Oscar Mancini, fino allo scorso anno segretario provinciale della Cgil di Vicenza, ha recentemente dichiarato alla stampa: “Ricordo che sono stato io il primo a fare il nome di Variati (...). Questo movimento (il movimento contro la base N.d.R.) ha già dato molto a Vicenza. Senza, come centrosinistra non avremmo vinto." (2)
C’è stato un tempo nel quale la frase “ci metteremo davanti alle ruspe” o “bloccheremo i lavori” non aveva il sapore di provocazione né di stupida incoscienza. Erano frasi che ricorrevano durante le riunioni e volevano, con sincerità e con slancio, porre l’accento sulla radicalità e la determinazione di un movimento che stava crescendo, travalicava i confini di Vicenza e lanciava un messaggio di lotta e di speranza a tutto il movimento contro la guerra.
Quel movimento non intendeva aspettare in maniera fatalista il momento in cui sarebbe stato necessario “mettersi davanti alle ruspe” ma, con la forza dell’unità e dei numeri, intendeva far capire che, se l’ipotesi di una nuova base di guerra a Vicenza non fosse stata smentita, era determinato a crescere ancora e a svilupparsi in modo tale che nemmeno uno scontro fisico poteva fermarlo. Dalla sua parte non c’erano né il denaro, né l’esercito, né il potere economico e dei mass media ma c’era sicuramente la forza di studenti, lavoratori, lavoratrici, donne e uomini, di una base popolare che con il passare dei giorni si allargava fino a far scorgere la possibilità che, proprio a Vicenza, un movimento reale e di massa avrebbe dato filo da torcere ai “Signori della guerra” e ai loro servitori in politica.
Che questo movimento fosse riuscito a trovare (pur con infiniti scontri e tensioni fra i diversi gruppi che lo componevano) la capacità di formare un fronte unico è stato dimostrato, fino ad una certa fase, dalla sua continua e progressiva crescita sia nel numero dei partecipanti sia nel moltiplicarsi di iniziative, non solo sul territorio vicentino.
Ciò nonostante questo movimento ha dimostrato tutta la sua fragilità politica e la sua subordinazione alle logiche istituzionali e di potere quando, probabilmente inaspettato dai più che avevano creduto alle bugie dei programmi elettorali sulla riduzione delle servitù militari, è arrivato il sì di Prodi.
Come la ruota di una bicicletta, che lungo una ripida discesa sebbene il ciclista non mette più forza nella pedalata, continua a girare vorticosamente, in un primo momento il movimento, anziché fermarsi, accelerò allora la sua “corsa” e, come risposta al sì di Prodi, si ebbe l’occupazione della stazione di Vicenza e, soprattutto, la grandiosa manifestazione del 17 febbraio 2007.
Ma dopo tale data , quasi subito fu chiaro, che molti rappresentanti dei vari settori di movimento cambiarono strategia, probabilmente a causa dei troppi legami con parlamentari e ministri che di quel governo facevano parte.
Con il 17 febbraio, e con un governo Prodi in crisi e che dall’eccezionale risultato della manifestazione di febbraio riceve un ulteriore duro colpo, la scelta fu, nei fatti, quella di salvare il governo (un governo di centro-sinistra appoggiato, con parlamentari e ministri, da Rifondazione Comunista, Verdi e Comunisti Italiani; un governo che cadrà non sul Dal Molin, non sulla guerra, non sul rifinanziamento delle truppe all’estero ma a destra, a causa di Mastella).
Così avvenne che, con la scelta di non disturbare il governo, a poco a poco il movimento vicentino si sganciò da quello nazionale ed internazionale contro la guerra, cominciò a rivendicare la propria “vicentinità”, prendendo di mira sempre meno i generali Usa e le basi presenti, e concentrandosi sempre più su contestazioni “cittadine” nei confronti del sindaco di Forza Italia e della sua maggioranza (anche se la questione Dal Molin ormai era una questione puramente di competenza del governo), con settimanali manifestazioni in Corso Palladio, “occupazioni” della Basilica Palladiana, di grande effetto mediatico ma tesi a disturbare, nei fatti, solo la locale giunta di centrodestra. Altre preziose energie furono impegnate in estenuanti ricorsi ai Tribunali, raccolte firme rivolte agli stessi politici che nelle aule del Parlamento e nei salotti dei potenti d’Europa e Usa si stavano attivando affinché la base si costruisse.
Come se la storia non avesse già ampiamente dimostrato che la guerra non prevede nessun tipo di legalità, tanto meno la legalità che appartiene a quella democrazia formale che c’è concessa dallo stesso potere che, quando per suo tornaconto è necessario, la stralcia senza problemi.
