, a ragione: “(…) la
stessa burocrazia, in particolare le Far, costituisce la principale forza
interna della restaurazione del capitalismo”. Allora, tornando a Trotsky, quali
sono le forme di proprietà e i rapporti di produzione che lo Stato cubano
protegge e difende?
Il Pts afferma che la burocrazia che
sta alla testa dello Stato, e specialmente le Forze armate (che ne
costituiscono la principale istituzione), vuole la restaurazione del
capitalismo. E ha ragione: è dimostrato dall’insieme delle misure
restaurazioniste adottate da quella stessa burocrazia.
Pertanto, secondo l’analisi e la
caratterizzazione del Pts, e prendendo in considerazione il criterio di
Trotsky, non dovrebbero esserci dubbi sul carattere capitalista dello Stato
cubano. Tuttavia, il Pts ripete, un giorno sì e l’altro pure, che Cuba è uno
Stato operaio.
La questione del programma
Il Pts dice: “Sarebbe un errore
pensare che il capitalismo sia già stato restaurato sull’Isola e che non
rimanga nessuna conquista da difendere”. Da parte sua, Roberto Ramírez, nel suo
testo, dice qualcosa di simile: “(…) l’errore del Pstu‑Lit (dire che a Cuba il
capitalismo è stato restaurato) porta inevitabilmente alla conclusione che ci
sia poco o nulla da difendere a Cuba e che della rivoluzione del 1959 non resti
praticamente nulla”.
In qualunque Paese capitalista che
in precedenza era uno Stato operaio sopravvivono importanti conquiste della
classe operaia e del popolo che bisogna difendere. Anzi, perfino in qualunque
Paese capitalista che non è mai stato uno Stato operaio ci sono importanti
conquiste dei lavoratori che bisogna difendere. Ma ciò che non può essere
difeso sono le conquiste che si sono già perse. In questo caso, ciò di cui si
tratta è riconquistarle.
Per esempio, nel caso di Cuba è
necessario difendere la sanità e l’istruzione pubbliche, perché ancora
esistono. È anche necessario difendere le imprese che continuano ad essere
statali, ma non si possono difendere il monopolio del commercio estero o la
pianificazione economica centrale, perché da più di un decennio non esistono
più.
Allora, è vero che rimangono molte
conquiste da difendere che nacquero a partire dalla rivoluzione del 1959, ma le
conquiste fondamentali del ’59, quelle strutturali, quelle che trasformarono lo
Stato capitalista cubano in uno Stato operaio – l’espropriazione della borghesia
nazionale ed imperialista, il monopolio del commercio estero, l’economia
centralmente pianificata – queste conquiste non esistono più, ed è qui che si
pone la questione del programma.
Tanto il Pts che il Nuovo Mas
dicono che a Cuba non bisogna fare una rivoluzione sociale, bensì solamente una
rivoluzione politica.
Rispetto alla rivoluzione politica,
Trotsky segnalava che se un partito rivoluzionario dovesse dirigere una
rivoluzione di questo tipo contro la burocrazia governante “(…) non dovrebbe
ricorrere a misure rivoluzionarie in materia di proprietà. Dovrebbe continuare
a sviluppare a fondo l’esperienza dall’economia pianificata. Dopo la
rivoluzione politica e dopo il crollo della burocrazia il proletariato dovrebbe
fare, in economia, riforme abbastanza importanti, ma non dovrebbe fare una
rivoluzione sociale”.
Questo programma, quello della
rivoluzione politica, è inapplicabile per Cuba, perché esso parte da qualcosa
che non esiste più sull’Isola: l’economia pianificata; e, d’altra parte, se si
applicasse, sarebbe un programma di destra, perché non avrebbe come obiettivo
quello di fare una rivoluzione in materia di proprietà bensì solo di fare
riforme. Pertanto, una rivoluzione politica significherebbe mantenere l’attuale
struttura economica. Al contrario, una rivoluzione sociale significherebbe
riprendere le conquiste strutturali del ’59 che oggi non esistono più: la nuova
espropriazione della borghesia, nazionale ed internazionale; il recupero del
monopolio del commercio estero; la ricostruzione dell’economia centralmente
pianificata.
Cuba ha bisogno di una rivoluzione
che non può essere solo politica, ma deve essere sociale, perché dovrà
affrontare i vecchi e i nuovi sfruttatori. Una rivoluzione sociale che dovrebbe
necessariamente iniziare dal rovesciamento dell’attuale dittatura.
Allora, per terminare, ritorniamo
all’inizio di questo testo ed alla frase del Pcb: “Difendere la Rivoluzione
cubana è una questione di principio”.
Ma, di quale rivoluzione cubana
stiamo parlando? Della Rivoluzione del ’59.
E come la difendiamo? Costruendo
una nuova rivoluzione, contro il governo e lo Stato cubani che la stanno
tradendo.