Non entriamo qui nella disamina delle ragioni giuridiche che hanno portato la Consulta a dichiarare incostituzionale le legge in questione (2). Esaminiamo, piuttosto, a partire dalle scomposte reazioni della coalizione governativa, il quadro politico che si è venuto delineando.
Subito dopo la sentenza, Berlusconi, schiumando rabbia livida, è stato un fiume in piena. Da tutti i microfoni, in tutte le trasmissioni televisive, su tutti i giornali, la versione è stata una sola: lui è un perseguitato politico, la Corte è un covo di comunisti e non un organo di garanzia, il capo dello Stato è “di sinistra”, i giornali criticano l’operato del governo perché sono “anti-italiani”, la Rai è una cellula di sovversivi; e via di questo passo.
La strategia, con qualche sfumatura fra gli esponenti della maggioranza (3), è stata da subito quella di alzare il livello dello scontro, aumentando il volume di fuoco contro ogni istituzione potesse sbarrargli il passo, allo scopo di preparare l’opinione pubblica a riforme giudiziarie immediate che lo mettano al riparo dagli incombenti processi Mills (4) e Mediaset; ed anche per organizzare la base di consenso per una complessiva riforma costituzionale che riguardi sia il potere giudiziario, sia quello politico.
È questo il senso del c.d. “editto bulgaro”, cioè le frasi pronunciate da Sofia (dove si trovava in visita ufficiale) da Berlusconi, che ha annunciato una “rivoluzione” nell’assetto istituzionale del Paese (da radicali riforme in materia di giustizia, fino al presidenzialismo) da adottare a maggioranza e sottoporre poi a consultazione referendaria confermativa (5).
E di quest’ansia dei padroni si è subito reso interprete Gianfranco Fini, che da tempo – come più volte abbiamo sottolineato su questo sito e nel nostro giornale – si sta ritagliando un ruolo di rappresentante di una destra moderna, europea e liberale, particolarmente gradita ai poteri forti della grande borghesia finanziaria e industriale, che prediligono un quadro di pace sociale ed istituzionale in cui far maturare le “riforme” che hanno a cuore.
Rispetto ai proclami berlusconiani, Fini ha usato parole di grande moderazione, invitando a cercare nel parlamento larghe intese ed a privilegiare la condivisione con le opposizioni se si vuol mettere mano alla Costituzione e ponendo dei paletti rispetto al disegno del premier di rendere i pubblici ministeri dipendenti in un modo o nell’altro dal governo.
Le posizioni espresse dal Presidente della Camera hanno trovato subito il plauso degli industriali, che, spazientiti dalla virulenza degli attacchi di Berlusconi ed impauriti dalla prospettiva della grande instabilità istituzionale che deriverebbe da una testarda calendarizzazione di riforma costituzionale spinta dal premier fino all’ipotesi del presidenzialismo, hanno esplicitamente fatto capire al capo di governo che sarebbero finanche disposti a mollarlo (6).
Rivolgendosi a ben altri settori sociali, il ministro delle finanze, Tremonti, ha popolarizzato quella filosofia “anti-finanza” di cui da tempo si presenta come interprete: una filosofia tutta fatta di critica ai mercati, alle banche, alla “globalizzazione”; una visione che privilegia “i produttori” rispetto agli “speculatori finanziari” e che trova la sua consacrazione nell’apologia del valore del “posto fisso”.
Tremonti gode di notevole credibilità internazionale per il suo ruolo di custode della spesa pubblica italiana, ma – soprattutto per questo (7) – di non altrettante simpatie all’interno della coalizione governativa che non sopporta la sua figura di “uomo solo al comando”, che ha la prima e l’ultima parola in materia di economia e finanza.
Sta di fatto che, come un fulmine a ciel sereno, Tremonti ha fatto irruzione sulla scena pubblica magnificando il “posto fisso” come base fondante della stabilità sociale.
Sorvolando sul paradosso per cui Tremonti è l’esponente non già di un governo, ma di una complessiva “politica” che, negli ultimi trent’anni, attraverso tutti i tipi di governi, di centrodestra e di centrosinistra, ha avuto proprio la distruzione dell’idea del posto fisso come suo asse centrale – con l’esaltazione ideologica, invece, della flessibilità del lavoro – quest’uscita ha scatenato una serie di reazioni polemiche: da quella – scontata – di Confindustria (8) a quella – preoccupata di un possibile “scavalcamento a sinistra” da parte del ministro – del Pd. Entrambe di bocciatura, come fossero una boutade, delle dichiarazioni tremontiane.
