UN TUNNEL SEMPRE PIU' LUNGO E BUIO
Si aggrava la crisi del capitalismo
di Alberto Madoglio
Un tunnel del quale non si riesce ancora a vedere l’uscita: è questa la situazione in cui si trova l’economia mondiale a quasi due anni dallo scoppio della crisi immobiliare Usa e a poco più di sei mesi dal crack della banca d’affari Lehman Brothers che ha dato il via al panico sui mercati finanziari mondiali.
Nelle
ultime ore c'è stata una escalation di notizie a dir poco sorprendenti.
La General Motors, per decenni il simbolo della superpotenza economica
americana, venerdì 20 febbraio ha toccato in borsa il suo minimo storico da 71
anni: la sua capitalizzazione è inferiore a quella di una media industria
italiana del settore delle calzature come la Tod's.
Fiat e
Renault hanno visto declassare la propria solvibilità creditizia a livello
"spazzatura": le stelle di Sergio Marchionne e Carlos Ghosn, artefici del
rilancio dei due marchi solo pochi anni fa hanno smesso definitivamente di
brillare.
Unicredit
oggi vale meno dei "mezzi propri" e tutto ciò la dice lunga su quanto il
rischio di un suo fallimento non sia da escludere. Non meglio stanno altri
ormai ex colossi del credito mondiale come la svizzera Ubs, la spagnola
Santander o l'americana Citigroup, da tempo soprannominata "zombie bank" (giusto
per dare l'idea della situazione in cui si trova).
Questi
però sono solo esempi di quanto profonda sia la crisi mondiale in corso e di
come lo spettro di una nuova Grande Depressione stia diventando realtà.
Altro
che Obama!
Alcuni speravano
che il nuovo presidente Usa Obama con un colpo di bacchetta magica avrebbe
risolto tutti i problemi accumulatisi nei precedenti decenni. Al contrario, da
quando si è ufficialmente insediato alla Casa Bianca, le cose sono
ulteriormente peggiorate.
Il piano
da 700 miliardi di dollari approvato dal parlamento americano su proposta del
governo non è stato accolto con lo sperato favore dai mercati finanziari. E a
ragione. La cifra è sicuramente ingente ma del tutto inadeguata all'obiettivo
di rilanciare una economia che per troppo tempo è prosperata grazie alle varie
"bolle" che si sono create. E' difficile che quei soldi bastino a costruire o a
riammodernare le infrastrutture del Paese che per molto tempo non sono state
curate, a salvare famiglie, operai, disoccupati e minoranze etniche da un
impoverimento progressivo. Certo è che il deficit del Paese quest'anno arriverà
all'8 o forse al 10%, che il suo debito pubblico aumenterà spaventosamente, e
che l'inflazione nei prossimi mesi sarà destinata a riprendere la sua corsa. Se
aggiungiamo che tutto ciò contribuirà a indebolire lo strumento che per decenni
ha garantito l'egemonia Usa a livello mondiale, il dollaro, capiamo che i
prossimi quattro anni per Obama saranno molto complicati.
La
Cina e l'Europa
Stessa
situazione per la Cina, Paese che fino a poco tempo si era candidato a prendere
da Washington il testimone di nuovo locomotore dell'economia globale. Il crollo
delle esportazioni dal Paese, causate dalla recessione combinata di Usa, Europa
e Giappone, il brusco rallentamento della sua crescita (che dovrebbe passare
dall'11% a meno del 7%) e relativi pericoli per la tenuta di un sistema fondato
sullo super sfruttamento di centinaia di milioni di contadini e operai, mettono
in luce i ritardi colossali nello sviluppo economico dell'impero di mezzo. Più
che agli Usa degli anni Venti, dobbiamo rifarci alla Russia pre-rivoluzionaria
per trovare una situazione simile: un Paese sottosviluppato, con isole di
eccellenza paragonabili a quelle delle maggiori potenze imperialiste, un
contadiname, una classe operaia che, pur essendo minoranza, è stata il vero
artefice della crescita, di cui ha beneficato solo in piccolissima parte, e che
grazie alla sua concentrazione (complessi che radunano decine di migliaia di
operai sono la norma) ha bisogno solo di una direzione politica conseguente per
scatenare la sua immensa forza rivoluzionaria.
Ma è
l'Europa oggi la zona che si trova in maggiore difficoltà. La recessione non
risparmia nessun Paese. Non solo quelli di più vecchia industrializzazione come
Italia, Francia e Germania, ma anche quelli che avevano fatto sperare ai
politici borghesi di aver trovato la formula per uno sviluppo senza fine. La
Spagna che aveva fondato la sua crescita sul boom immobiliare, ha visto
crescere in poco tempo il suo tasso di disoccupazione che ora supera il 15%.