Dal febbraio 2007 il movimento ha perso l’unità d’azione che aveva faticosamente costruito e le scissioni (cercate o subite) sono aumentate. Inversamente proporzionale allo sgretolamento del movimento è stato l’organizzazione del “tendone” che, da semplice capannone un po’ fatiscente che serviva soprattutto alle riunioni serali di movimento, si è nel tempo perfezionato fino a diventare una sorta di centro sociale organizzato, con feste, assemblee pubbliche, concerti, pizzeria, ecc…
All’interno di questo quadro è partita la campagna “Mettiamo radici al Dal Molin”. Il Presidio (controllato dai disobbedienti di Casarini) scrive “agli uomini e alle donne che hanno contribuito alla mobilitazione dei vicentini” chiedendo di “contribuire” (con una o più quote da 100 euro) “al nostro progetto d’acquisto di un terreno per il Presidio No Dal Molin”… “l’intenzione è quella di acquistare un terreno adiacente all’area Dal Molin per far sì che il Presidio diventi definitivo”.
Nonostante il tendone “voglia mettere radici”, solo poche centinaia di militanti hanno risposto all’appello del blocco dei cantieri, e questo perché la politica d’esclusione dei dirigenti del Presidio e la non trasparente organizzazione delle iniziative ha dato i suoi frutti. A questo aggiungiamo che per molti attivisti è difficile conciliare il fatto di partecipare ad iniziative contro la base con la possibilità di poter trovare, com’è successo, durante queste iniziative, la presenza “solidale”, di sindaco e assessori del Pd (il Pd delle coop che costruiranno la base, il Pd del parlamentare/industriale Calearo principale sponsor della costruzione della nuova base, il Pd di Massimo Cacciari, sostenitore del Mose a Venezia).
L’iniziale carattere di massa del movimento è scemato, all’opposizione alla guerra che allargava il consenso alla lotta e avvicinava altre realtà nazionali e internazionali è stata scelta l’opposizione principalmente per questioni urbanistiche e d’impatto ambientale, il referendum (consultazione) dei vicentini per i vicentini sull’idoneità del sito dove dovrebbe sorgere la nuova base ha sostituito le manifestazioni a carattere internazionale, la consegna della lotta al sindaco che l’ha istituzionalizzata, principalmente a suo vantaggio, ha completato il quadro.
Se è vero che “il movimento deve essere di massa” è anche vero che solo l’entrata della classe operaia in modo organizzato potrebbe far raggiungere quest’obiettivo in modo definitivo. Se è vero che “in Italia gli operai sono aumentati del 13% mentre il numero degli imprenditori è calato del 34%”, se la crisi economica è fatta pagare ai lavoratori, se è vero che le spese per la guerra aumentano e tolgono risorse ai salari, ai servizi sociali, all’ambiente, allora sarebbe il momento che l’opposizione alla nuova base dichiarata da Cgil e Cub abbandonasse il carattere “politico/culturale” o “movimentista” e diventasse conseguente usando gli strumenti propri delle organizzazioni sindacali: l’informazione ai lavoratori e la loro organizzazione in azioni di lotta per la difesa delle proprie condizioni materiali e di vita (e in questa difesa la battaglia contro la costruzione della nuova base diventa una questione d’importanza rilevante).
C’è ancora una speranza, a nostro avviso, affinché il movimento ritrovi la sua unità e la sua forza. E’ necessario che, innanzitutto, si smarchi da giunte e governi (di centrodestra o di centrosinistra), rivendichi la sua autonomia politica, pretenda dalle proprie organizzazioni sindacali il coinvolgimento dei lavoratori in modo reale e organizzato (soprattutto in questo momento di licenziamenti e povertà crescente), chieda lo sciopero generale contro la costruzione della nuova base di guerra che servirà per nuove guerre, guerre che il capitalismo usa da sempre per risolvere le sue crisi.
Al contempo sarebbe importante l’organizzazione coordinata, da parte dei comitati presenti nel territorio, di mobilitazioni quotidiane per creare l’inospitalità nei confronti dell’esercito Usa, iniziative che puntino a mettere in discussione anche i siti già presenti (Ederle, Gendarmeria Europea, ecc..) attraverso inviti alla diserzione ai soldati e la dichiarata avversione alla presenza in città del comando Usa/Nato.
Il lancio, da parte delle organizzazioni sindacali presenti a Vicenza (Cgil, Cub, Cobas, ecc..) insieme alle associazioni e comitati contro la guerra e per la difesa dell’ambiente, di una nuova e grande manifestazione potrebbe essere il segnale che il movimento intende rialzarsi e ritornare ad essere forte come e più di prima.
La crisi economica, che vede migliaia di famiglie di lavoratori pagare per un sistema fallimentare basato sul profitto di pochi e sulla miseria e disperazione di molti, aggiunge tragici ma validi motivi perché questo tentativo possa essere osato.
(1) Giornale di Vicenza, 20/02/2009
(2) Vicenza Più, 07/03/ 2009