Anche in questo caso, come in quello di Fini, l’exploit di Tremonti aveva lo scopo di farlo uscire dallo stretto profilo tecnico di ministro dell’economia per accentuare invece quello “politico” di candidato alla futura leadership di una coalizione di centrodestra non più dipendente da Berlusconi.
Se ne è avuta la prova nei giorni successivi. Dopo avergli fornito una difesa d’ufficio dalle critiche, il capo del governo ha approfittato di quella che è la principale richiesta degli industriali – il taglio dell’Irap – per garantire che si trattava di una misura già in cantiere. È evidente che rinunciare a 40 miliardi di euro di tasse senza trovare un’adeguata copertura costituiva un annuncio che suonava più come uno schiaffo a Tremonti. Sta di fatto che la Marcegaglia è subito passata all’incasso e il ministro è rimasto col cerino della salvaguardia dei conti pubblici in mano, completamente isolato a fare la figura di colui che ostacola la realizzazione del programma di governo, che infatti il taglio della tassa lo prevedeva.
Insomma, una vera e propria polpetta avvelenata per Tremonti. Che, forte del suo solido legame con la Lega Nord ha velatamente minacciato le dimissioni chiedendo in contropartita la nomina a vicepremier. Una concessione che Berlusconi non poteva assolutamente fare, in ciò ritrovando l’appoggio di Fini e del suo stato maggiore. Il capo del governo e il suo ministro hanno allora ingaggiato una battaglia che ha rischiato di destabilizzare l’esecutivo e i due contendenti.
Si è giunti a una tregua armata in cui tutti ottengono qualcosa: Berlusconi difende la propria leadership e protegge il suo governo dalle paventate dimissioni di Tremonti; quest’ultimo, non potendo certo rafforzare, attraverso la carica di vice primo ministro, la sua posizione di gestore unico della politica economica dell’esecutivo, salva le sue prospettive e mantiene il suo ruolo di “gran mogol” dell’economia e della finanza, dal momento che ogni ipotesi di provvedimento di spesa avanzata dai settori del centrodestra che gli sono avversi (Baldassarri, ex An, ed altri) deve continuare a scontrarsi con le compatibilità del bilancio che lui solo può gestire. Prova ne sia che persino la versione soft di taglio dell’Irap (un alleggerimento per le sole imprese inferiori a 50 dipendenti) è stata subito bocciata, a dispetto dell’armistizio firmato da Berlusconi e Tremonti, dal sottosegretario Vegas per mancanza di risorse.
Resta il fatto che, nonostante le forti critiche mossegli da Confindustria per la sua concezione di custodia “sacerdotale” dell’ortodossia dei conti pubblici che rende impossibile ogni taglio di imposte sui profitti dell’impresa, Tremonti gode comunque delle simpatie della grande industria, che lo accredita di un futuro di interlocutore affidabile per il dopo-Berlusconi (9), e sta tentando di ricucire i rapporti anche con la grande finanza, con cui non c’è mai stato un grande feeling (10).
Insomma, il ministro continua a giocare in proprio, per il proprio futuro non da tecnico, ma da politico.
Certo, ora si trova a dovere far risalire la china al partito che ha ereditato, togliendolo dalle secche in cui è precipitato; deve scrollargli di dosso quella “vocazione all’autosufficienza” di veltroniana memoria e, pertanto, tessergli intorno una rete di alleanze tutta ancora da definire e da modulare.
Tra l’altro, eredita un partito che si porta all’interno un equivoco: quel Francesco Rutelli, che, all’ennesima svolta trasformistica, ha preannunciato la sua uscita dal Pd proprio in concomitanza dell’elezione del neosegretario.
Anche in questo caso, la grande borghesia guarda con estrema attenzione alle vicende interne del principale partito d’opposizione. E ciò per un motivo speculare rispetto alle ragioni che la portano ad esaminare i sommovimenti all’interno della coalizione di governo: perché una guida certa del principale partito d’opposizione (un partito, non dimentichiamolo, compiutamente liberale), una leadership tranquilla, operosa, non isterica, che diriga in parlamento un’opposizione costruttiva e collaborativa, è una manna dal cielo per un padronato che ha bisogno di un quadro istituzionale privo di scontri scomposti e connotato dalla giusta pace sociale per potere avanzare le proprie rivendicazioni.