L'Irlanda, quella che un tempo era chiamata la "tigre celtica", vedrà un crollo
del suo Pil di oltre il 5% e, secondo alcuni centri studio autorevoli come
quello diretto dall'economista Rubini, rischia di dover dichiarare bancarotta.
La Grecia è indicata come il primo Paese che probabilmente dovrà abbandonare la
moneta comune europea. Nei Paesi dell'est (Ungheria, Romania, Repubblica Ceca),
il blocco degli investimenti da parte delle multinazionali straniere, sta
segnando la fine del modello di sviluppo seguito da quei Paesi dopo il crollo
del muro di Berlino.
L'impossibilità di un "superimperialismo" europeo
La prima
vittima della crisi è stata l'illusione di un'Europa fondata sulla "solidarietà
di mercato", della possibilità di creare una sorta di superimperialismo
continentale in grado di competere con Usa e Giappone. Al di là della retorica,
ogni paese pensa di salvare se stesso a scapito degli altri, e la Commissione
di Bruxelles lancia raccomandazioni alla cooperazione puntualmente disattese.
La Francia aveva proposto un fondo europeo per salvare le banche, sulla scorta
del fondo Paulson, ma è stata bloccata da Berlino. Germania e Austria a loro
volta tentano di salvare i loro investimenti nei paesi dell'ex cortina di ferro
intervenendo direttamente, ma da Bruxelles arriva un pronto rifiuto.
Il
premier inglese Brown attacca Dublino per la decisione di garantire i depositi
bancari senza alcun limite, ma allo stesso tempo si dice pronto a regalare
miliardi di sterline ai banchieri responsabili del dissesto finanziario.
Le loro nazionalizzazioni... e le nostre
Su questo punto è utile aprire una parentesi. Molti analisti borghesi hanno salutato con favore la svolta interventista dei governi per ciò che riguarda gli istituti finanziari in crisi. Le nazionalizzazioni di cui si parla, nulla hanno a che vedere con ciò che i comunisti storicamente hanno rivendicato. Non si tratta infatti, ovviamente, di espropri senza indennizzo, ma dell'estremo tentativo fatto dai governi borghesi di salvare l'economia capitalista da se stessa, garantendo i profitti delle classi dominanti. Il fatto che i fondi da destinare a questo scopo siano ricavati dalle tasse pagate dai lavoratori e dai tagli allo stato sociale, sono l'ennesima dimostrazione di come dopo aver privatizzato gli utili, si vogliano socializzare le perdite. Chi parla di un nuovo tipo di socialismo, auspicandolo o temendolo, non ha il senso del ridicolo.
Un'altra vittima illustre della crisi è l'ideologia liberoscambista che tanta fortuna ha avuto in passato. Premesso che in realtà si trattava della libertà che le maggiori potenze economiche mondiali avevano di depredare i paesi dell'Asia, Africa e Sud America, oggi assistiamo ad un ritorno in grande stile di politiche protezioniste. I briganti imperialisti che fino a poco fa lavoravano in combutta fra loro, oggi cominciano a scannarsi l'un l'altro. Tuttavia né la clausola "buy american" inserita nel piano Obama di cui dicevamo prima, né l'obbligo di chiudere impianti all'estero imposto da Sarkozy per concedere aiuti pubblici al settore dell'auto saranno in grado di salvare le economie nazionali sull'orlo del collasso.
Solo il socialismo può risolvere la crisi
L'economia mondiale è da tempo globalizzata, la divisone internazionale del lavoro impedisce ogni soluzione autarchica. Inoltre, dazi alle importazioni imposti da un Paese possono essere superati da sussidi concessi alle esportazioni decisi da un altro, o dalla maggior produttività del lavoro in un Paese, il che rende comunque le merci più competitive di quelle che si vogliono difendere col protezionismo. Lo spiegava molto bene Lenin in uno scritto a difesa del monopolio statale sul commercio estero (1). Pur con le dovute differenze, quello che scriveva il grande rivoluzionario per la Russia sovietica, vale oggi anche per i Paesi capitalisti.
Allo stesso tempo, una politica protezionista non può che aumentare le tensioni politiche, diplomatiche e militari tra nazioni.
Tutto questo ci fa dire che nei prossimi anni assisteremo a dei rimescolamenti profondi nei rapporti tra le classi in lotta fra loro, fra le stesse classi dominanti e tra i differenti Paesi. Spetta ai rivoluzionari far si che l'umanità non sia per l'ennesima volta gettatta in una stagione di barbarie.
(1) Sul Monopolio del Commercio Estero- Al compagno Stalin per la riunione plenaria del CC. 13/12/1922 in Lenin Opere Scelte, vol. 6 (Editori Riuniti).