Partito di Alternativa Comunista

LA SOCIALDEMOCRAZIA IN FRANTUMI

I bertinottiani escono dal Prc
LA SOCIALDEMOCRAZIA IN FRANTUMI
Una mappa per orientarsi di fronte al fallimento storico della sinistra governista.
E per ripartire con un progetto rivoluzionario

 
 
 
di Francesco Ricci

 
il trio cbd

Domenica scorsa, a Chianciano, Vendola, Giordano e Migliore sono usciti dal Prc. Con loro esce meno di due terzi dell'area bertinottiana, cioè coloro che sono pronti con Vendola a ripetere lo slogan del nuovo movimento: "amo, sogno e non ho paura" (anche se, a giudicare da qualche foto, nello sguardo di certi ex parlamentari inquadrati in prima fila sembrava proprio di vedere la paura del vuoto). Un terzo abbondante dei bertinottiani (Caprili, Rocchi, gran parte di Sardegna, Calabria, Lazio ma anche di Torino e Milano) rimane per ora nel Prc (in quest'area - cosa curiosa - sono confluiti anche i settori di Sinistra Critica rimasti nel Prc, con il consigliere regionale Mulbahuer). I primi hanno dato vita al Mps (Movimento per la Sinistra) i secondi mantengono Rps (Rifondazione per la Sinistra). Se a Mps e Rps si aggiungono le sei correnti principali che attualmente formano la maggioranza del Prc (area Ferrero; Essere Comunisti di Grassi; L'Ernesto di Giannini; l'area di Pegolo - che ha rotto con l'Ernesto; Falcemartello-Sinistra del Prc di Bellotti; Controcorrente-sinistra del Prc diretta da Veruggio e dai ferrandiani rimasti nel Prc) e si aggiungono, ulteriormente, altri raggruppamenti come l'Area Oltre (Manocchio) e l'Area Ottobre (gli ex ferrandiani Malerba e Benni), e forse altre parti che al momento ci sfuggono, il quadro dell'esplosione di Rifondazione è composto. Sommando a queste aree e partiti o embrioni di partito anche il Pdci di Diliberto (in cui è presente un'area guidata da Marco Rizzo ma anche un pezzo che sta uscendo dal partito per congiungersi con l'Mps, guidato da Katia Belillo), i Verdi (nella loro ricca articolazione di aree) e Sinistra Democratica, si ha infine come risultato la galassia socialdemocratica originata dal big bang delle ultime elezioni politiche.
Essendo stati tra i primi a diagnosticare la scomparsa del Prc e i primi a uscirne da sinistra (PC Rol, aprile 2006) per avviare il percorso che ha poi portato alla nascita del Pdac non siamo certo stati presi alla sprovvista. Quando altri (ad es. Sinistra Critica, che pure oggi rivendica una primogenitura nella previsione) ancora si illudevano di poter "riorientare" il Prc, magari - è il caso di Turigliatto e Cannavò, si rileggano le decine di dichiarazioni e interviste - tornando alla "Rifondazione di Genova" e al bertinottismo dei tempi d'oro (quello movimentista che ha aperto la strada appunto alla deriva di governo), noi dicevamo che Rifondazione non sarebbe durata a lungo. Chi fosse interessato, può comunque trovare facilmente sul nostro sito web i tanti articoli che abbiamo dedicato alla crisi della socialdemocrazia: ben prima del disastro elettorale dell'Arcobaleno.
Facciamo ora il punto su questa crisi. Ancora una volta non perché ci appassioni l'astronomia politica e l'osservazione col telescopio di questo sistema solare che ruota ormai attorno a una stella morente, né perché attribuiamo un qualche significato reale e sincero alle dichiarazioni dei dirigenti socialdemocratici. Bensì perché alcune migliaia di attivisti ancora si spostano trascinati da questo sistema: e si tratta in gran parte di militanti onesti, che hanno sacrificato e sacrificano la loro vita, e non meritano di essere trascinati in nuovi disastri dai vari Ferrero, Grassi, Vendola, ecc.
Limitiamoci per ora a quattro osservazioni.
 
