La prima manifestazione di questi fantasiosi esercizi di stile (neanche troppo riusciti!) è stata l’insinuazione del messaggio per cui nell’attualità dell’oggi non sia più possibile parlare di classe operaia nel senso universalmente inteso; ciò perché, secondo questi epigoni del negrismo, l’operaio negli ultimi anni si è imborghesito (confondendo così, in modo imperdonabile, la classe operaia con le burocrazie sindacali le cui potenzialità imbrigliano) e dunque occorre che riacquisisca la capacità di mobilitarsi imparando dall’esperienza degli studenti. Viene così completamente stravolto un caposaldo centrale per chiunque voglia innestare nell’attualità elementi di progressività radicali, quello cioè della centralità della classe operaia.
Anzitutto il concetto di “autoriforma”; le considerazioni che ci portano a giudicare l’insostenibilità di tali scelte strategiche sono consequenziali ad un principio molto semplice: non è possibile curare con un’aspirina un malato di cancro!. Spieghiamoci meglio: il significato stesso di “riforma” affonda le proprie radici nella sostanziale accettazione dello stato di cose presenti. Così proseguendo la dissertazione si condurrebbero gli studenti che sinceramente hanno aderito alla protesta dei mesi scorsi verso una conclusione completamente mistificante, quella per cui sarebbe possibile la creazione di una sorta di Eden (l’università) completamente estraneo alla realtà che lo circonda. Osservando la Storia, sappiamo bene che pensare ciò è irrealistico e fuorviante per il semplice fatto che l’ossatura di un sistema sociale è costituita principalmente dal proprio indirizzo economico. Occorre sottolineare l’irrealizzabilità di questa prospettiva e proporre altri orizzonti politico-strategici per rivitalizzare questo straordinario movimento. Certamente uno di questi non può essere "l’autoriforma" per i motivi che sono stati precisati a cui necessita aggiungere l’inattendibilità di un anacronismo storico quale quello dell’abbandono della centralità della classe operaia. Riaffermiamo questa realtà non in base ad un astratto misticismo (che non ci appartiene) verso l’approccio del marxismo, ma “solamente” perché è l’effettività dell’intero sistema economico a marciare in tal senso. Non corrisponde al vero un’affermazione che taluni hanno avuto l’ardire di proferire per cui “dagli studenti si ricava plusvalore”. Entrando nel merito della disquisizione verrebbe subito da porre le seguenti domande: “quale plusvalore?” e soprattutto “quando questo plusvalore viene sottratto?”. Risposte a tali domande retoriche non ve ne sono semplicemente perché la questione è posta in termini erronei e probabilmente anche perché non si ha ben chiaro cosa sin intenda per “plusvalore”. Non ci interessa in questo ambito una chiarificazione del concetto di “plusvalore”; quel che è di fondamentale importanza è spiegare la contraddizione in termini di cui sopra: l’unico plusvalore che il governo può trarre dall’apparato universitario è quello derivante dai tagli (presenti in larga misura nella legge 133/2008) inferti all’insieme del personale che costituisce quella moltitudine (non in senso negriano, anzi) di operatori sottopagati grazie ai quali l’università italiana continua ad evitare il collasso sotto il peso delle inefficienze e delle cecità legislative susseguitisi negli ultimi venti anni. Parliamo di lavoratori, precari, ricercatori, studiosi costretti a vedere messo in pericolo il proprio posto di lavoro (sia esso manuale od intellettuale) sull’altare del finanziamento statale a quei soggetti che questa monumentale crisi hanno procurato; cioè quei poteri forti (banche, Confindustria etc.) verso le quali l’azione di un movimento radicale ed incisivo dovrebbe rivolgersi.
Alcuni numeri possono fare ben comprendere il senso di quanto detto in precedenza: la legge 133/2008 ha stabilito 1.441.500.000 euro di riduzione della spesa pubblica verso il sistema dell’Istruzione entro i prossimi cinque anni, favorendo al contempo (tanto per citare solo due esempi della benevolenza governativa verso gli interessi padronali) politiche di abbattimento dell’Ici e la scriteriata scelta riguardante Alitalia. Nel primo caso si preferito sostenere la proprietà individuale piuttosto che una politica di edilizia popolare seria e costruttiva che ponga fine ad un’ingiustizia odiosa come quella di affitti ad un grado usurario; nel secondo caso si è scelto di far prevalere le non-ragioni di un manipolo di imprenditori in ossequio al principio di tutela governativa degli interessi dei poteri forti.