In questo senso, la segreteria Bersani porta con sé in dote l’elezione negli organismi nazionali del Pd dei più alti dirigenti confederali; e dunque, garantisce che il sindacato non sia una “scheggia impazzita” nelle trattative per il rinnovo dei contratti e nella gestione dei punti di crisi occupazionale che si profilano in conseguenza della crisi economica.
Non è casuale che il giornale confindustriale dedichi ampio spazio al giovane pool economico di Bersani (11). Ed è ancor meno casuale che lo stesso foglio dedichi al neo-segretario un fondo in cui plaude alla sua iniziativa di visitare, subito dopo l’elezione, il distretto tessile di Prato, elogia la sua volontà di mettere da parte gli scandali a sfondo sessuale che attraversano le organizzazioni politiche (Pd compreso, v. caso Marrazzo) per rivolgersi ai ceti produttivi e gli detta l’agenda per poter entrare in sintonia col padronato: “Bersani lavori sull’economia: un tempo il suo nome era sinonimo di liberalizzazioni. Riparta da lì segretario e in fretta” (12).
(1) Presidente della repubblica, Presidenti della Camera e del Senato, Presidente del Consiglio dei ministri.
(2) Particolarmente odiosa, peraltro, dal momento che garantiva il premier dai processi riguardanti tutti i reati, anche a quelli c.d. “extrafunzionali”: sicché, ad esempio, un Berlusconi pedofilo o ladro in un supermercato, sarebbe andato automaticamente esente da processo per il solo fatto di essere premier.
(3) E, in alcuni casi, con qualche imbarazzo e, come vedremo, con qualche distinguo.
(4) Mentre scriviamo, è stata appena resa la sentenza della Corte d’Appello di Milano che, confermando la pronuncia del primo grado, statuisce che Mills era stato corrotto da Berlusconi; il quale, però, per gli effetti del “lodo Alfano” finché è stato vigente, non è stato processato per il medesimo reato quale corruttore. Mentre il procedimento Mills va ora in Cassazione, quello a carico del premier – stralciato per effetto del lodo – inizia appena adesso ripartendo dal primo grado: di qui la necessità di una qualche leggina che ne renda più accidentato il percorso sì da arrivare più facilmente alla prescrizione.
(5) È questo il procedimento previsto per revisioni della Costituzione che non siano approvate con maggioranza parlamentare qualificata: il premier però, com’è nel suo costume, vuol farlo passare per una sorta di investitura popolare.
(6) “La linea [di Fini] fa proseliti, implicando un investimento sulla futura leadership del Pd … Si sta tessendo, quasi alla chetichella, una rete trasversale relativa alle riforme possibili. Dalla giustizia alla forma dello Stato, fino a un rafforzamento dell’esecutivo che esclude in ogni caso il presidenzialismo caro a Berlusconi … Fino a che punto un premier che insiste nell’annunciare la sua ‘rivoluzione’ e attacca di nuovo la Consulta rappresenta oggi il volano delle riforme? O si deve pensare che si stia delineando ormai un ampio fronte, favorevole a un programma riformatore, ma scettico e imbarazzato di fronte al ‘muro contro muro’ berlusconiano?” (Folli, Le corna del toro e la tessitura delle riforme «condivise», Il Sole 24 Ore, 17/10/2009).
(7) Oltre che per il suo non facile carattere.
(8) Che ironizza sul “piccolo mondo antico” che il ministro intenderebbe rappresentare (Alesina-Ichino, I vecchi modelli del paese arretrato, Il Sole 24 Ore, 29/10/2009).
(9) “Caro Ministro, occhio! Meglio una critica franca del solito, nefasto, fuoco «amico»”, Con Tremonti contro le cimici, Il Sole 24 Ore, 22/10/2009.
(10) Lo scorso 26 ottobre, Tremonti ha incontrato a pranzo il gotha del sistema bancario e finanziario-assicurativo italiano (Pranzo del disgelo con i banchieri, Il Corriere della Sera, 27/10/2009).
(11) I ghost writers delle lenzuolate, Il Sole 24 Ore, 28/10/2009.
(12) Da paparazzi a produttori, Il Sole 24 Ore, 27/10/2009.