Primo: la crisi della socialdemocrazia ha radici profonde, storiche
Non bisogna infatti confondere le cause apparenti con le cause reali: la crisi elettorale dell'Arcobaleno ha semplicemente acceso a sorpresa le polveri che si accumulavano da tempo e che inevitabilmente dovevano esplodere.
Da un certo punto di vista - al di là della meschinità del personaggio, che si ritira a filosofeggiare dopo aver mandato i suoi allo sbaraglio - ha qualche ragione Bertinotti a dire che "la sinistra non esiste più". Bertinotti, in realtà, intende soltanto dire che la sinistra può rinascere unicamente se tutti riprendono a inchinarsi davanti alle sue farneticazioni pseudofilosofiche; se cioè i dirigenti di tutti quei partiti, gruppi e sotto-gruppi che abbiamo elencato sopra lo riconoscono di nuovo, come hanno fatto per anni, come l'unico e vero profeta della socialdemocrazia. Ma, in un altro senso, davvero la sinistra non esiste più: non esiste più la sinistra socialdemocratica classica, che mercanteggiava con la borghesia sulla testa dei lavoratori, che produceva il compromesso di classe (nei governi borghesi o attorno ad essi). E non esiste più per ragioni strutturali: quel compromesso (cioè sostanzialmente l'accettazione del dominio di classe borghese in cambio di qualche riforma) era possibile in fasi di ascesa o perlomeno di stabilità del sistema capitalistico. Oggi quella situazione non esiste più. Non esisteva, per la precisione, nemmeno dieci anni fa: la realtà è che i gruppi dirigenti di Rifondazione (Cossutta e Magri prima, poi Cossutta e Bertinotti, poi Bertinotti con Ferrero e Turigliatto, poi Bertinotti e Ferrero, ora Ferrero e Grassi) hanno giocato - per una serie di circostanze e casualità, ma certo anche grazie a una certa astuzia cinica - un ruolo a recita già conclusa. Come comparse che imitano gli attori protagonisti sul palcoscenico quando il teatro è chiuso, tra una prova e l'altra, hanno vestito i panni di una socialdemocrazia arricchitasi (nel senso letterale del termine) in altre stagioni del capitalismo. Aiutati dal caso (e da un sicuro istinto per il tradimento di classe) sono riusciti a pronunciare qualche battuta con i costumi da ministri e presidenti, hanno goduto di onori e lussi, hanno ammonticchiato un discreto gruzzolo. Ora il teatro si apre, il tempo delle prove è finito, e i Vendola e i Ferrero vengono (momentaneamente) rimandati dietro le quinte.
 
Secondo: la socialdemocrazia non scompare nel nulla e potrà svolgere ancora un ruolo nefasto
Parlare di crisi storica della socialdemocrazia non significa illudersi che i partiti e i gruppi socialdemocratici si scioglieranno come neve sotto il sol di un avvenire socialista sorgente di fronte al capitalismo tramontante. Purtroppo le cose sono più difficili. Non solo il capitalismo non si uccide da sé - ma c'è bisogno che siano i lavoratori a spingerlo nella fossa (evitando di farsi trascinare sotto terra); pure il supporto principale del dominio borghese, la burocrazia socialdemocratica (che dirige partiti e sindacati), va sconfitto attivamente. Certo oggi è in crisi perché non ha nulla da "redistribuire" ma dispone ancora di risorse e mezzi (che la borghesia più scaltra non le fa mancare) per spargere nuove illusioni tra i lavoratori e cercare così di riguadagnare - nell'aggravarsi dello scontro di classe - un ruolo come pompiere delle lotte. I dirigenti socialdemocratici svolgono, al pari dei preti, un ruolo indispensabile nel preservare il sistema dominante. Così come i preti (di ogni religione) inducono gli sfruttati a sopportare le pene di questo mondo (cioè lo sfruttamento) in attesa delle gioie di un altro mondo (celeste); così i burocrati svolgono un altrettanto utile (seppure meno pio) ruolo di predicatori di un "meno peggio" che induce a sopportare che il "peggio" permanga. A loro spetta il ruolo di rinviare e frazionare le lotte e condurle, quando comunque esplodono, al tavolo delle trattative per ottenere qualche irrilevante concessione, subito spacciata come una "significativa vittoria". 
In altre parole, il ruolo della socialdemocrazia nel capitalismo non viene meno nelle fasi di crisi economica: i padroni hanno sempre bisogno di qualcuno che li aiuti a stornare le lotte dal loro logico sviluppo (il rovesciamento del potere borghese e l'instaurazione del potere dei lavoratori) ma certo il mestiere di socialdemocratico è ben più difficile in tempo di crisi (chiedete a Bertinotti, passato dai solenni discorsi alla Camera, tra ori e velluti, a scrivere gli editoriali di una rivista che non legge nessuno; o a Ferrero, che ha persino dovuto rinunciare a quei completi grigio ministeriale che lo slanciavano tanto). E' più difficile perché i lavoratori - ecco cosa ha innescato il rovinoso capitombolo di Rifondazione - non sono propensi a offrire sostegno a un partito che li ricambia solo con fumose elucubrazioni ontologiche. Per riguadagnare la via del governo (borghese, s'intende) e quella delle giunte alle prossime amministrative i socialdemocratici dovranno sudare parecchio.
 
Terzo: non c'è nessuna differenza di fondo tra i vari spezzoni in cui si è rotta la socialdemocrazia
Nel cercare, qualche tempo fa, di descrivere a un dirigente trotskista non italiano il quadro della sinistra nostrana, ci siamo resi conto della difficoltà non tanto di tenere una mappa aggiornata della frantumazione socialdemocratica ma di elencare delle differenze programmatiche tra le decine di partiti e gruppi che abbiamo elencato all'inizio di questo articolo. La difficoltà deriva dal fatto che differenze programmatiche non ce ne sono. Non è un caso che l'esplosione abbia avuto origine da una sconfitta: finché le cose andavano bene (o meglio andavano bene per ministri, parlamentari e sottosegretari), nessuno si accorgeva di sostanziali differenze tra bertinottiani e ferreriani tali da condurre a una scissione; così come sarebbe stato difficile descrivere quella identità culturale che oggi pare cementare il blocco Ferrero-Grassi (con annesse le nuove aree critiche-critiche: Falcemartello, Controcorrente, ecc.). In realtà le linee di rottura e quelle di fusione derivano unicamente dal frenetico tentativo di ogni area di sopravvivere all'onda travolgente del tracollo elettorale. Nell'acqua gelida del naufragio i passeggeri più grossi (bertinottiani e ferreriani) si sono scontrati tra loro: era chiaro che tutti sulla scialuppa di salvataggio non ci sarebbero stati, e così hanno improvvisato alleanze con i passeggeri più magri. Il congresso di Chianciano dell'estate scorsa ha sancito chi poteva stare sulla scialuppa: Ferrero con Grassi e gli altri già citati hanno preso così a colpi di remi in testa Giordano e Vendola. La scissione dei vendoliani nasce da qui, non certo da un progetto politico. Se domattina si ripresentasse l'occasione (e le forze) per un nuovo governo di centrosinistra, tutti tornerebbero amici (a ciò allude con eleganza Paolo Ferrero, sia detto di passata, quando parla della collocazione all'opposizione del Prc "finché permangono gli attuali rapporti di forza col Pd"): così come dilibertiani e bertinottiani si ritrovarono amorevolmente nel governo Prodi; così come tutti quanti si ritrovano senza problemi nelle giunte locali. La legge che ispira tutto ciò è quella del richiamo della foresta: è la legge della sopravvivenza: con la differenza che qui le iene (i  burocrati) hanno preso il posto dei più coraggiosi e nobili lupi di Jack London.
L'assenza di differenze programmatiche (e di classe) non inficia la ricerca di momentanei approdi differenti. Alcuni bertinottiani dichiarano (vedi le interviste di Rina Gagliardi e Alfonso Gianni) di sognare una rimescolata di carte interna al Pd che faccia emergere un partito a guida dalemiana disponibile a ospitare una corrente socialdemocratica. I bertinottiani unitari (Caprili) non hanno ancora chiarito che cosa vogliono fare. I ferreriani e i grassiani (costretti per il momento a una coabitazione) parlano di un "partito sociale" (che vende il pane nelle piazze). Su tutti incombono le elezioni europee che potrebbero costituire un altro disastro o, nel caso venisse fissata una soglia di sbarramento, un'occasione per riscoprire tra le lacrime antichi rapporti di fratellanza.
 
Quarto: c'è necessità (e c'è lo spazio politico) per costruire quel partito comunista che manca in Italia da ottanta anni
Di fronte al panorama desolante offerto dalla socialdemocrazia, il rischio è che "molti tornino a casa schifati", per usare l'espressione precisa utilizzata da uno dei principali artefici di questo "schifo" (Paolo Ferrero). Ma anche in questo caso la medaglia ha due facce: l'altra - decisamente meno schifosa - è che la crisi non congiunturale, storica, del riformismo e il suo congiungersi con la nuova e violentissima crisi del capitalismo (di cui vediamo per ora solo l'inizio) possono aprire uno spazio politico inedito per i comunisti e per costruire quel partito rivoluzionario di cui Rifondazione non ha mai neppure avviato la costruzione, in nessuna delle sue stagioni, nemmeno quelle apparentemente più a sinistra - vista l'ipoteca che comunque ponevano sulle migliori energie militanti i progetti burocratici dei gruppi dirigenti riformisti e centristi.
Questa crisi del capitalismo, lo abbiamo accennato qualche paragrafo fa, lo abbiamo scritto in modo più dettagliato in altri articoli sul nostro giornale e sul nostro sito, non sarà l'ultima né produrrà di per sé un crollo di questo sistema sociale barbaro. Ma certo alimenterà lo scontro di classe - e già ne abbiamo chiari segnali in tutto il mondo e anche in Europa (si pensi alla Grecia, punta estrema, ma anche alla crescita delle lotte in Portogallo e Spagna soprattutto). Ed è precisamente nello scontro tra le classi che può costruirsi quel partito comunista con influenza di massa che ancora non c'è. Nello sviluppo delle lotte di resistenza che le masse saranno costrette ad opporre ai tentativi della borghesia di recuperare punti del suo saggio di profitto a danno dei lavoratori, dei loro salari, delle loro condizioni di lavoro. In questo scenario i riformisti (e le loro appendici centriste) ammutoliscono perché hanno costruito per anni le loro fortune (anche personali) sull'ipotesi di uno sviluppo o comunque di una pacifica permanenza del capitalismo.
Il Pdac (lo abbiamo ripetuto tante volte) non nutre presunzioni di autosufficienza ed è consapevole di essere piccola cosa rispetto alla grandezza di questo compito. Noi non abbiamo mai giocato con i numeri (a differenza degli altri due partiti a sinistra del Prc, Pcl e Sinistra Critica: forze della nostra stessa taglia ma che vantano dimensioni e masse di iscritti inesistenti, come ha constatato chiunque abbia partecipato alle manifestazioni di questi ultimi mesi). Ma siamo una piccola cosa sana, fatta di lavoratori e giovani che hanno come unica ambizione quella di cambiare il mondo. Una piccola cosa che si costruisce senza ricorrere a quelle disastrose scorciatoie mensceviche (il partito di iscritti passivi, spesso esistente solo nei comunicati stampa) che altri hanno imboccato con esiti che possiamo vedere. Una piccola cosa che è parte di un processo di costruzione su scala internazionale, la Lit, che oggi opera, sia pure con altre piccole forze, in decine di Paesi per costruire quella Quarta Internazionale, cioè il partito mondiale dei lavoratori, che ancora non c'è.
Il Secondo congresso nazionale del Pdac, che terremo nell'estate di quest'anno, è aperto al contributo e alla partecipazione di tutti coloro (le iscrizioni 2009 sono iniziate in queste settimane) che vogliono con noi, alla pari (qui non ci sono soci fondatori), edificare sulle macerie del riformismo una prospettiva rivoluzionaria: l'unica in grado di contrapporsi realmente al capitalismo in crisi.

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